Non sappiamo se sono stati veramente oltre 40.000, come da comunicato ufficiale, e si sa che a Torino c’è una lunga tradizione nel rendere – come dire? – “elastiche” le cifre in sede di consuntivo, ma una cosa ve la possiamo dire: sono stati tanti, tantissimi. Meravigliosamente, felicemente tanti. C2C è ormai veramente una storia a sé, tra i festival di casa nostra; e la sfida affrontata quest’anno, che come vi abbiamo raccontato era quella di un festival che non sentiva la necessità di mettere in campo gli “effetti speciali” (gli Aphex Twin, i Thom Yorke, i Franco Battiato) ma si affidava semmai ad artisti-bandiera (da Arca a Kode9, per dire: in Italia il loro nome è strettamente legato al festival torinese) e ad un grande numero di esclusive / prime assolute attentamente selezionate con l’idea che siano coerenti al 100% con l’immaginario che il festival si è cucito addosso da quando ha virato verso l’avant-pop eclettico, intellettuale e scuro, ecco, dicevamo, questa grande sfida è stata vinta, vinta davvero, e per distacco.
Davate per scontato andasse a finire così? Beh: sbagliavate.
Sbagliavate perché davvero c’è una progressiva pigrizia nel pubblico, tanto commerciale quanto underground che sia. Pigrizia per cui senza nomi-feticcio “banali” ed iper collaudati sul mercato (che sia il mercato mainstream o quello intellettual-alternativo) spesso e volentieri si va a sbattere, o almeno si ottengono risultati inferiori rispetto alle attese. Ma C2C è riuscito veramente a ricreare un “universo parallelo”, in cui lui detta la lingua ufficiale e le regole d’ingaggio; un universo tra l’altro – e chissà, forse proprio questo è il trucco dell’edizione 2024 – che si è fatto finalmente molto, molto internazionale. Già: il 33% di presenze di quest’anno arriva da fuori Italia. Un numero altissimo. Ma un numero assolutamente reale e meritato, sudato ed inseguito: perché sono anni che C2C martella su una identità precisa “non italiana”, sono anni che comunica tanto e bene in inglese, sono anni che investe in comunicazione su vasta scala geografica con le partnership giuste, sono anni che in generale fa delle scelte artistiche “cosmopolite”. Non l’avesse fatto, e si fosse ritrovato con il 33% in meno di presenze in questa edizione, sarebbe nei guai. O almeno, si troverebbe costretto ad abbassare drasticamente il tiro per il futuro.
Si fa infatti un facile tiro al piattello – ed è giusto farlo, per carità – contro i cachet assurdi che stanno raggiungendo gli artisti più popolari (anche nel “nostro” ambito: vi sorprenderebbe sapere quanto chiedono oggi un Fred Again o una Peggy Gou, e in realtà vi scandalizzerebbe pure); ma la verità è che gli aumenti sono a cascata, non riguarda solo il mainstream, pop o techno che sia. Chiunque abbia un minimo di nome e di “peso” nei discorsi contemporanei, anche solo nelle cerchie degli estimatori di nicchie ben definite, oggi chiede il doppio se non il triplo, ed oltre, rispetto a quanto chiedeva dieci anni fa (e il tutto attualizzato al potere d’acquisto ed all’inflazione, occhio!, quindi aumenti veri, non solo nominali…).
Ve la diciamo più semplice? Ve la diciamo più semplice: in questi anni attorno alla musica dal vivo piovono soldi, sì, perché la gente ha voglia di andare ai concerti e/o trova figo farlo; e quindi tutti gli artisti che sentono di avere un minimo di riconoscibilità oppure di semplice merito – TUTTI, praticamente TUTTI – sono diventati più famelici. Sì. Famelici. L’aggettivo è tagliente e brutale, ma è attentamente soppesato: è quello giusto da usare.
