C’è qualcosa nella musica di William Bevan che sa di vero, come se ogni suo disco non avesse paura di “parlare” e dire ciò che realmente ci circonda. C’è qualcosa – proprio quello, esattamente quello – che, con vivida precisione e grandiosa fermezza, ci prende per mano e ci proietta attraverso quella gamma di sentimenti da cui spesso e volentieri cerchiamo di evadere in favore di ben più comodi e accoglienti “salotti”. No, Burial parla a noi di noi usando il linguaggio sporco e fumoso delle nostre giornate, immergendoci dalla testa ai piedi in quelle room e in quegli ambienti che osserviamo costantemente coi nostri occhi e che tocchiamo quotidianamente con le nostre dita. Fa male, talvolta, ma arriva fino in fondo senza che inefficaci giri di parole finiscano per lasciare spazio a dubbi. Qui vive la notte, il buio più profondo e il dolore più vero ed intenso; qui, però, vive anche l’alba di un giorno d’inverno senza nubi, qui risiedono i raggi di sole di una giornata di primavera. Qui vive il caldo abbraccio di nostra madre che, rassicurante, ci dice che abbiamo ancora una possibilità oppure che è semplicemente andata e non ci resta che attendere.
Contrasti, contraddizioni, odio ed amore. La musica di Burial è totale e totalizzate, e la sua grandezza sta nel fatto che domani, quando la moda avrà virato verso altri suoni, si parlerà di lui con la stessa ammirazione con cui si esaltano personaggi illustri come Daft Punk o Kraftwerk. Non ho paura ad azzardare paragoni, no di certo perché ascolto dopo ascolto, disco dopo disco, continuo a vivere ogni “nostro” contatto come qualcosa di eccezionale. Sempre nuovo, sempre vivo, mai scontato. L’immensità di tutto questo sta nel fatto che spetta a noi, di volta in volta, capire cosa ci viene detto – vera magia dell’arte con l’A maiuscola – senza che l’unicità dei riverberi sotteranei e tenebrosi della sua musica ci condizioni; senza che le suggestioni che nascono ogniqualvolta il beat scoposto e trascinato dei suoi dischi abbraccia i pad e gli accordi dei suoi synth, come un innamorato alla stazione prima della partenza della sua amata, ci impressionino.
William Bevan sa di essere unico, eppure continua ad osare giocando con le nostre corde più nascote e profonde, nemmeno meritassimo di essere trattati come una chitarra. Qualcuno dirà che è un privilegio essere accarezzati dalle sue dita e, a pensarci bene, forse è così. Le carte, apparentemente sempre guali, vengono costantemente mischiate in favore in un rinnovamento tanto sottile quanto radicale. Frammentazioni e andamento sempre meno lineare rappresentano i nuovi tratti somatici di un artista capace di dilatare il tempo e sprigionare l’intensità di un secondo – avete presente gli istanti magici della vostra vita? Beh quelli – attraverso dischi che in dieci minuti abbondanti vivono il sovrapporsi di piani emotivi sempre nuovi, mai banali. Sempre intensi, sempre vivi e pulsanti. “Truant / Rough Sleeper” è esattamente così, o almeno è così che lo vedo io se mi siedo in un angolo della mia stanza e presto l’orecchio a questo nuovo e bellissimo Hyperdub. E’ così che lo vivo io mentre guido, mentre corro, mentre mangio e mentre parlo di lui con i miei amici.
“I fell in love with you”. Bene, anch’io. Giù la maschera.