Nonostante si faccia chiamare Bruno Pronsato, di italiano Steven Ford (questo il suo vero nome) non ha nemmeno un lontano parente. Da Seattle, dove è nato, a Berlino, dove risiede, Bruno Pronsato mastica e digerisce musica passando dall’essere il batterista di una band punk metal, a diventare un audace e avanguardistico produttore di musica che definire techno non solo è riduttivo, ma anche fuorviante. Suoni caldi, analogici e digitali, si disciolgono gli uni dentro gli altri creando atmosfere rarefatte e allo stesso tempo incredibilmente tangibili. Dopo “Why Can’t We Be Like Us” (2008) e “Lovers Do” (2011), Bruno Pronsato ci introduce al suo mondo e al suo nuovo album, “The Bedroom Slant”, raccontando quanto siano importanti i dettagli nella composizione dei suoi pezzi, come delle impellenti storie da raccontare.
In “The Bedroom Slant”, il tuo nuovo album con il moniker Archangel, il tuo amore per i suoni rock e post rock vengono ufficializzate. In che modo il passato ti è stato di ispirazione?
Penso che quelle ispirazioni siano sempre state presenti nella mia musica, non solo come quelle prevalenti. Per questo disco ho voluto davvero entrare in studio con un approccio diverso. Suppongo che abbia voluto raccontare una storia, invece che tutta in una volta, dividendola in più capitoli, che è davvero una sorta di stile rock, almeno nella mia mente.
In “The Bedroom Slant” la voce partecipa come uno dei suoi strumenti principali, e anche tu hai utilizzato la tua voce in alcuni pezzi. Come è stato?
Ho sempre usato le voci nella mia musica, ma sono sempre state piazzate in modo sottile. Più per la texture. Con “The Bedroom Slant” ho voluto che la voce fosse al centro della scena. Io non ho mai provato a cantare (se si può chiamare ‘cantare’ quello che faccio). Quindi, per rispondere alla tua domanda, è stato difficile iniziare a farlo all’improvviso. Ho dovuto registrare molte e molte volte perché venisse bene. Ma anche così, alla fine, qualcuna delle così dette parti cantate non è venuta perfetta… come se l’idea di alcune di queste fosse imperfetta.
Trovo la tua musica molto eterea, sensuale e malinconica, eppure profondamente fisica e concreta. Quanto credi che influisca l’uso di strumenti analogici?
Non sono così sicuro che la strumentazione analogica abbia molto a che fare con questo, davvero. Mi piacerebbe dire che semplicemente usando attrezzature analogiche si possa creare qualcosa come quello che hai descritto. Ma non è sempre così. Gli strumenti sono buoni quanto chi li sta usando. E sono in realtà solo una piccola parte dell’equazione quando si fa musica. E’ stata posta troppa enfasi sul tema analogico vs. digitale. E anche se io preferisco alcune cose analogiche, non mi limito a quel suono. C’è il anche l’immenso e incommensurabile suono del mondo digitale.
In “Lovers Do” e “Why Can’t We Be Like Us”, così come nelle altre tue produzioni, i confini dei generi si polverizzano e si ricompongono come in un minuzioso mandala. Quanto tempo passi a perfezionare i dettagli?
Passo un sacco di tempo a lavorare sulle cose in modo che possano svelare alla fine un’idea coerente. E’ sempre molto importante per me che io racconti qualche tipo di storia con la mia musica. Ho sempre pensato alla musica (per usare un clichè) come ad un viaggio, perchè è sempre così che io ascolto. Ci sono sempre un paio di brani, durante la creazione di un album, che vengono rottamati perchè semplicemente non combaciano con la visione finale del disco. In quest’album ho dedicato meno tempo alla creazione – credo ci siano voluti nove mesi o giù di lì. Ma ho avuto un sacco di tempo per pensare, più che per gli album precedenti. Ho scritto molte note per esempio, senza fare sul serio molta musica. Ho scritto molto sul mio diario prima di mettermi a lavorare in studio. Quando si lavora anche con i testi, c’è più roba sul piatto… e il messaggio può essere più evidente, credo.
Sei stato il batterista di una band punk metal durante gli anni ’90. Che tipo di esperienza è stata per le fasi successive della tua carriera?
Più che altro è stato utile per imparare a lavorare con altra gente, che sia il tuo agente, l’organizzatore di un evento o altri musicisti. In questo business molto del lavoro dipende da come ti relazioni con gli altri. Gli organizzatori per esempio tendono ad invitare di nuovo i musicisti che sono cordiali e amichevoli… e tendono ad evitare di farlo con le ‘dive’.
A voler parlare di generi musicali, la tua influenza è più post rock o post techno?
Mi sento di dire che le mie influenze sono più rock. Non mi ritrovo molto a rivisitare molti album techno, onestamente. Però non voglio parlare ingiustamente della techno perchè molte delle mie influenze partono da lì, ma come dicevo prima, sono molto più ispirato dalle storie piuttosto che dai brani. Non credo sarò mai stanco di ‘Evol’ o di ‘Daydream Nation’ dei Sonic Youth, o di ‘Avalon’ dei Roxy Music, per esempio.
Come sei arrivato alla scelta del tuo moniker, Archangel?
Questa è una buona domanda, ma onestamente non me lo ricordo.
La tua musica ha sempre un tocco profondamente personale. Quali sono le tue influenze non musicali?
