Ventidue edizioni, beh, sono tante. Quando ci si troverà a Torino a partire da giovedì 31 ottobre fino a domenica 3 novembre per l’edizione 2024 di C2C (qui il ricchissimo programma completo), il countdown insomma è iniziato, manca pochissimo, sarà infatti la volta numero ventidue.
Sono tante ventidue, lo sono per vari motivi, e uno di questi non è forse sottolineato mai abbastanza: perché racconta di una evoluzione continua, di una crescita, di un percorso lungo ma costante. Chi è vecchio abbastanza da aver conosciuto C2C (all’epoca Club To Club) ancora dalla primissima edizione (quando – incredibile ma vero – era stata Torino a “rubare” una idea a Milano e non viceversa, ovvero il festival che con un biglietto unico ti permetteva di vagare felicemente per più venue sotto un’unica direzione o co-direzione artistica di qualità), ecco, chi è abbastanza stagionato da aver visto il viaggio fin dall’inizio, non può che provare soddisfazione, oggi.
La prova prima di tutto per se stesso: perché quando le cose in Italia nascevano e c’era una scena non grossa ma assai coesa che (finalmente!) andava oltre l’house-da-discoteca, oltre le cubiste, oltre i tavoli e la sciabolata sciampagnola, si era lì, lì davvero, presenti, combattivi, vogliosi di supportare ed aiutare a costruire tutti insieme un circuito alternativo che ci facesse staccare dai lustrini dei soldi facili e del commerciale, e ci portasse invece lì dove c’era la sfida artistica, la voglia e l’orgoglio di essere alternativi rifiutando tutto ciò che è ostentazione, che è moda, che è maggioranza.
Quanto di questo spirito oggi è rimasto nella club culture? Onestamente, non troppo. In questo momento, non troppo.
…non è però solo un male, eh. Nel frattempo tutto ciò che è legato ai dancefloor ed alla club culture in Italia si è professionalizzato assai: ha imparato ad esser un po’ più preparato e preciso, si è fatto lavorativamente “adulto”, gli improvvisati sono stati decimati. L’unico peccato è che nel fare tutto questo si è talora “dimenticato”, virgolette sarcastiche d’obbligo, di fare capo al suo DNA originario, che è quello appunto di contrapposizione alla normalità, al mainstream, alla logica puramente commerciale, per accettare invece a momenti alterni – e in qualche caso, proprio volere – l’abbraccio all’appena citato mainstream, alle logiche da discoteca commerciale, all’imperativo capitalista della crescita ipertrofica come spirito vitale.
L’Italia del primo Club To Club era molto diversa dall’Italia di C2C 2024, almeno per quanto riguarda un certo tipo di scena musicale tra clubbing, voglia di guardare a Londra o Berlino (o Detroit, o Parigi), sperimentazione digitale. C’è chi non lo sa, oggi. Ma c’è anche chi lo sa, perché c’era o perché nel frattempo ha “studiato” ed è una persona sensibile ed intelligente quindi sa mettere insieme certi tasselli, però per comodità o per calcolo ha fatto finta di dimenticarselo.
Sta di fatto che il panorama è diverso, oggi. La “nostra” scena, la “nostra” musica non è più pericolosa, non è più alternativa, non è più “da sfigati” (luminosi, bellissimi sfigati: i loser degli anni ’90 che hanno scoperto la techno e l’escapismo da dancefloor o da destrutturazione IDM). Non è più controcultura radicale, non siamo più controcultura radicale. Sì, di cose ne sono cambiate un po’. Lo diciamo nel tono più neutro e descrittivo possibile, perché le invettive boomerose de “Eh, ai nostri tempi sì che…” sono pessime, pessime. Andare a Club To Club nei primi anni 2000 aveva un senso che andare a C2C negli ultimi dieci anni non ha.
Ma la notizia buona, concentriamoci su questo, è che Club To Club / C2C non è cambiato troppo: o almeno, non in alcuni aspetti etici, estetici ed attitudinali fondamentali.