C’è chi se lo può permettere perché effettivamente vende i biglietti, e fa guadagnare i promoter (pochi); e poi c’è una grandissima maggioranza che lo fa perché “così fan tutti” (corollario: “Sarò mia io l’unico stronzo che non si mette a chiedere molti più soldi di prima, visto che i miei colleghi pari grado lo fa chiunque?”). Vi sorprenderebbe sapere quanto certi dj/musicisti che voi stimate tanto per l’integrità ed originalità artistica siano in realtà più avidi di Gigi D’Agostino, del Deejay Time e di Gabry Ponte messi assieme, parametrato in relazione al loro peso sul mercato; e quanto a loro non gliene freghi proprio un cazzo di calmierare i prezzi per mantenere un ecosistema sano nel circuito alternativo, ma pensano invece solo a prendere pure loro qualche fetta o briciola in più al grande banchetto dell’industria della musica live in crescita costante da decenni, per non sembrare quelli che non sono stati considerati negli inviti al banchetto suddetto in quanto non abbastanza bravi o abbastanza scaltri.
Vogliamo biasimarli, per questo? Beh: sta a voi. Da un lato è umano desiderio quello di monetizzare il più possibile dalla propria fatica, dal proprio tempo e dal proprio ingegno (siete mai andati dal vostro datore di lavoro a dire “Mi abbassi lo stipendio? Mi paghi di meno?”); dall’altro però i vari proclami su quanto la musica sia qualcosa di speciale, su quanto le cose nella musica si facciano prima di tutto per i fan e solo dopo per i soldi, su quanto ciò che conta sia la purezza dell’ispirazione e non il meccanismo capitalista dell’industria, insomma, questi proclami si rivelano alla fine della fiera per quello che sono: cinica strategia autoassolutoria, conscia o inconscia, messa lì per nascondere la polvere sotto il tappeto e i magheggi dietro al paravento dell’”arte per l’arte”.
Vi starete chiedendo: vabbé, ok, bei discorsini, ma che diavolo c’entra tutto questo con C2C? C’entra. C’entra eccome. Perché dovrebbe far capire come C2C, nel prendere la direzione che ha preso e nell’ingegnarsi per renderla economicamente sostenibile, ha dovuto sobbarcarsi un lavoro enorme ed un rischio notevole, per non diventare un buco nero. Non solo: ha dovuto fare una cosa per certi versi “brutta” ed antipatica come il lavorare molto sul branding di se stesso e sul diventare un festival che piace-alla-gente-che-piace, almeno in determinati ambiti, di modo da essere “desiderabile” per influencer e responsabili marketing. Non l’avesse fatto, fosse stato cioè semplicemente puro, naïf ed interessato solo al contenuto artistico, oggi probabilmente non avremmo C2C, o ne avremmo solo una versione residuale e poco significativa (…e no, non vi piacerebbe).
La verità? C2C è riuscito a diventare nell’ultimo decennio uno di quegli eventi di cui si parla bene a prescindere. È diventato un evento schiettamente “di moda”, per quanto sofisticata, per quanto qualitativa. È diventato una di quelle situazioni in cui fa figo andare, anche se non si sa bene dove si sta andando e cosa si sta andando a fare; e di cui si parla bene, perché sai che se ne parli bene allora passi per figo ed intelligente.
Tutto questo non lo stiamo dicendo per sminuire C2C, attenzione. Zero. Lo stiamo dicendo per farvi capire che se non avesse fatto anche questo, se non fosse stato così cinico ed attento e calcolatore e realista, non sarebbe mai, mai, mai, mai riuscito a stare al passo col mercato odierno, a stare in piedi col giusto equilibrio economico, ad esistere bene ed in salute oggi così come lo conosciamo, con la sua qualità, con la sua onestà, con la sua personalità. Questo perché appunto ha scelto una via artistica non semplice. Dove spesso gli artisti e relativi management, ringalluzziti dagli elogi della critica e degli influencer più intellettuali e sofisticati, per quanto di nicchia ed “alternativi” si sentono in diritto di chiedere più di quello che valgono realmente sul mercato (…e lo fanno per vari motivi, non solo per cieca e crassa avidità: perché ad esempio sanno che quelli che non si comportano così, che non accettano questo giochino continuo di plusvalore reputazionale o che nel suddetto giochino semplicemente non riescono a rientrare, letteralmente scompaiono, diventano irrilevanti – perché la gente è pigra, non cerca più scoperte, vuole rassicurazioni, vuole status symbol, altrimenti se ne sta a casa sui social o davanti a Netflix e Prime, che è meglio e costa meno e non si fa la fila all’ingresso o nei bagni).
Siete arrivati a leggere fino a qua? Bravi.
La stiamo tirando in lungo.
Vero.
