Allora, che te ne pare del nuovo disco di Kanye West? Ah no, scusa, mi devo essere sbagliato: ehm, questo è bianco, simpatico e umile. Non è Kanye. Però oh: da un punto di vista attitudinale, a me “22, A Million” ricorda tantissimo l’ultimo Kanye. Per l’alternanza tra momenti “pieni” e altri scarni e confidenziali. Per un certo tipo di retorica, come dire?, grandiosa – esemplificata anche dal riaffiorare di schegge gospel di qua e di là. Per il coraggio anche di fare scelte di (post)produzione apparentemente bizzarre e lontane dai manuali del pop più compìto, compiuto ed educato. C’è un sacco di Kanye. Ma mentre Kanye mi pare si prenda mortalmente sul serio, in Justin Vernon mi pare di vedere una tranquillità e una umiltà di fondo. Sto delirando? E anche: mi sto facendo influenzare dalle rispettive “public persona”?
Ma sai che invece ti stavo per scrivere completamente un’altra cosa?
Perché sì, OK, è amichetto di Kanye, hanno collaborato molto insieme negli ultimi anni e poi quel pazzo va pure in giro a dire che Justin è tipo il più grande artista vivente (dopo di lui, ovviamente), però io qui ci ho sentito completamente un’altra cosa. Cioè: di base stiamo parlando di quel mondo lì, quello del pop contemporaneo – che poi se ci pensi è una bestia strana perché non è poi così tanto pop, ma appena è partita “22 (Over Soon)” il mio primo pensiero è stato che sì, Bon Iver in questi anni deve essere proprio andato in fissa con Peter Gabriel.
O forse sono io che sono andato in fissa con l’idea che Justin Vernon voglia provare a essere una specie di Peter Gabriel moderno. Chi lo sa?
Comunque non lo so se uno che sceglie certe titoli per le sue canzoni, e con quella grafia lì, possa essere ancora considerato simpatico. È dai tempi di Druqks di Aphex che non si vedevano dei titoli così stronzi per delle canzoni pop. Perché alla fine è pop, no?
Questa cosa dei titoli, te lo giuro, te la stavo per scrivere io! Mi verrebbe proprio da chiedergli, al Justin: “Ma maledizione, perché?!”. Cioè, è fastidio vero già leggerli, figuriamoci trascriverli! Forse, chissà, semplicemente vuole rovinare la vita a chi dovrà scrivere del suo disco – che insomma, per quanto lui sia buono ed educato non mi sorprenderebbe del tutto…
Mi ritrovo perfettamente nella tua analisi petergabrieliana, nell’evidente tentativo di far fare un passo in avanti al pop contemporaneo, e penso sia complementare alla mia sulla kanyizzazione di Bon Iver. Prendendo come termine di paragone Gabriel, mi pare però che Vernon si “nasconda” molto di più. A partire dalla voce: praticamente sempre effettata, in modo anche piuttosto pesante. Una cosa in teoria assurda, no?, pensando a come una delle prime armi di Justin Vernon / Bon Iver sia proprio la voce; ma forse è esattamente quello che cerca. Mascherarsi, sì. Confondere le acque. E questo, magari, spiegherebbe anche la scelta psicopatica dei titoli, tra parole a caso, simboli che trovi solo nella tavoletta dei simboli del Mac, spaziature errate. Ripeto, anche solo leggerli, vederli su uno schermo è respingente e/o ti confonde.
Confonde poi le acque anche nel modo di buttare giù i testi della parti cantate, arriverei a dire. Perché sono testi mi pare molto personali, quindi in teoria è lui che si “apre” all’ascoltatore, però talmente buttati giù a schegge, a lampi, in modo destrutturato, da dover fare molti sforzi per ricostruire, ex post, una narrazione precisa.
