Quattro anni. Broken Note faccia d’angelo inglese, uno dei diavoli di Ad Noiseam è tornato. La sua creatura prende il nome di “Black Mirror”. Ricordo come, nella sua ultima apparizione milanese, il producer abbia sbatacchiato il dancefloor dello storico Rocket Club (ancora in via Pezzotti) fino a spremerlo come una spugna, di sudore ed energia. Vedere e ascoltare quel tipo di sonorità in un club, piuttosto che in uno squat, per esempio, fu bizzarro ed elettrizzante. Si dice mischiare le carte, oppure dare una possibilità. Sì, ma a chi? Alla cultura, probabilmente. Quattro anni per catturare i mostri e tritarli, quello che ne esce è un EP solido e potente. Gli ingredienti sono gli stessi e il concetto di fondo rimane: mietere.
Partiamo dal principio però, in altre parole dal lavoro che l’etichetta tedesca ha fatto sui propri artisti, quelle sonorità che sono diventate, oserei dire quasi da subito, una peculiarità, uno standard seppur unico, arrivando a far collimare, in diversi casi, la sub-cultura elettronica con il mainstream. “Broken Note” di mainstream non ha nulla però e lo dichiara ancora una volta con questo suo lavoro acido e oscuro, ove vengono stemperati gl’inserti dub che avevano contraddistinto Terminal Static (Mortal Bass, Tokyo Dub), a favore di una più cruenta voracità ‘core. Quattro anni e la maturazione si consacra nel ripercorrere una strada già battuta in passato, ma con più audacia. Tornare indietro non è mai semplice, ma talvolta è efficace. Unico difetto di questo lavoro: ci si accorge che l’affinità tra le quattro tracce, talvolta risulta un po’ troppo compatta, rischiando la ripetitività.
Di seguito l’elenco della spesa:
“Black Mirror” – la title track, una corsa agli ostacoli, il graffiare con le unghie sui bassi fino a renderli udibili prima nello stomaco e solo dopo nei timpani.
“Guillotine” – il suono di un arco ad intrecciarsi a quello di un giro di basso, che danzano sbilanciandosi all’interno di una stanza vuota in attesa dell’ennesima esplosione: l’urlo della creatura.
“Descent” – i suoni industriali sono ora più vivi, martellano d’acciaio rievocando ambienti ancestrali e ombre impalpabili. Sul finale la cassa hardcore prima e quella drum n bass dopo, ne dettano il ritmo che toglie aria ai polmoni.
“Stitch” – Si chiude rallentando, ma finendo comunque contro un muro di cemento armato. Pause che sono un respiro senza senso di orientamento.