Parte tutto da una visione. O meglio, da un paesaggio visionario firmato da Oliver Ho sotto il nome di “Broken English Club”.
Ci spiace deviare all’istante, ma ci viene subito in mente un parallelo con “Dogville”, film di Lars Von Trier. Forse molti di voi non l’hanno visto o nemmeno l’hanno mai sentito nominare, ma sappiate solo che Lars è un regista deliziosamente sadico – col pubblico, quanto con gli attori. E Dogville è il nome di un villaggio che in realtà è un fabbricone, dove ogni abitazione è contraddistinta semplicemente da delle linee perimetrali disegnate a terra. Il fattore più importante è che il regista, durante tutto il periodo delle riprese del film, ha preteso che gli attori vivessero costantemente all’interno degli edifici industriali utilizzati come set. Per mesi. Giusto per devastarli psicologicamente, farli immedesimare nei propri ruoli e trasmettere tutta questa malsana angoscia a noi spettatori.
Oppure pensiamo a un personaggio come Werner Fassbinder, altro geniale regista sadico-friendly, vissuto per anni in una sorta di comune con tutti i suoi attori, in un rapporto strettissimo e claustrofobico di distruzione ed autodistruzione di alti livelli, combinati a prolifici stimoli intellettuali e creativi dalla carica rivoluzionaria (i suoi attori, molti dei quali ancora in vita, hanno comunque sempre teso a rilasciare ottime considerazioni su Fassbinder, ricordandolo con massima stima e affetto).
Abbiamo utilizzato entrambi questi paralleli cinematografici per cercare di dare una cornice immaginaria al mood di questo disco: un’opera d’arte totale, dove chi scrive musica si ritrova a fare da spugna all’atmosfera in cui è volutamente andato a comporre. E dove la musica stessa diventa emanazione sonora di paesaggi desolati, binari sconquassati, barconi abbandonati, fari in disuso visivamente potenti come mistiche epifanie.
Insomma, trattasi di osmosi con l’ambiente e le sue caratteristiche emozionali, entrambi decisamente significativi.
Nella fattispecie, Oliver Ho, con il progetto Broken English Club, alla sua seconda release, dà vita a “The English Beach” che ci si presenta come una sorta di concept album, realizzato durante un periodo passato in un “atipico deserto surreale”, Dungeness, dislocato nella regione del Kent, costa orientale inglese. Questo luogo costituisce la più grande striscia desertica d’Europa, pur avendo caratteristiche totalmente differenti da qualsiasi tipo di deserto: non c’è carenza d’acqua, gli sbalzi termici sono assolutamente nella norma, la vegetazione è ricchissima – tanto che ospita circa un terzo di tutte le specie vegetali presenti sul suolo britannico.
Dungeness è anche conosciuta per la sua centrale nucleare attiva, ma nel tempo è divenuta meta prediletta di molti creativi residenti a Londra, che in questo luogo trovano un’atmosfera surreale, pacifica, malinconica, quasi post atomica, fatta di mare, imponenti fari e sparute rovine senza tempo. Insomma, un’ottima location per chiunque voglia allontanarsi dalle seduzioni continue e nevrotiche della metropoli per rinchiudersi in uno stato creativo felicemente misogeno ed ispirato.
A rendere questo disco ancora più interessante, il libricino fotografico annesso con foto dei luoghi spettrali e poetici di Dungeness, oltre a dei collage “Cut Up” ispirati a quelli di Burroughs, ovvero testi composti da collage di ritagli di testi scritti. Consigliamo di osservare il tutto con molta attenzione durante l’ascolto, abbandonandocisi all’eloquenza delle immagini, come si trattasse di un audio-libro, o come eravamo (…siamo) abituati a fare con le cover degli album o i libretti dei cd e delle cassette.
Vi starete probabilmente chiedendo cosa sia uscito da questo piccolo esperimento umano – traferirsene da Londra a Dungeness, lontano da tutto e tutti, immersi in un’atmosfera surreale e desertica, e scrivere dodici tracce per un album. Corredando il tutto da foto paesaggistiche personali.
Insomma, indipendentemente dalle sonorità, Broken English Club riesce a trasferire ciò che trasmettono gli intensi paesaggi desolati di Dungeness? Lo spleen si tocca con mano o rimane a livello concettuale?
Visto che ne stiamo scrivendo, è quasi certo che vi siate già immaginati le risposte.
Dunque sì, “The English Breakfast” è un’opera d’arte totale, perché ci sbatte in toto dentro il suo universo tetramente onirico e noi non possiamo che sguazzarci, tanto angosciati, quanto soddisfatti.
Ogni traccia è uno scatto fotografico o, se preferite, una breve ripresa cinematografica, tradotti in sonorità emananti vibrazioni techno, dove industrial e new wave fungono da catalizzatori principali tra ritmiche metallurgiche, ballate astrattamente industrial, cori di mare e una tensione costante degna dei migliori film horror evergreen. E mentre guardiamo le foto del libricino allegato, il disco ambra condurci verso l’assurdo stato di alienazione che a volte sperimentiamo osservando la linea dell’orizzone sul mare. Qui, sembriamo trovare la nostra dimensione ideale, in un habitat severo e privo di calore umano.
Bene, sappiate allora che il deserto surreale e tetro di Broken English Club è pronto ad ospitare anche voi. Tra una catapecchia abbandonata, rifuti metallici morsi dalla salsedine, binari che portano solo a immagini amorfe di se stessi e fari abbandonati che la sanno lunga riguardo a solitudine e spleen, ha molto da raccontarvi – e mostrarvi.