Peter Gabriel non mi pareva così mefistofelicamente predisposto a confondere le acque. Kanye sì, ma solo perché sobillato dal suo ego. Bon Iver credo invece si stia proprio nascondendo. Però lo frega il fatto che la sua musica non è fatta per nascondersi: è sempre molto cantabile, anche quando invasa da pause, arresti improvvisi, equalizzazioni surreali. Ti torna? Ma soprattutto, questo disco ti sembra un passo in avanti o uno indietro, rispetto al fortunatissimo lavoro precedente? O forse addirittura un passo a lato?
Secondo me hai centrato il punto: Bon Iver è arrivato sulle bocche di tutti grazie a un disco – “For Emma, Forever Ago” – che è gli è quasi “capitato per caso”.
Non so se sai la storia: lui arrivava da questa pesantissima rottura sentimentale, la band in cui suonava si era appena sciolta e in più si era pure beccato la mononucleosi (pare in forma davvero acuta). In questo mare di sfiga ha avuto la pensata di andarsene per un po’ di tempo a vivere in una specie di capanna nel Wisconsin con solo un microfono, una chitarra e un registratore.
Il successo avuto da quel disco avrebbe condannato chiunque a una vita di brani unplugged, ma mentre i suoi pezzi finivano per venire coverizzati in tutti gli X Factor del mondo (lo dico per collegarmi alla storia della voce: qual è il luogo per eccellenza in cui si celebra la vocalità se non il talent show?) lui ne ha approfittato per spostarsi subito da un’altra parte (o di lato, come dici tu).
Non posso farci nulla: in un mondo musicale in cui, appena si ottiene il successo, si tende a replicare una formuletta che funziona all’infinito, ho troppa stima degli irregolari, quelli che seguono percorsi che sono solo propri e non si fanno influenzare dal giudizio del pubblico. Con la musica di Bon Iver, infatti, ho un rapporto strano: col tempo ho capito che mi piace forse più l’idea dell’applicazione. Ma credo che la sua figura sia comunque molto importante.
Mi piace, per esempio, il fatto che l’uscita di ogni suo nuovo disco (sia come Bon Iver ma anche come Volcano Choir) susciti un certo tipo di reazione schifata da parte del pubblico indie, un pubblico che nasce rivoluzionario ma che in realtà è fortemente conservatore. Per me sta diventando un’ossessione: credo sempre di più che il pop si stia trasformando nel vero luogo dove si sperimentano le cose, mentre nell’underground domina la riproposizione – creativa, certo – di canoni in realtà già belli che codificati. Prendi “33 God”: prodotta in un altro modo potrebbe essere una canzone dei Coldplay e invece così sembra quasi la versione destrutturata di una canzone pop. Che poi si torna a quello che dicevi tu prima: a Bon Iver piace prendere una cosa “facile” e renderla complicata.
Comunque secondo me su Kanye sbagli: dal punto di vista prettamente musicale è un visionario. Uno che ha le idee chiare su dove vuole andare a parare anche se poi la follia del personaggio fa apparire tutto come quasi accidentale. Ma i fiati? Ti hanno colpiti i fiati? Mi sembrano uno degli elementi principali del disco.
Non solo ti sembra: lo è. E non lo dico io, lo dice il fatto che in una delle tracce Vernon ha voluto sovraincidere qualcosa come centocinquanta linee di sax. Centocinquanta! Almeno, così dice lui; magari è una sparata, ma di sicuro quello dei fiati è un elemento centrale di questo lavoro. Altra irregolarità, a ben pensarci: quale strumento più sputtanato e fuori moda del sax? Era figo ai tempi di Sting e Branfrod Marsalis (…ricordi? I primi dischi solisti di Sting: quando era ancora un tastemaker), era super quando Joni Mitchell arruolava Michael Brecker, ma oggi come oggi un certo tipo di pubblico se dici “sax nel pop” pensa più con un po’ derisione a Fausto Papetti che ad esempi più virtuosi. Uh, però questo mi fa ripensare ad un altro disco dove il sax, almeno in un paio di casi, giocava un ruolo forte: “Debut” di Björk, dove Oliver Lake è stato chiamato ad insaporire alla grande.