(La line up di quest’anno; continua sotto)
La città è sempre la stessa (Torino, dopo anni in cui si temeva che Milano avrebbe scippato alla Mole pure questo); la direzione artistica è in assoluta continuità; dentro l’associazione Xplosiva sono cambiate magari un po’ di cose, ma di sicuro non si vedono arrivare “stranieri” armati di valigette di denaro e pronti a suggerire/imporre svolte “mercatili” (poi un giorno parleremo di quanto è brutto vedere le attuali sponsorizzate del Sónar su Instagram, ma questo giorno rimandiamolo un po’).
Sono cambiati i numeri, loro sì: un tempo ci si meravigliava che si riempissero i 700 posti dell’Hiroshima Mon Amour (con una Ellen Allien eroina di nicchia e un semi-sconosciuto Apparat) e si sperava che ai set di gente allora completamente fuori dai radar come Jon Hopkins arrivassero più di 150 persone, oggi è la normalità che un’edizione di C2C arrivi a fare svariate decine di migliaia di presenze.
Molta acqua è passata sotto i ponti. Molta.
Ma se certi artisti “non facili” e “non commerciali”, quelli insomma che non puoi in nessun modo mettere accanto a una cubista o un tavolo che sboccia, sono diventati popolari, forti, desiderati e rispettati, è merito anche del lavoro di alfabetizzazione artistca ed imprenditoriale fatto da un numero ristretto esperienze forti in Italia, di cui C2C è capofila assoluto (e a cui si accompagnano altre esperienze toste come Robot a Bologna o Dancity in Umbria, giusto per fare due nomi, tra chi ha creduto in tempi non sospetti nell'”elettronica intelligente“).
C2C, così come i suoi simili più a scala ridotta, ha raccolto l’eredità morale e l’utopia di Dissonanze, così come era elaborata dal grande e compianto Giorgio Mortari, una eredità morale ed utopia mai abbastanza raccontata, mai abbastanza celebrata, mai abbastanza capita in un paese, come l’Italia, dove viene troppo facile schierarsi tra Guelfi e Ghinellini e polarizzarsi: Mortari ha tenacamente voluto combinare ballo e cultura, numeri e ricerca, edonismo e raffinatezza, in una forma suprema – e molto più autentica, rispetto a baggianate politically correct odierne – di inclusività. Una sfida tutt’altro che banale. (Quasi) facile a parole, a prima vista, difficilissima però nei fatti. Risultato? Dissonanze non venne mai adottato abbastanza dalle istituzioni, così come dagli sponsor privati; e per certi versi non venne nemmeno capito del tutto dal grosso del suo pubblico. D’altro canto era troppo avanti con i tempi: la sua colpa era essenzialmente quella.
Club To Club / C2C, che è arrivato dopo, ha avuto la fortuna e soprattutto il merito di lavorare proprio su queste due mancanze, con pazienza e costanza: il rapporto con le istituzioni e i brand da un lato, col proprio pubblico dall’altro. Oggi C2C è un festival sano economicamente, con una fortissima e ricercata e riconoscibile qualità artistica, dove le istituzioni fanno a gara a lodarlo (…meno a finanziarlo, ma vabbé: sempre meglio del fare danni) e gli sponsor sgomitano fra loro per esserci, perché gli conviene, perché gli fa gioco. Ed è in ogni caso un festival dove si balla e si pensa, dove c’è sfogo e sofisticazione: in un continuum illuminato, e non banale.
