Manca il primo giorno, manca l’ultimo: ma nelle due giornate centrali, negli spazi del Lingotto, Club To Club – oggi C2C – ha avuto come sempre molto da offrire e molto di cui parlare. Il tutto con due clamorosi sold out pur con una line up senza stelle siderali, mai visto così tanto pubblico: segno del grandissimo lavoro che il festival ha fatto per diventare rilevante a prescindere – ed è un merito semplicemente enorme. Ecco un report a due mani dei nostri due inviati: uno per giorno. Buona lettura!
Venerdì 4: Fibonacci al bar, usato sicuro sul palco
(Damir Ivic)
No, non c’eravamo nella prima giornata alle OGR, quella dove Arca – come e più del solito – ha diviso folle e pareri tra follemente entusiasti e “Che noi, anche basta con questo circo”. La nostra esperienza 2022 di Club To Club / C2C parte con la prima giornata al Lingotto. Ma ci saranno di sicuro altre occasioni per dipanare il mistero-Arca: artista che è partito in un modo (avant-sperimentale, diciamo), e che ora invece fa sempre più teatro&melodramma e sempre più avant-reggaeton. Con pareri appunto divisi e divisivi.
Chi invece raccoglie un plauso abbastanza unanime sono, da sempre, gli Autechre – è da loro che parte la nosta esperienza al festival (mangiandoci le mani per esserci persi per un pelo i 72-Hour Post Fight, programmati alle 19:30). E’ quasi sospetto questo entusiasmo “automatico” nei loro confronti, diciamolo, visto che ogni tanto i loro set sono veramente duri da digerire: possibile che piacciano così tanto, e a così a tutti? Ad esempio, un mattone ostico fu quello proprio a C2C (all’epoca ancora Club To Club) pochi anni fa. Suggestivo, durissimo, senza compromessi, di sicuro chi c’era se lo ricorda e ne è rimasto colpito come con un cazzotto allo stomaco; ma lì l’anti-climax che i due avevano seguito sembrava proprio una provocazione verso il pubblico, un “Tanto possiamo fare quello che volete, ci seguirete e pure adorerete comunque”. Troppo, probabilmente. Troppo estremo e contro-intuitivo, o contro-libidinale. Anche se la suggestione di far spegnere tutte le luci e il bar nel capannone del Lingotto era stata notevolissima e, già da sola, fu una vittoria. Tornano nel 2022 sul luogo del delitto, i due: ma diverso è l’orario (20:30, quindi praticamente tutto il pubblico presente era lì per loro, o comunque consapevole del loro piglio), diverso anche il set. Ecco: in questa edizione era tutto talmente ritagliato su di loro che potevano permettersi, qui sì!, di fare un live set con anti-climax, caotico, sfuggente. L’impressione è invece che quest’anno abbiano fatto il set che avrebbero dovuto fare allora: più “sensato” (per quanto sempre molto destrutturato), più pop (per quanto sempre un delirio di sintesi sonora), più solido (coi crescendo al punto giusto). Avrebbe retto benissimo anche le tre di notte, un peak time insomma. Di sicuro, molto meglio del live non riuscitissimo fatto pochi mesi fa a Terraforma. Tanta roba, insomma. Magmatici, ma ben direzionati. E saldamente al comando dal punto di vista della gestione strutturale. Magari meno “montagne russe” del solito proprio per questo, quindi forse meno estremi ed affascinanti; ma avercene, di set così.
