Decenni passati a suonare e produrre musica hanno fatto di Boo Williams un nome che rientra a pieno titolo nell’Olimpo delle divinità di Chicago, una specie di club dove il fumo non arriva dalle macchine, bensì dalle nuvole e dove non c’è mai coda all’entrata perché la sicurezza ti conosce bene e ti accoglie con una manciata di consumazioni gratis. Sebbene Boo abbia ormai quasi cinquant’anni non ha perso la verve e l’energia dei vent’anni, continuando a produrre musica sotto la propria etichetta Strictly Jaz Unit. In virtù del suo suo ottimismo e della sua conoscenza dei fatti e dei luoghi storici per la scena house, parlare con Boo è un’esperienza ispirante. Lo abbiamo intervistato via Skype per una chiacchierata sul passato, il presente e il futuro della musica house (ed in occasione della sua prossima data all’Odyssia Festival in Grecia).
Incominciamo dalla fine, ovvero dal nuovo disco che hai appena pubblicato. Si tratta di un EP con due remix della tua pietra miliare “Mortal Trance”, uno per mano di Ricardo Miranda e il secondo ad opera di Jordan Fields. Come mai questa scelta, a diciott’anni dalla prima pubblicazione?
Non è che sia esattamente una release – per ora è un white label che ho deciso di far uscire con alcuni remix del mio “Mortal Trance”, ma ho in programma di pubblicarlo per la Strictly Jaz Unit, l’etichetta mia e di Glenn [Underground]. Volevo che i nuovi DJ la potessero suonare, anche in versioni leggermente diverse – il remix di Ricardo Morando è strepitoso ad esempio. C’è un ritorno a quelle sonorità e mi pare che il pezzo sia quanto mai contemporaneo, mi pareva sensato rimetterlo in giro.
Leggevo che lo hai composto in quindici minuti…
Ahahaha, sì, anche meno! L’ho scritto quasi 20 anni fa, era il 1997, e l’ho pubblicato per una piccola label dell’Ohio, la Residual Records, e poi successivamente per una label di Las Vegas ed infine su Rush Hour, come brano di apertura del Residual EP. Si, mi ci sono voluti 10 minuti per scrivere il brano. Ero in studio con Glenn e stavamo lavorando su di un pezzo, poi lui è andato in negozio a comprare da mangiare e io volevo buttare giù qualcosa in fretta prima che tornasse. Ho usato un pre set, e ci ho suonato sopra un giro di tastiera, ma era solo per gioco, non volevo farci un pezzo sopra inizialmente. Ci siamo poi resi conto delle potenzialità e di quanto suonasse bene e che sarebbe stata una buona idea pubblicarlo.
Vorrei sapere del tuo background, come è nata la passione per la musica?
E’ iniziato nel modo più classico, con la mia famiglia: mia madre, mio padre, mia nonna, ma soprattutto con mio zio. Lui era un grande, con una collezione di dischi di tutto rispetto: Roy Ayers, jazz, funk, Ray Parker. La domenica andavo a casa sua e ascoltavamo la musica. Non che l’avessi mai presa sul serio, cioè mi piaceva molto per carità, ma è stato quando ho compiuto tredici anni e ho iniziato ad andare alle feste che è diventata la mia vita. Prima che la mia famiglia organizzasse una festa, andavamo al negozio di dischi a comprare musica che ascoltavo per tutto il giorno. Mia madre mi disse che sarei diventato un DJ, non ha avuto torto! Un ulteriore step, è stato quando ho iniziato io a scegliere la musica da suonare alle feste… sai quando sei piccolo sono i tuoi genitori a scegliere, ma come sono diventato un adolescente, mi sono imposto come selezionatore ehehe.
Da quanto conosci Glenn Underground? Se non sbaglio è proprio ad una festa che vi siete conosciuti…
Allora, per essere precisi, ci conosciamo dal 1984, dai primi party di Lil Louis a Chicago. Da allora siamo diventati come due fratelli, abbiamo prodotto musica, condiviso studi di registrazioni ed aperto un’etichetta discografica, la Strictly Jaz Unit.
Visto che menzioni Chicago e le feste di Lil Louis, ti chiedere qual è il tuo parere sul perchè la house music sia nata proprio lì. Quali erano le condizioni che hanno portato alla nascita della house?
Uhm, è una storia lunga. Inizia con la disco, di cui Chicago era un centro nevralgico. La disco è stata molto importante per la Windy City, proprio in virtù della sua valenza sociale. La disco è sempre stata una forte aggregatore, mettendo nella stessa stanza diverse persone, di estrazione sociale diversa e diversi lavori. Con gli anni i bpm si sono un po’ velocizzati, il suono disco si è fatto un po’ obsoleto e la musica si è trasformata in un suono che poi verrà etichettato come house. Il fatto che facessero queste feste in casa, ha contribuito alla scelta del nome. Quando la house music si è imposta, è letteralmente feste ovunque, ogni giorno della settimana. Lavoravamo tutti di giorno e la sera andavamo a ballare, con sconosciuti. Ora quel suono è diventato universale e lo trovi in ogni angolo della terra, ma è nato da noi a Chicago e si chiama house music. Quel suono è diventato universale, è ovunque, ma è nato a Chicago.