Perché sì: lo sappiamo che sarebbe stato più semplice fare il report C2C in cui giudichi un po’ chi c’era, come si è suonato, come ha reagito il pubblico, eccetera eccetera.
Ve lo diamo in pillole, per le cose che abbiamo visto, partendo da quelle in cui non siamo rimasti proprio entusiasti. Tipo: Mica Levi, con nostra grande delusione, visto che avevamo ottime aspettative, è stata letteralmente imbarazzante col suo set solo voce (stonata, stonatissima, scazzata) e chitarra elettrica; Nala SInephro tanto lodata da certi è in realtà più fumo che arrosto, visto che fa un concerto che è un unico banalissimo arpeggio velocizzato o rallento o effettato con giusto qualche svisata sopra di sassofono o ritmiche, ed è tutto talmente banale e scolastico a livello di partitura che non riesce ad essere ipnotico; Sega Bodega invece poteva essere una sòla, lui sì, e a considerare il suo live in cui gioca fare l’avatar di se stesso e nient’altro dovrebbe decisamente esserlo, invece ha indovinato uno strano equilibrio di magnetismo e strafottente contemporaneità, oltre ad avere canzoni che funzionano, quindi alla fine è ampiamente promosso. Contonuiamo? Continuiamo. Arca non è nemmeno l’avatar di se stessa, è l’avanspettacolo di se stessa, lei però è contenta così, il pubblico che si identifica maniacalmente e adolescenzialmente in lei pure, quindi chi siamo noi per guastare la festa; Sophia Kourtesis è musicalmente caruccia, la sua house è dal vivo divertente, però suona a ben vedere un po’ troppo piaciona ed inoffensiva e lei, di suo, canta proprio male male, a livello da provino delle medie; Romy musicalmente così così, niente di nuovo e niente di particolarmente esaltante, col minus tuttavia di avere dei visuals di una bruttezza rara, il che fa sorgere qualche dubbio sul suo gusto estetico a 360°; meglio infine i Bicep, trionfatori assoluti del festival in quanto a numero ed interesse, ma sinceramente questo spettacolo a/v “Chroma” è più un’esibizione di muscoli – sonori e sulle luci – che di stile ed inventiva, possono e devono fare molto di più.
Ovviamente ci sono state anche delle gran belle sorprese, sia chiaro: Darkside molto più a fuoco e molto più d’impatto rispetto a qualsiasi altra esibizione loro vista in passato, bravi; Olof Dreijer, Verraco ed A.G. Cook, ciascuno a suo modo tre dj set scoppiettanti ed inventivi, bravissimi; l’headliner-last-minute Mace che ha dimostrato di starci alla grande, nel “salotto buono” di C2C, costruendo un set multiforme in cui si è perfino preoccupato troppo di far vedere che è bravo e ne sa davvero, poteva anche renderlo più semplice ed essenziale, ma in ogni caso è stato una delle cose migliori del festival, oh sì, e fosse straniero mo’ grideremmo tutti noi intellettualoidi italiesi “GENIO!”; Yaeji, molto più essenziale e tetragona da dj che da producer, va detto, ma funziona assai anche così; infine il trittico Hassle Audio (Ben Ufo, Pangaea, Pearson Sound) che non sbaglia un colpo manco se gli spari, e lo stesso dicasi di Kode9 che suonando solo materiale della “sua” Hyperdub finisce col vincere facile ma con pienissimo merito, ed un John Talabot solido ed ispirato.
Faccende belle ce ne sono state, quest’anno. Eccome.
Ci sono cose che ci siamo persi perché è dura essere ubiqui (Shabaka, Mandy Indiana, gli ospiti a semi-sorpresa Two Shell, il b2b tra Gabber Eleganza e Kouligas…), ci sono altre che sono state talmente brutte e/o senza senso da fare il giro e diventar divertenti (il dj set di Dean Blunt col buio in sala ed un’ora di Metallica, Deftones e quant’altro manco mixati, il live degli Snow Strippers che è EDM stupidina fatta da dilettanti pasticcioni).