Avercene anche di Elena Colombi: che aveva l’ingratissimo compito di salire sul palco subito dopo i due, e se l’è giocata con grande maturità e piglio, senza sfigurare in alcun modo e senza nemmeno strafare. Un set composito e fatto di saliscendi, ma comunque perfetto nel “riallineare i sensi” dopo lo choc autechriano. Quello che abbiamo sentito ci è proprio piaciuto tanto. Non ci è piaciuto tanto invece quello che invece non ci ha permesso di sentirlo tutto, il set della Colombi: ma la curiosità attorno ai Jockstrap era tanta. Ad un certo punto, via verso l’altro palco per vederli suonare. Che live faranno? Riusciranno a tradurre dal vivo la baldanzosa complessità del loro lavoro in studio? Risposta: mah. Se siete fra quelli – e purtroppo in questi anni sono sempre di più, anche fra persone che in teoria amano la musica fatta a modo – che accettano che un concerto sia poco più di una session al piano bar, con mille parti preregistrate, allora Jockstrap è stata un’oretta divertente. A noi, per quello che abbiamo visto, ha irritato: qualche bello sprazzo musicale è stato completamente vanificato dalla constatazione che lì sopra, sul palco, lei canta, lui fa qualche accordo di piano o qualcosina di altro, ma sostanzialmente quando beccate nei bar di provincia lui che fa partire la tastiera e lei che immobile ci canta sopra facendo le mossette, avete la stessa cosa. Ok, musicalmente il progetto Jockstrap è una cosa interessante e finanche originale nel suo essere “frullatore”, ma live per adesso è solo piano bar. Con musica complicata e anche gradevole-interessante, ok, ma pur sempre piano bar. Per ora anche no, grazie, almeno per noi.
Un no anche per Blackhaine: troppo prevedibile la ricetta noise-rap-sclero. Capiamo il logorio della vita moderna (lo aveva già capito Calindri al tempo del Cynar), ma per chi negli anni ha visto Dälek o Death Grips, beh, la differenza di qualità è abbastanza chiara. Sotto l’urlo contorto, poco.
Molto meglio Caribou. Anche se almeno per metà concerto anche lui era nella categoria delle delusioni. La prima metà del suo nuovo live è moscetta e “pianobaristica” anch’essa, giusto in chiave funk-soul-pop più che pop e basta. Poi però arriva “Sun” e, as usual, spazza via tutto facendo decollare l’astronave: da lì in avanti ti ritrovi infatti a ballare e pensare “Cazzo, che live!”, e i visual semplici ma di grandissimo impatto sicuramente aiutano.
Il successivo rimbalzo fra palchi è stato un susseguirsi di conferme e certezze: Jeff Mills ha fatto il Jeff Mills, Jamie Xx ha fatto il Jamie Xx, Kode9 è tornato a fare il Kode9 (con un set tagliente e velocissimo, senza strane derivo etno-commerciali che ultimamente invece sfoggiava vai a capire perché). Un bel segnale, questo, perché sono tre artisti che in vario modo hanno fatto proprio la storia di Club To Club, pardon, C2C: quindi ok l’avant-pop e tutto il resto (davvero: lo diciamo senza ironia), ma il buon vecchio “usato sicuro” alla fine ha ancora decisamente un suo perché. Gli artisti non devono per forza sempre stupire o innovare, per dare qualcosa di valido nella cornice di un festival. Basta anche solo fare bene le cose che sai fare meglio. I tre l’hanno fatto eccome. E sinceramente, meglio l’”usato sicuro” del piano bar – per quanto interessante quest’ultimo come idea musicale – perché comunque c’è più mestiere, più sostanza, più consistenza.
Più sostanza e più consistenza l’ha messa – finalmente! – Club To Club anche nel curare palchi e luci, ora assolutamente di livello (in passato troppo spesso non lo erano, difetto che passava in secondo piano nelle rassegne stampa visto l’unanime plauso sulla “intelligenza” delle scelte artistiche a silenziare tutto il resto). Rimangono però ancora alcune cose da sistemare: continuano a mancare dei posti dove riposarsi e rilassarsi un attimo (funzione svolta in passato episodicamente dalla Sala Gialla e dalla Sauna, pardon, Sala Rossa quanto non erano strapiene), ed è una mancanza non secondaria, l’area food invece ha fatto dei passi in avanti ma per essere un festival dove non puoi uscire e rientrare e che per giunta a partire da quest’anno vuole obbligarti ad arrivare prima di cena, beh, si può e si deve fare di più. Infine, non possiamo non parlare dei bar e del sistema cashless: quest’ultimo tecnologicamente ha funzionato bene (non sempre accade: bravi C2C), ma per il resto ha fatto di tutto per sembrare una piccola rapina ai danni dello spettatore. Se non rapina, un gaglioffo balzello aggiuntivo. Come definire altrimenti il contributo obbligatorio di 2 euro per “attivare il servizio”? E come raccontare in altro modo il fatto che le ricariche si potevano fare a tagli da 10 euro, ma una birra costava 7 euro e un cocktail 11 euro, omaggio non richiesto ai numeri primi di Fibonacci, difficilmente quindi compatibile coi tagli “pari” delle ricariche? Ok che i soldi avanzati sul bracciale possono essere restituiti (con un iter però non immediato, sia nei modo che nei tempi), però ecco, l’intento è abbastanza manifesto. Così come manifesto era il fatto che al festival la prima birra ti sarebbe costata 11 euro: 7 euro di birra, 2 di bicchiere (poi riutilizzabile), 2 di attivazione del servizio. Ok che ai festival non si dovrebbe andare (solo) per bere, ma nemmeno per farsi spennare se malauguratamente ti viene sete.