Sono sempre stato ispirato dalla scrittura di Thomas Bernhard. C’è qualcosa di cinico, divertente e triste allo stesso tempo. In particolar modo ‘La fornace’, o ‘Das Kalkwerk’ nell’originale tedesco. E’ come leggere un lungo pezzo dance. C’è un’incredibile quantità di ripetitività. E’ quasi una canzone in cui si ripete il ritornello, con un ponte, etc., etc.
Che tipo di immagini vorresti si creassero nella mente degli ascoltatori di “The Bedroom Slant”?
Be’, spero che sia l’ascoltatore a creare le proprie immagini. Perchè così è per me. Fornisco tela e vernice e gli ascoltatori creano il loro quadro.
E tu dove ti immagini suonarlo?
Questo disco è per il techno bambino stanco che ha bisogno di una nuova avventura ma con un background familiare. Una specie di album speed metal suonato lentamente in una discoteca fatiscente.
ENGLISH VERSION:
Although he makes call himself Bruno Pronsato, Steven Ford (his real name) of italian has not even a distant relative. From Seattle, where he was born, in Berlin, where he resides, Bruno Pronsato chewing and digesting music by passing from being the drummer in a punk band metal, to become a daring and counting producer of music that define techno is not only simplistic but also misleading.
Warm sounds, analog and digital, dissolve one inside the other by creating atmospheres rarefied and at the same time amazingly tangible. After the albums “Why Can’t We Be Like Us” (2008) and “Lovers Do” (2011), Bruno Pronsato introduces us to his world and his new album, “The Bedroom Slant”, telling how important are details in the composition of his pieces, as the compelling stories to tell.
In “The Bedroom Slant”, your new album with the moniker Archangel, your love for rock and post-rock sounds are formalized. How has the past inspired you?
I think that those inspirations have always been in my music, just not as prevalent. With this record I really wanted to go into the studio with a different approach. I suppose I felt like rather than tell the story all at once, I was more into the idea of breaking it up into short chapters, which is really sort of a rock style – at least in my mind.
In “The Bedroom Slant”, the human voice acts as one of it’s major components, and you have used your voice in a few pieces. How was that?
I have always used voices in my music, but they have always been subtly placed. More for texture. With the bedroom slant, I wanted it to be a centrepiece. I have never really tried singing (if you call what I do singing.) So, to answer your question, it was difficult to suddenly start. I had to record many, many takes to get it just right. Even in the end some of the so-called singing is not perfect… I sort of like the idea of some of it being imperfect.
I find your music very ethereal, sensual, and melancholic, yet profoundly physical and concrete. Is this mainly due to the use of analog instruments?
I’m not so sure analog has much to do with it, really. I’d like to say that simply by using analog machines we could create something as you described. But it’s just not the case. Tools are only as good as those who use them. And they are really only a small equation in making music. Too much emphasis has been put on the whole digital vs. analog as of late. And though I do prefer some things analog, I won’t limit myself to that sound solely. There is immense and immeasurable sound in the digital realm as well.
In “Lovers Do” and “Why Can’t We Be Like Us”, as well as in your other productions, the boundaries of genres are broken and reunited as a detailed mandala. How much time do you spend in perfecting the details?
I do spend a lot of time working things out so that they unravel at least in some coherent manner. It’s always pretty important to me that I tell some kind of story with my music. I have always thought of music as (to use a cliche) a journey because that’s always how I have listened to it. There are always a couple of tracks that I make when creating an album that are scrapped because they just don’t work with the final vision of the record. This record took me the least amount of time to create – I think it was 9 months or so. But I had a lot of time to think about this one, more than on the previous albums. I made lots of notes for example without really making much music. I was writing a lot in my journal before I really started working in the studio. When you are also working with lyrics you can bring a bit more to the table…You can be a bit more obvious, I guess.
You were the drummer in a punk metal band during the 90s. What did you learn in that time, and how did it prepare you for for the later stages of your career?
More than anything it was learning to work with other people, whether it’s your booking agent, a promoter or other musicians. In this business a great deal of your success is dependent on how well you get a long with people. Promoters tend to invite back performers that are cordial and friendly… they tend to avoid the divas the second time around.
In terms of musical genres, would you define your influences more as post-rock or post-techno?
I would have to say that indeed my influences are more rock. I don’t really find myself revisiting many techno albums, honestly. There are a lot out there, and I don’t want to speak unjustly about techno because a lot of my influences lie there, but as I said earlier, I’m more inspired by stories rather than tracks. I don’t think I’ll ever tire of Sonic Youth’s ‘Evol,’ or ‘Daydream Nation,’ or Roxy Music’s, ‘Avalon,’ for example.
How did you chose your moniker, Archangel?
That’s a good question, I honestly don’t remember.
Your music has always had a deeply personal touch. What are your non-musical influences?
I have always been inspired by the writings of Thomas Bernhard. There is just something so cynical, hilarious and sad about it. Particularly, ‘The Limeworks’, or ‘Das Kalkwerk’, in the original German. It sort of reads like a long dance track. There is an incredible amount of repetitiveness in it. It’s almost a song in that it repeats the chorus, has a bridge, etcetera.
What kind of images would you like to create in the minds of the listeners of “The Bedroom Slant”?
Well, I hope that the listener creates their own images. Because that’s kind of what it’s about for me. You provide the canvas and the paint and they create painting.
And where do you imagine yourself playing it?
This record is for the tired techno kid that needs a slightly new adventure but with a familiar background. Sort of like speed metal records played slowly at a crumbling disco.[/tab]
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