Sembra un po’ una equazione, il titolo. Ecco: certe volte ci sono equazioni che danno i risultati sbagliati. In musica soprattutto, si sa. Quanto è pieno di grandi sottovalutati (o grandi sopravvalutati, altra faccia della medaglia)? Quante volte si ha solo il torto di aver fatto la cosa giusta al momento sbagliato? Quante volte basta invece aver fatto la cosa sbagliata, sì, ma al momento giusto, e ti decolla comunque la carriera? Uno può perderci i nervi e la salute, e consumarsi nel rancore e nel risentimento, per anni, anni ed anni; la si può però vivere pure in maniera zen, consci che nel grande magma delle release (tante, tantissime, lo sviluppo tecnologico ha reso facilissimo partorire e far circolare della musica, i filtri si sono abbattuti, tana liberi tutti…) il “rumore di fondo” crea molte distorsioni, aporie, ingiustizie.
Insomma, ci vuole culo. Ci vuole anche quello. Cinque anni fa, c’è un album che doveva uscire per la label di un artista inglese anche abbastanza quotato (pure lui un grande sottovalutato rispetto ai meriti effettivi, peraltro, mai entrato davvero nel “giro giusto” a livello di cachet), ed era un periodo in cui ancora, nella musica italiana da dancefloor, uscire per una etichetta straniera ti dava un prestigio che se uscivi per un’etichetta italiana te lo sognavi, se uscivi per un’etichetta italiana eri solo uno dei tanti “…che non ce l’aveva fatta”. Oggi per fortuna non si ragiona quasi più così. Vuoi perché il “complesso d’inferiorità” (per anni giustificato, ora sempre più insussistente) non ha più tanto spazio e credito, in un mercato musicale davvero fluido che – atomizzando i guadagni così come i canali distributivi – ha reso davvero meno decisivo il peso di una label internazionale; vuoi perché davvero in Italia si produce buona musica elettronica. Come mai prima, probabilmente. E’ stata una lunga traversata del deserto, iniziata (uno) perché i nostri migliori e più popolari dj non hanno mai prodotto granché e (due) anche per l’onda lunga da italodisco / Media Records / roba da Deejay Time che ha monopolizzato l’immaginario e, per molto tempo, anche il mercato (…quando la si celebra con nostalgismo, ricordiamoci sempre anche questa “dark side”). In Italia, dai primi anni ’90 fino al nuovo millennio, se facevi techno ed house ma in generale proprio elettronica o finivi nel tagadà o “scomparivi”. Ci siamo portati dietro a lungo questa stortura. C’ha fatto perdere un po’ di tempo. E treni. E punti-rispettabilità sulla scena. E quindi possibilità di emergere prima e meglio per vari talenti. Amen.
Per fortuna, appunto, ora abbiamo recuperato terreno. Oggi non fa quasi notizia che il bravissimo Indian Wells faccia una release sulla label di Max Cooper, cinque anni fa sarebbero stati degli “Ooooh” di meraviglia e, chissà, anche qualche data in più a suonare in giro per l’Italia all’epoca, quando il producer calabrese era già gran bravo e con un live particolarmente suggestivo ed intenso, roba che se la faceva uno straniero da 7/10.000 euro di cachet, nessuno avrebbe avuto nulla da ridire, anzi, avrebbe solo applaudito. Giudicate voi: questa release è bella perché è bella, (non solo) perché esce sulla label di Cooper:
Insomma: al netto del periodo orribile che stiamo vivendo causa CoVid, e che si spera solo temporaneo, ogni tanto fa bene guardarsi indietro e capire che si sta meglio oggi di cinque, dieci anni fa. Clap! Clap! ha nel suo piccolo ora una popolarità globale, Raffale Costantino aka Dj Khalab era un “solito stronzo” mentre oggi è il Gilles Peterson italiano con tanto di programma su Rai Radio Due, Populous fa dischi bellissimi (“W” è meraviglioso), suona in giro e si parla di lui parecchio, non è più un recluso nel remoto Salento, Godblesscomputers “travestendosi” da Koralle fa numeri da paura; e perfino nel pop patinato siamo passati da Canova a Dardust, così come in quello da accendino in mano siamo passati da Antonacci a Calcutta (che potrà piacere o meno, ma ha rinnovato il linguaggio). Ehi: non è poco. Avremmo fatto fatica ad immaginarcelo, uno o due lustri fa.