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5 novembre: muscoli, Mediterraneo e Gigi Dag
(Valerio Spinosa)
Il sabato rimane un pò la prova del nove della manifestazione, dopo un “buona la prima” ci si aspetta con interesse il prosieguo del festival per tracciare un bilancio complessivo e fare il quadro della situazione anche perché nel tempo proprio per il C2C si sono scomodate tante riviste di settore, Pitchfork su tutte, arrivando ad una conclusione non proprio buttata lì: “One of the most forward-thinking electronic music festivals out there”, uno dei festival di musica elettronica più lungimiranti in circolazione. Un omaggio alla città di Torino indubbiamente va fatto, la continua sinergia che negli anni è avvenuta con gli spazi pubblici adibiti a festival è stata senza ombra di dubbio l’arma vincente. A proposito, se vi capita di farvi un giro nella zona del Kappa FuturFestival, lì dove sorge il parco Dora, si può toccare con mano l’essenza di una visione intelligente, quella che restituisce alla popolazione uno spazio dismesso per crearci un vero e proprio laboratorio a cielo aperto. Piccolo preambolo su Torino doveroso, poiché il sabato mattina è uno spettacolo perdersi per la città, il tutto agevolato da una giornata soleggiata che concilia alla perfezione musica e cultura (da passeggio). La bellezza da queste parti risiede proprio nel connubio perfetto che si percepisce per strada: uno storico e consumato sentimento underground che la città emana si amalgama ad una profonda eleganza nascosta nei numerosi scorci suggestivi.
Al Lingotto per la serata di chiusura c’è una novità nella programmazione: un’intera aerea del festival, Stone Island Sound Stage, è completamente lasciata nelle mani dei Nu Genea con la presentazione dello stage Bar Mediterraneo. Una curiosa doppia veste per Massi e Lucio, artisti e direttori artistici allo stesso tempo. Nel main stage invece tutto rimane saldamente ancorato nelle mani degli storici organizzatori del festival (è facile incrociare tra la folla, sempre piuttosto disponibili ed aperti ad uno scambio reciproco di pareri). Proprio qui, nel main stage, si concentrano le performance più interessanti e forse anche meglio riuscite. Gli orari sono serrati ed un attimo di rilassamento rischia di far saltare la visione di qualche bella esibizione che purtroppo sfugge per davvero o quasi, essendo stata pianificata già alle 19.30h. Parliamo di Makaya McCraven, che riusciamo ad intercettare solo per gli ultimi pezzi finali, però possiamo tranquillamente seguire a ruota quelli che sono stati gli umori generali della sala: un grande live, una bella dose di distorsioni unita con una formazione proto-jazz. Lui alla batteria in coppia col sassofonista incanta e domina la scena, il suono si dipana verso atmosfere fusion per la gran parte con sfumature acid/progressive che esaltano la sua performance.
