Ieri, non appena si è sollevato il polverone legato all’annuncio della line-up della Boiler Room di Napoli in programma il prossimo 10 dicembre, mi è venuta in mente una vecchia striscia dei Peanuts in cui Charlie Brown e Linus parlavano del prossimo sostenendo che non fosse necessario alzare il proprio livello (nel loro caso della fortuna), piuttosto far sì che quello degli altri venisse livellato verso il basso. Verso il loro.
Benché qui il fato e il culo c’entrino poco, la similitudine mi è sembrata chiara: anziché guardare con occhio lucido e, perché no?, lungimirante verso le opportunità che una vetrina simile può offrire non solo agli artisti coinvolti (e alle realtà ad essi collegate) ma all’intera scena, nonostante il nome di punta dell’edizione napoletana del party in telecamera più famoso del mondo sia uno che dalle nostre parti passa solo per radunare migliaia di ragazzi e col club vero e proprio, quello che puristi “obiettori di coscienza”, non ha più nulla a che spartire, ci si aggrappa a qualsiasi appiglio per fare del disfattismo la propria croce. Ragazzi, a quanto pare ce l’abbiamo dentro, c’è poco da fare.
Prima di proseguire con il muro di parole, chiariamo un paio di punti fondamentali: quello che leggerete non è una predica, perché se c’è una cosa più stucchevole di un trentenne che se ne esce con “Peccato rovinare un evento così bello organizzandolo nella città più puzzolente e sporca del mondo. Tenete la telecamera a lucchetto sennò va’rubban’!”, questa è un suo coetaneo che cerca di sostituirsi al padre. Non serve, e lo sapete perché? Perché chi si lascia andare a frasi del genere dimostra in primis un’educazione vergognosa, e in secondo luogo palesa una coscienza musicale tutt’altro che completa. Napoli, “quella dei ladri e dei disonesti, quella sporca e poco sicura”, oltre a essere una città meravigliosa abitata da tanta gente appassionata e passionale, è stata tra la metà degli anni ’90 e la metà degli anni ’00 il centro della scena techno mondiale, elevando la nostra Penisola a vera e propria eccellenza grazie a un gruppo di artisti dal talento sconfinato. Queste sono solo due delle centinaia di ragioni per cui, sì, Napoli merita di ospitare la Boiler Room.
Detto questo, però, oggi preferiamo concentrarci su un altro aspetto, quello legato al business del mondo della notte, magari per fare chiarezza su un punto tanto fondamentale e imprescindibile, ma al tempo stesso evidentemente poco chiaro ai più: non esiste nessun promoter o sponsor disposto a pagare un artista senza aspettarsi un ritorno, economi o d’immagine, proporzionale all’esborso. È lo stesso discorso che vale per Cristiano Ronaldo e la Nike: voi pensate il marchio col baffo paghi il portoghese per la sua bellezza e per la sua simpatia o perché gli fa vendere gli scarpini? Se riusciamo ad afferrare questo punto, senza fare i finti-tonti venuti da Marte, capiamo anche perché Boiler Room scelse per la sua tappa di Milano Dj Harvey anziché un qualsiasi altro artista italiano. In quell’occasione c’era Ray-Ban dietro, si voleva veicolare un certo tipo di immagine (non solo musicale) al party e si desiderava raggiungere quanti più spettatori possibili perché – questo non ve lo deve certo insegnare Matteo Cavicchia -, che vi piaccia oppure no, il buon Harvey è stato uno degli artisti più seguiti dell’ultimo biennio e per questo un marchio famoso ha scelto di puntare su di lui per investire il suo denaro.
Che astrusità, vero?
In quest’ottica risulta chiara come il sole la scelta da parte di Boiler Room – anch’essa un marchio, al pari degli sponsor che la affiancano e foraggiano – di puntare su Joseph Capriati, l’artista italiano più seguito all’estero dopo quel Marco Carola che in questo contesto ci sarebbe stato bene (eccome!) e che lo stesso giovane casertano ha a più riprese affiancato (e sostituito) durante le stagioni estive di Music On. Chi ci vede qualcosa di strano ha dei problemi di vista, perdonate il banale giro di parole, oppure è in malafede: se a Milano mancava l’artista italiano a fare da centravanti alla corazzata Boiler, con il solo Fabrizio Mammarella ad aprire le danze, relegato a ruolo di maggiordomo, qui ci sono solo icone della napoletanità. Oltre a Capriati, infatti, sarà la volta di Markantonio, Gaetano Parisio e Luigi Madonna. E pazienza se anche Danilo Vigorito avrebbe comunque potuto dire la sua, pazienza se anche tutta la crew Early Sound (con Rio Padice / Mystic Jungle a guidare la carovana) ci sarebbe stata benissimo; quando si ha a che fare con un investimento bisogna sempre tenere nel proprio mirino l’obiettivo da raggiungere. Restando in tema musicale, chi di voi gestisce un’etichetta discografica, grande o piccola che sia, sa benissimo di cosa stiamo parlando.
Ma se nessuno – o per lo meno pochi – di noi si alza la mattina e fa della beneficenza il suo lavoro, perché mai Boiler Room dovrebbe fare eccezione? Ecco, se col campanilismo c’è ben poco fa fare (e ancor meno è la nostra voglia di mischiarci con certe attitudini vergognose) saremo sempre pronti a misurarci in confronti che dimostrano di saper tenere conto di come il carrozzone del clubbing sia cambiato, diventando un gioco per grandi, dove qualsiasi lodevole iniziativa filantropica rappresenta comunque un’eccezione.