Dopodiché, chiaro – in mezzo a questi esempi positivi ci sono anche un sacco di persone che meritavano di più, che non sono saliti sull’onda giusta anche se l’avrebbero meritato. Ieri come oggi. Lo sappiamo benissimo. Lo sappiamo talmente bene che questo articolo nasce proprio per parlare di un grande sottovalutato e, appunto, di un disco che avrebbe meritato parecchio di più. Un disco uscito, come si diceva, cinque anni fa, esattamente cinque anni fa oggi:
Se “Reminiscence” all’epoca fosse uscito per una label straniera di un artista straniero un minimo quotato, beh, probabilmente la carriera di Broke One avrebbe giovato di un minimo di forza d’inerzia in più. Non è successo. E questo non vuole assolutamente sminuire il lavoro della White Forest (alla fine fu lei a far uscire l’album credendoci un po’ a metà, una imprevista “digressione” in cassa quattro rispetto al suo catalogo più “spezzato”), anzi, vuole proprio tributare l’omaggio a chi come loro si è sobbarcato comunque l’onere e la voglia di far circolare dalle nostre parti musica anche quando non si era sulla cresta-dell’onda-giusta. Probabilmente anche la White Forest ha avuto la sfiga di produrre il massimo sforzo artistico, con parecchie release notevoli una dietro l’altra, quando ancora la ricettività del mercato e dei canali “giusti” era minore. Magari poi le cose cambiano all’improvviso: c’è sempre tempo, se ci sono i mezzi e la voglia per cimentarsi (…servono entrambi: uno senza l’altro non quaglia, e viceversa, se vuoi fare il salto di qualità). Mai dire mai. Anche perché un Capibara davvero spacca.
Quello che vogliamo fare qui è ricordare che è bello guardare al passato (non quello da collezionista fighetto ed hipster, ma quello apparentemente “uncool”), e a farlo soprattutto per avere fiducia nel futuro, non solo per pensare alle occasioni mancate, all’ingiustizia del mercato, a quanto il mondo e la vita possono essere un grande Anubi. Così come è bello recuperare dischi che, per un motivo o per l’altro, non hanno avuto il successo e l’esposizione che meritavano. Sicuramente ciascuno di voi ne ha uno. O più di uno. Fatelo: riascoltateli, parlatene agli amici, postateli sui social. Al contrario di ieri, oggi è molto più facile (ri)mettere in circolazione musica che al momento dell’uscita non aveva troppo lasciato il segno. Approfittiamone. A maggior ragione adesso, che c’è poco da andare nei club, sciabolare, freedrinkeggiare, lottare per accrediti, omaggi e posti in console, fare gli introdotti con gli amici o col partner.
Anche perché se la fiamma della creatività resta, pure se non c’è il bacio del successo su scala internazionale e del glamour più meno locale non è che si smette di fare bella musica. Ad esempio, sempre per stare su Broke One, quest’anno ha fatto uscire questo EP (volevamo segnalarlo già all’epoca, poi l’estate ci ha “portato via”…):
E’ anche un passo in avanti questa release, sotto alcuni aspetti. E’ bello ad esempio il fatto di aver leggermente “sporcato” il suono. Non è un lavoro monumentale come “Reminiscence”, il primo e l’ultimo pezzo sono forse meno efficaci rispetto al resto, ma “Disintegration” da sola vale l’acquisto e vale ogni vostro applauso. Ascoltare per credere. Cinque anni dopo un album bellissimo come “Reminiscence”, Broke One non è mai stato ad Ibiza o al Fabric o al Berghain, e sicuramente in questi posti c’è stata gente che meritava di meno, e nemmeno è riuscito a fare il dj/producer come mestiere, per ora. Ma è così che va. Cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno. E di amare la musica, non le mode; non la nostra vanità di essere sempre quelli che azzeccano l’ultimo trend o il filone-nostalgia più hipsterico ed à la page. Faremo del bene a noi, al mercato, alla musica. Faremmo cultura, non speculazione imprenditoriale, non vanagloria narcisa.