Tu sei attivo dai primi anni ’80 e avrai visto crescere un modello che è diventato uno standard nei decenni. Come si è trasformato da fenomeno rivoluzionario a fenomeno di massa – ammesso e non concesso che è una prerogativa di molte mode musicali e che la causa è da ricercarsi nel business…
All’inizio ero un ragazzetto che voleva solo andare alle feste di Lil Louis, Frankie Knuckles e Marshall Jefferson e grazie all’educazione musicale ricevuta dai miei genitori, spesso conoscevo la musica che ascoltavo ai party, da lì ho capito che avrei potuto essere io uno di quelli che suonavano alle feste… Ho visto tutta il corso della musica house, dalle feste in casa agli eccessi di oggi. I giovani dei questa generazione sono nati con la house music, e pretendono di fare house music, copiando pedissequamente dai loro predecessori, mi verrebbe da dirgli di cercare un loro stile, di evolversi e di cambiare, magari inventando una nuova musica. Ai tempi, la musica house era uno strumento che serviva ad aggregare la gente, unire le persone, aveva un sostrato sociale, di amore, quasi spirituale. Si lavorava dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, e poi si correva a ballare con altra gente, sconosciuti che come te avevano un lavoro e che l’indomani sarebbero tornati a quella vita, ma che nel club ballavano e si divertivano. In quegli anni, facevamo festa tutte le sere, non ci fermavamo mai. Da voi in Europa le cose sono più rigide, siete fermi nello schema lavorativo/fine settimana, da noi era tutto più fluido. Sai, devi considerare la musica house come la base di tutto quello che è venuto in seguito, techno, acid, un po’ come il blues e il jazz sono stati la base per tanti altri generi musicali, così la house lo è stata per parecchi altri, anche se non mi piace dividere la musica in generi: la musica è musica e basta.
Quindi diresti che te hai sempre prodotto house music? Sei prolifico e i tuoi dischi si possono trovare sotto diverse categorie…
Io ho sempre e solo suonato house music. Le etichette le hanno inventate dopo, pure troppe mi viene da dirti. Quel che non mi piace di oggi sono queste sottoclassi e sotto insiemi di ogni genere che i media inventano per vendere: c’è la house, la deep, la trance, la acid, la tech… insomma Derrick May fa solo house music, anche molto bene. La musica è sempre stata house music, nient’altro. A volte vedi su Discogs un disco sotto la classe techno, ma poi lo ascolti e non c’entra un tubo con la techno, anche perché se non conosci il background dell’artista, come fai a comprendere che genere stia suonando? Come quando era uscito Jamiroquai che tutti gli appiccicavano addosso decine di etichette come “nu-soul” o “nu-acid-jazz”, insomma mi sembravano tutte sciocchezze! Se fai credere alla gente che esistono tantissimi generi, dividi il mercato e fai più profitto.
Però sai, nell’era di internet, hai bisogno di indicizzare l’informazione, altrimenti la perdi nel mare magnum della rete…
No, la gente fa questo per vendere più musica e fare più soldi, punto. I discografici dividono in infinite sotto categorie così da avere molti più clienti, tipo quelli che dicono che ascoltano deep house e non house, o quelli che ascoltano acid jazz e non techno. Se ti chiudi entri i confini dei nomi, perdi il senso e la visione completa del tutto. All’inizio, mi ricordo, c’era solo un suono di musica house, che aveva la cassa dritta per far salire la botta alla gente fatta, poi sono arrivati Frankie, Marshall, Lil Louis e le hanno dato una patina di sofisticazione che l’ha resa migliore, più bella, più divertente.
Allora scusa se questa era il fondamento del genere, che ne sarà del futuro?
Sai una cosa? Ottima domanda. La house music tornerà indietro, tornerà a quella semplicità di cui ti dicevo prima, quella degli albori. Ora ci sono la EDM e tutti quei cassoni tamarri di ragazzini di diciotto anni che guadagnano troppo, ora la house music è ostaggio di gente che la produce per soldi. Se non torna indietro, ai suoi valori sociali, non può che peggiorare. Il segreto per non vedere la scena del tutto persa è quella di tenerla viva, quella di sudare e continuare a lavorare duro, facendo il proprio e non quello che la gente vuole, ma quello che sappiamo fare. Noi abbiamo la nostra etichetta, con un sound preciso, il cui unico segno distintivo deve essere la qualità. Teniamo il nome di Chicago alto, facciamo un duro lavoro con una passione infinita. Per molta gente, la musica è un secondo lavoro, per cui non la prendono sul serio, noi lo facciamo per campare, perché ci crediamo davvero. Bisogna supportare il lavoro degli artisti, bisogna tenere la scena viva, reale. Bisogna comprare la musica degli artisti, non scaricarla illegalmente, solo così si riesce a mantenere un livello di qualità sufficiente a combattere un sistema discografico che premia la mediocrità. In poche parole keep it real!