Insomma, direi che possiamo confermare che “22, A Million” è un disco davvero interessante. Vero: il pop oggi è il posto delle sperimentazioni più della scena indipendente e delle varie nicchie, più dell’elettronica. Per quanto seccante possa essere ammetterlo (…e per quanto effimero questo stato delle cose possa essere, secondo me non dura, il pop in linea di massima resta per me il posto di ciò che è “medio”, poi ogni tanto ci siano dei periodi in cui questa regola si sospende – una sospensione necessaria per l’auto-conservazione del pop medesimo). Alla luce di tutto questo, e alla luce del tuo accenno che su Bon Iver alla fin fine forse ti piace “più l’idea che l’applicazione, ti faccio la domanda secca: “22, A Million” è un disco che si può amare, amare visceralmente? O invece lo si può solo apprezzare e stimare?
Ma no dai, non è vero: lo scorso anno se ci pensi è stato un po’ l’anno del sax. Ti ricordo che il disco di Kamasi Washington è stato disco dell’anno più o meno ovunque.
Comunque, se parli del sassofono, nei dischi pop non puoi non nominare Bruce Springsteen e Antonello Venditti. Sono loro i maestri assoluti!
Scherzi a parte: il problema secondo me è tutto lì. È impossibile innamorarsi di questo disco: sembra quasi che Bon Iver (che poi dovremmo dire i Bon Iver altrimenti i suoi fan hardcore s’incazzano e dicono che non abbiamo capito che in realtà ormai si tratta di una band) abbia passato gran parte del suo tempo a pensare al modo in cui sabotare – in maniera intelligente e indubbiamente creativa – queste canzoni. Un po’ come se il messaggio “personale” che voleva far passare con questo disco fosse più importante del disco stesso.
Perché, secondo me, si sente che qui c’è una scrittura davvero tradizionale che si sforza ad apparire altro. Aveva fatto una roba simile già con l’album immediatamente precedente – e il fatto che si chiamasse “Bon Iver” non è altro che la testimonianza diretta di come volesse in tutti modi far capire quanto “For Emma” fosse stato un incidente di percorso – ma lì aveva lavorato a riempire. Qui invece è come se si sia messo volontariamente a spaccare le sue canzoni con un martello pneumatico. Ma non sempre gli riesce benissimo.
Il rischio insomma è di avere un altro disco più bello da descrivere, analizzare, dissezionare che da ascoltare. Vero? Però oh, non vorrei dessimo l’impressione che “22, A Million” sia un mattone pesante ed inascoltabile. In realtà nonostante tutto il martellamento pneumatico – ottima immagine! – a cui lo sottopone il suo autore, alla fine si fa ascoltare piuttosto volentieri. In qualche modo “riscalda” ed appassiona il giusto. Insomma, avercene di dischi così, anche e non solo per poter fare le nostre elucubrazioni meta-musicali.
Poi, una cosa che mi fa sorridere è che un tempo questo disco sarebbe stato subito infilato nel grande casellone dell’”indietronica”, ma proprio senza dubbio alcuno. Oggi questa casella catalogatoria è stata praticamente cancellata, anzi, se ancora esiste è in qualche accompagnata da un alone di sfiga, di roba per gente-rimasta-indietro. Forse una delle cose più belle dei dischi pop “irregolari” è che rimettono in circolo idee e soluzioni che il pubblico specializzato di taglio non-mainstream, nel suo, aveva troppo presto dato per bollite e completamente sfruttate. Tornando a Kanye, visto che ero partito da lui: per me il suo merito principale, proprio fin dai suoi esordi, è di aver reso potabile al grande pubblico soluzioni che in contesti meno popolari pascolavano già da tempo.
Bon Iver, con piglio molto personale, molto contemporaneo, molto intelligente, rimette in circolo qualcosa che già si sentiva con Schneider TM o i Notwist, giusto per fare due nomi. E non lo dico per sminuire Bon Iver, assolutamente!, ma per pagare un tributo a chi certe vie le aveva percorso ancora dieci, quindici anni fa.