Primavera è quel periodo dell’anno in cui rinverdiscono gli alberi, si accorciano le gonne ed escono un sacco di dischi. E solitamente è in quei mesi che, tra la ragnatela di album annunciati a inizio anno e fatti uscire coi naturali tempi della promozione 2.0, riusciamo a identificare delle traiettorie comuni, negli stili, nelle intenzioni o nello spirito. L’anno scorso di questi tempi notavamo la direttiva emozionale che poi finì per produrre alcuni dei dischi più interessanti del 2014, quest’anno invece saltano agli occhi tre album in particolare, prodotti dai nomi che vedete nel titolo: Braille, Shlohmo e Lapalux.
Le ragioni son ben precise. Prima di tutto perché sono album di sincera qualità, che continuano a dare stimoli d’ascolto anche a settimane di distanza dall’uscita e riescono a ricreare un mood di grande eleganza e intelligenza, carattere che li mette in risalto in un periodo in cui il caos generale rende quasi impossibile trovare uno spazio d’ascolto che può assecondare tempi più lunghi della media. E poi perché tra questi dischi c’é un’anima condivisa che ha in qualche modo stimolato a ragionare: è tornato a far capolino il termine “hypnagogic”, esploso l’ultima volta diversi anni fa per quei weirdismi pop nati in parallelo all’onda glo-fi, son tornate le atmosfere sognanti e nello stesso tempo abbiamo una fresca ripresa di un modo di fare beats che si era un po’ perduto, il cui spirito genuino era quello del cosiddetto wonky di inizio anni 10, così cerebralmente inebriante e troppo presto messo da parte per campi di ricerca solo apparentemente più stimolanti.
È una metamorfosi che il beatmaking stava provando a realizzare da diverso tempo, una dimensione nobile che l’hip hop astratto voleva inseguire fin dall’inizio ma che poi ha inconsapevolmente dato il la a fenomeni di materiale ben più grezzo come la trap. Da questo punto di vista, il ruolo di guida autorevole lo aspettavamo in questi anni dalla Brainfeeder di Flying Lotus, che a conti fatti sta ancora qui e ne parleremo in questo articolo, ma che ahimé, dopo “Los Angeles” di FlyLo e il “Sam Baker’s Album” di Samiyam ha lasciato che le cose in un certo modo si perdessero, e non è un caso che ora è quello stesso circolo a ristabilire canoni di eleganza alternativa, con la deriva jazzy che abbiam visto nelle loro recenti uscite. C’è bisogno di ripristinare la nobiltà del beat, la traiettoria psych/ipnagogica/sognante fa proprio al caso suo e incidentalmente stiamo assistendo a una manciata di dischi che stanno unendo le due cose benissimo. Per questo è il caso di scendere nei dettagli. Nella speranza che quest’onda di intenzioni comuni prosegua con gli stessi livelli di qualità, ‘ché di movimenti compatti capaci di generare eccitazione abbiamo un gran bisogno.
[title subtitle=”Braille: l’eleganza inafferrabile”][/title]
Per chi non lo sapesse, nella questione “beats inventivi degli anni ’10” Braille è stato uno di quei personaggi di spicco ai posti di comando sin dall’inizio e finiti per accompagnarne le sorti fino a oggi. Lui era il compagno di giochi di Machinedrum quando i due tirarono fuori come Sepalcure uno dei dischi più completi del filone, e tra i due era lui la mente sognante. L’album ufficiale di debutto solista (“Mute Swan”, in uscita a Maggio) poteva essere un po’ quello che fu SBTRKT quando irruppe nella scena, il classico disco intelligente ma anche easy abbastanza da poter convincere tutti. Invece no, le cose sono andate più per il sottile, e a conti fatti non è stato un male. Un uso degli spazi e dei silenzi che ti tiene in stato di attesa per tutto l’ascolto, concedendoti giusto un paio di agganci fugaci dove rilasciare la libido. Nessuna semplificazione delle forme, tutto giocato su un’eleganza complessa che alla fine è molto più longeva. Lo ascolti pure 30 volte in una settimana, ma senti di non averlo davvero assimilato da poter dire di conoscerlo. Sfugge sempre al tuo controllo, come i giochi di sguardi di una donna di classe. Suggestione e sensualità. Ti tiene sulle spine che quasi desisti, poi ti molla una “Everyone’s Crazy” che lascerebbe secco anche il SBTRKT migliore. Tu lo sai, quelle forme per te sono irraggiungibili, ma non devi per forza possederle. La contemplazione devota a volte è sufficiente.