Oggi la centralità nell’immaginario dei “clubbers” più contemporanei (convinti o occasionali che siano) ce l’hanno altre cose: ce l’hanno i grandi festival EDM, le mega-adunate dei nomi techno e house più commerciali, ce l’ha il Circoloco con la sua furba ed alacre opera di trasformazione da after per sfascioni e raffinatezza clubbing fashionista ed aspirazionale. C2C rappresenta un modo nobile ma “fuori hype”, o comunque non centrale, di stare sulla mappa: e lo incredibilmente tanto in questa edizione 2024. In anni in cui sembra che solo se c’hai un “headliner lungo così” o “popolare così” allora puoi stare sul mercato, in cui solo se hai l’artista da Instagram che strappa gli urletti alla Gen Z puoi racimolare l’attenzione (…ci casca perfino il Primavera, col suo trittico di headliner Charlie/Chappel/Sabrina: boh), C2C 2024 è in assoluta, totale controtendenza. Anche con se stesso, eh: quest’anno infatti non c’è la Polachek di turno (che poi dal vivo molti hanno visto quanto vale…), ma non c’è nemmeno la costosissima Madonna Pellegrina Aphex Twin, o il colpo a sorpresa “alla Battiato”, o la batteria di nomi in console spaventosamente imponente.
Oggi la centralità nell’immaginario dei “clubbers” più contemporanei (convinti o occasionali che siano) ce l’hanno altre cose: ce l’hanno i grandi festival EDM, le mega-adunate dei nomi techno e house più commerciali, ce l’ha il Circoloco con la sua furba ed alacre opera di trasformazione da after per sfascioni e raffinatezza clubbing fashionista ed aspirazionale. C2C rappresenta un modo nobile ma “fuori hype”, o comunque non centrale, di stare sulla mappa
Quest’anno, in C2C, c’è tanto se stesso e basta, senza bisogno di effetti speciali. Ci sono act che sono ormai “amici stretti” del festival (Arca, Bicep, Nicolas Jaar, Romy degli Xx, Ben UFO, Bill Kouligas in b2b con Gabber Eleganza, John Talabot, Kode9); ma, anche nella lista della “prima volta” dell’evento torinese, è facilissimo leggere una linea comune, un percorso condiviso, una presa di posizione etica ed estetica perfettamente coerente con la storia e lo sviluppo del festival: da A.G. Cook a Mica Levi, da Kali Malone a Yaeji, da Mace a Olof Dreijer, da Hessle Sound a Sofia Kourtesis, ovverosia la ricerca di quella “terra di nessuno” tra dancefloor standard e sperimentazione, tra senso di sorpresa e senso di sfida, tra rivisitazione straniante del pop e spinte radicalmente estreme ed accigliate, tra live e dj set, tra “soddisfazione istantanea” e percorsi faticosi ma illuminanti. Un surfare stilistico, ed emotivo, piuttosto impegnativo – ma ben definito. Leggi la line up di questa edizione e pensi: “Ah sì, è proprio C2C”. Non è il festival delle agenzie e dei management. Non è il festival dei nomi più popolari e tonitruanti. Non è nemmeno più il festival degli hype del momento strappa-follower. In questa edizione 2024, come non mai, C2C è C2C, e nient’altro.
Non ha davvero più bisogno di essere altro. O almeno: non sempre, e non ora. Non quest’anno.
Quanti altri festival al mondo possono vantare una personalità così forte, un grounding così solido? Onestamente, eh: provate a pensarci. Pochi. Davvero pochi. Pochissimi. Al mondo.
In tutto questo C2C è cresciuto da paura nei numeri, è cresciuto a dismisura nella considerazione degli sponsor e un po’ meno irruentemente in quella delle istituzioni, è cresciuto anche come “peso politico” internazionale nella sua industria musicale di riferimento. Non è stato sin da subito monolite&vincente, si è messo tanto in gioco, è cambiato, ha operato aggiustamenti, non si è sottratto ai rischi ed alle sfide. Lo ha fatto però in modo organico; e qualche volta anche in maniera scostante rispetto al resto della scena italiana, diciamolo (ma viene da dire: forse si poteva fare solo così? Forse è per questo che è arrivato prima e meglio di altri all’obiettivo?).
Negli ultimi anni poi sta mettendo l’attenzione su un aspetto fondamentale: l’”esperienza” al festival stesso. Perché sì i nomi, sì la comunicazione, sì l’intelligenza, sì la figaggine e le scelte artistiche illuminate e il pubblico ganzo, ma per anni un grande non detto – o un detto da pochi – di C2C era che le venue fossero allestite alla bell’e meglio e gli impianti non erano granché. Da qualche anno a questa parte, invece, il management del festival torinese ha fatto una svolta ad alta qualità in tal senso, seguendo l’esempio virtuoso dei concittadini di Kappa FuturFestival (pur giocando in un altro campionato, forse addirittura proprio in un altro sport) e di varie eccellenze sparse per il globo.