Tutto un lato black composto per lo più da grime, r&b 2.0, soul quest’anno è rappresentato al C2C: saranno i vent’anni, saranno le ambizioni, ma per questa edizione in particolare un ventaglio di suoni sembra ricoprire ancora più tonalità sonore del solito. Due attori sfoderano più di altri queste traiettorie nel main stage, ed hanno i nomi di Yendry e Pa Salieu. Sulla prima non c’è grande trasporto emotivo: per carità, una voce sublime, un tappetone sonoro ben strutturato, però un certo coinvolgimento che proprio il C2C ci ha abituato in apparizioni precedente viene a mancare e per l’italo-domenicana – insomma, quel suono latin-pop non graffia. Viceversa Pa Salieu è molto più grintoso e cattura la scena da vero frontman consumato dove un certo freestyle cantato si incastra alla perfezione con beat mai banali in un frullato mistico di afro/grime/dancehall, il tutto molto ben confezionato.
La tanto ricercata avant-garde non si fa attendere e quest’anno a prenderne lo scettro è senza dubbio Caterina Barbieri. La sua presenza scenica seduce e non poco, l’armatura robotica che indossa evoca un qualcosa di spirituale, surreale. Le aspettative già da questo impatto scenico non vengono deluse e la conferma assoluta dei suoi live sempre più ipnotici con droni immaginari che svolazzano liberi in tutto il Lingotto rapisce il pubblico con una soglia d’attenzione che rimane sempre molto alta, cosa non scontata quando si assiste ad un live del genere a serata inoltrata (siamo verso la mezzanotte).
Sempre nel main stage, il duo Bicep mostra i muscoli scoprendosi poco alla volta. Il loro è un crescendo di sonorità che non fa sconti a nessuno, proiettandosi con il passare dei minuti verso una techno trance solida e battagliera, soprattutto verso il finale. I laser e le proiezioni poi impreziosiscono una performance già ricca e avvolgente di suo, con “Atlas”, grande cavallo di battaglia, che rappresenta probabilmente la parte più intensa della loro esibizione. In questo momento della serata qualcuno ha precisato che qualche preset potevano anche evitarselo ed andare giù con un pò più di istinto sperimentando suoni in maniera diversa. Analisi che lascia il tempo che trova, visto che i live dei Bicep, già sentiti in altre circostanze, mantengono sempre le stesse frequenze. Nulla quindi su cui scandalizzarsi più di tanto. Il loro registro è questo.
La voce degli XX Romy si porta la serata a casa, visto che nell’ordine è inserita alla fine. Simpatica cassa dritta con qualche piccola incursione anche nella “commerciale” di casa nostra (“L’amour Toujours” di Gigi Dag non fa certo scalpore se suonata a Torino, a casa sua), ma in quel momento del set è una piccola sortita dopo tanto quattro quarti “nobile” ci sta alla grande. Dal suo profilo instagram inoltre si evince anche un’apparizione ad inizio partita tra Juve-Inter nello Juventus Stadium sempre dj set, ma questa è un’altra storia.
Quello che forse non ci ha veramente catturato fino in fondo è stato lo stage Bar Mediterraneo organizzato dai Nu Genea. I set che si sono susseguiti lasciano un pò perplessi, tra tutti Analog Journal decisamente approssimativo, troppe hit poco sentimento. Inserire in fila indiana “Free From Desire”, “Conga” e “Ripa Na Xulipa”, così a memoria, tutto sembra forché un set per un festival che ha come slogan evolutions of the avant—pop music scene. Le sensazioni sono state più quelle di un capodanno in piazza in una qualunque città del sud-pontino che non una partecipazione al C2C.
I Nu Genea fanno il loro. Piacciano o meno, da anni si sono inseriti in quel filone freak che strizza l’occhio alla tradizione napoletana “disco-funk-popolare” un po’ dimenticata e poi rivalutata. Qualche bella incursione disco, “Feel The Drive” dei Doctor’s Cat fa alzare parecchie mani al cielo, da consumati attori della console sanno bene come tenere a bada il dancefloor e condurlo verso un percorso danzereccio dove qualche revival partenopeo può anche starci se inserito al posto ed al momento giusto del set (Balla Concetta per esempio è ritornata in auge al Lingotto). Di sicuro l’originalità che esprimono sul palco in formazione completa con la band prende tutta un’altra piega e il suono risulta decisamente più intenso ed originale.