[title subtitle=”Shlohmo: l’inconsistenza ritrovata”][/title]
Strano percorso, quello di Shlohmo dagli inizi ad oggi. È uno di quelli che ha un talento raro e una capacità compositiva capace di tirar fuori pezzi che gli altri si sognano, eppure si è sempre tenuto fuori dai giochi che contano e di fatto non è mai esploso sul serio. È stato capace di singoli capaci di incantare (una “Sippy Cup” o una “The Way U Do” non saprebbe farle nessun altro, garantito), ma quando s’è trattato della prova album il risultato è stato “Bad Vibes”, che nonostante la promozione a pieni voti di RA altro non era che un disco da catalogarsi nel filone glo-fi di quel tempo, giusto con una certa inventiva beats in più ma che, come tutti i dischi glo-fi, è invecchiato parecchio male. Meno male che stavolta il produttore statunitense ha fatto le cose per bene. “Dark Red” non è un disco beats e non è un disco glo-fi. È una parentesi gelata aperta in un angolo buio della percezione psichica. È la quintessenza della musica ipnagogica: proiettare l’inconscio nella fase sonno e approcciare l’inizio di quella sogno. Un disco che apre scorci. Un disco in cui a sorpresa il talento trova l’espressione meno scontata. Perché sì, una manciata di pezzi dalla ritmica ingegnosa ci sono (e ci volevano), ma il meglio vien fuori quando la musica rallenta, allarga gli spazi e propone quelle corde esoteriche che ti spediscono nell’altra dimensione. Un disco che sarà piaciuto un casino a Forest Swords, fatto di quelle stesse affinità psych che disorientano l’ascoltatore. Quell’inconsistenza che senti leggerissima ma che poi in realtà ti lascia un residuo solido sul fondo. Cenere rossa e un certo odore di carne bruciata.
[title subtitle=”Lapalux: la quadratura inaspettata”][/title]
E alla fine arriviamo a Lapalux e la Brainfeeder. La label che in sé racchiude tutti i discorsi che stiam facendo, avendo prima teorizzato e poi superato il beatmaking di questi anni, e un artista riuscito a beccare l’istante perfetto per riassumere l’insieme completo di sfumature vive in quest’onda. Non ce l’aspettavamo da Lapalux un album come “Lustmore”. Non dopo “Nostalchic” e non dopo la serie di singoli che al solito, mostrano grandi capacità ma davano la sensazione di doversi ancora trovare la dimensione ideale. Bene, eccola, la dimensione ideale. A “Lustmore” non manca niente. Ci sono le atmosfere jazzate di casa, e stavolta sono finalmente ben ragionate, portano robustezza invece che vaporosità. C’è quella certa vena nostalgica che dà all’ascolto il giusto velo di malinconia per un ascolto pieno di significato, lontano dalla leggerezza. C’è (alla buon ora) il ritorno di fiamma del vero wonky, con una manciata di pezzi che ne riprendono religiosamente gli stilemi, quelle traiettorie fatte di attesa e ripartenza che sfidano la tua intelligenza. C’è un pezzo come “Puzzle” che ti riconcilia con tutto il coraggio mancato ai beats moderni per insistere nelle direzioni a loro congeniali. E poi c’è “Don’t Mean A Thing”, che è tipo il pezzo definitivo. Di Lapalux, della Brainfeeder e di tutta la musica d’estrazione postmoderna. Una cosa che ti scioglie le viscere come burro al sole. E speriamo ora che queste indagini avanzate su ritmi, eleganza e suoni melliflui non si fermi qui.