Roma non è stata costruita in un giorno. E nemmeno C2C in due edizioni. È un viaggio ed un lavoro lungo, faticoso.
Ciò che troppo spesso manca alla parte “intellettuale” della nostra scena, ovvero la capacità di “sporcarsi” con le questioni pratiche ed i numeri e con la fatica del mondo del lavoro “adulto”, ponendosi il problema della crescita, è qualcosa che anno dopo anno non è mai stato invece eluso dal festival torinese ed anzi è stato sempre affrontato come obiettivo primario. Lo si è fatto però sempre ragionando sul lungo termine, senza ansie, senza avidità, senza megalomanie narcise: ovvero il modo più saggio e serio. Niente colpi d’ala vanesi, o passi più lunghi della gamba. Alla competenza si è unita la costanza; all’intelligenza sofisticata si è unito il realismo; alla voglia di lavorare per la cultura si è unito anche, se e quando necessario, il cinismo delle scelte – perché ci vuole pure quello, se vuoi stare nei tavoli dove la posta è alta e la tua rilevanza travalica quella dei soliti amichetti.
(Aquiloni in volo, “Living With The Gods”: l’immagine scelta per l’edizione 2024 di C2C)
Ecco perché proprio l’edizione che ha forse meno “colpi di scena” in line up e nella scelte delle location, insomma una “edizione di continuità” rispetto alla piega presa negli ultimi anni, è per noi l’edizione di C2C più importante di sempre. Perché è uno statement.
Troppo spesso condannati ad essere alla ricerca di “miracoli” ed “eccezioni” per sentire in Italia la musica che vogliamo sentire e respirare la cultura che vogliamo respirare, abbiamo la fortuna di avere un festival che, oggi, non ha probabilmente più bisogno né degli uni né delle altre per essere sano, per prosperare, per dispiegarsi: essendosi costruito negli anni un suo ecosistema, un suo pubblico, una sua immagine particolare e riconoscibile e, perché no, una sua capacità di sostenersi economicamente. In più, questo festival è arrivato a giocare nei contesti “forti” e “grandi” – lì cioè dove le presenze si contano a quattro zeri e i budget a sei – e lo ha fatto senza essersi svenduto l’anima. Caso raro non solo e non tanto in Italia, ma proprio su scala globale.
E allora: quel poco, pochissimo che è rimasto di biglietti per l’edizione di quest’anno lo trovate qui.
Ci si vede a Torino, allora. Quest’anno forse più che in passato è importante e bello esserci. Gli aquiloni volano, volano alto: e attenzione, siamo ancora noi a tenerli per mano. In un rapporto diretto e franco di fiducia reciproca da un lato e consuetudine dall’altro, col festival che li ha costruiti. Poi chiaro, troverai sempre qualcuno che sotto la foto della line up di quest’anno commenterà, tipo su Facebook, “It used to be a great festival”: lo abbiamo appena letto. Ma a chi lo scrive non manca Club To Club come era un tempo: no, mancano i vent’anni che non si hanno più, e la possibilità di pensare che un festival come quello sia “suo”, e di nessun altro. Le derive adolescenziali non moriranno mai, tra chi arriva dalle nicchie. C2C ha avuto il coraggio, la visione, la spregiudicatezza ed anche un po’ la fortuna, in ventidue edizioni, di volare alto: più in alto dell’underground e delle sue “coperte di Linus”. Ma sempre con coerenza, sempre ricordandosi di da dove arriva, del perché è nato, del perché è diverso dal mainstream e dal mero linguaggio dei soldi.
In quanti altri possono raccontare un viaggio così, a distanza di vent’anni e passa, e farlo non con nostalgia ma guardando al presente ed al futuro?