Ma c’è stato soprattutto quello che, per noi, è in assoluto la cosa migliore sentita quest’anno a C2C: il back to back tra XIII e Sabla, “eroi di casa” in arrivo dal team Gang Of Ducks, con occhi snob sembravano i “tappabuchi locali” messì lì tra un set di prestigio e l’altro e invece – per chi ha avuto orecchie per sentirli – sono stati il momento musicalmente più figo dell’intero festival, una techno tanto dura ed industriale quanto atipica e suggestiva – i migliori, davvero. Forse anche i meno pagati del festival, escluso chi si è sobbarcato i dj set d’apertura; a dimostrazione di come le leggi e le quotazioni di mercato raccontino tanto sì ma non tutto, anche nell’avant pop e nell’elettronica “intelligente”, mica solo nel mainstream.
Quindi sì, eccola, avete avuto anche la recensione dell’evento in una forma più “standard”. A cui aggiungere che il palco Stone Island, con la sua particolare architettura che bandisce i visual e dove la console è semi-invisibile al pubblico, coperta com’è dal sound system circolare, si conferma visivamente e concettualmente una trovata vincente, e come C2C confermi di aver lavorato tanto e bene anche quest’anno per essere forte sotto alcuni aspetti che per svariate edizioni erano stati invece una debolezza del festival (leggi luci, impianti, allestimenti, zone chill). Manca ancora da migliorare la zona food, anche considerando che il festival lo si fa ormai iniziare dal tardo pomeriggio e dura fino all’alba, ed è impossibile uscire e rientrare, e poi davvero lavorato su questo siamo all’eccellenza, magari aggiungendo qualche zona cuscini e zona sedute in più (…ma ehi, in fondo basta stravaccarsi nella Sala Rossa quando si vuole riposare o “viaggiare” e si sta divinamente) e trovando chiavi di realizzazione migliore coi vari partner/sponsor (quella roba lì di Weirdcore ed Adidas pareva una mezza presa in giro: un po’ di manifestini adagiati su un orsogrill, uno di quelli usati per delimitare i passaggi da una sala all’altra, e le luci di una festa delle medie ad illuminarli: ma che, davvero?).
Sistemate queste ultime cose, C2C – al netto delle scelte artistiche, indiscutibilmente eccellenti e/o interessanti già da anni – diventa un festival di quelli validi davvero.
…ok, avete avuto la recensione in forma più “standard”. Contenti? A posto così?
Ma davvero ci farebbe piacere continuaste a considerare con attenzione tutto il discorso “di contesto” fatto nella prima parte di questo lungo articolo, senza pensare sia una divagazione inutile. Questo perché C2C è riuscito a consolidarsi facendo un lavoro che è da un lato controcorrente (allontanandosi dal clubbing puro e semplice e cercando invece l’avanguardia e l’avant pop) e dall’altro astutamente e cinicamente contemporaneo e mercatista (l’importanza al branding di sé, al target da raggiungere, alla comunicazione, al massimizzare il rapporto economico coi partner non musicali). redeteci
Fidatevi: che un festival “sofisticato” come C2C si consolidi, cresca e diventi addirittura eccellenza europea in grado di vendere un biglietto su tre fuori Italia è, per i nostri territori, qualcosa di quasi incredibile. Quasi incredibile, sì, soprattutto finché la nostra classe politica resta ferma alla Scala ed alla classica, e tutto il resto sono bagatelle esecrabili che interessano solo ai drogati ed ai perdigiorno. Incredibile, e parecchio splendido. Dissonanze c’aveva provato, ma non c’era riuscito: forse era troppo presto, forse davvero non eravamo ancora pronti, forse doveva essere più cinico e determinato, forse doveva capire che come sei percepito è importante tanto quanto quello che poi offri davvero, se non di più, forse era troppo bello, troppo “vero”, e troppo poco calcolato; ma sta di fatto che no, non c’era riuscito.
E sta di fatto che C2C, oggi, è una macchina che funziona. È fatto con cura, è comunicato con acume, è “sensibile alle foglie” ovunque ce ne sia bisogno, è un festival dove stai bene, è un evento dove scopri delle cose. È per chi ci va e chi lo supporta un contesto dove anche solo per qualche sera ti senti “comunità” senza sentirti massa o gregge, ed è una situazione dove se sei snob impari quanto è bello essere per una volta popolari mentre se sei popolare ti gusti l’illusione di essere, per una volta, anche tu un po’ elite – ogni tanto ce vo’.
Una quadratura del cerchio, quindi.
Economicamente sostenibile.
Una quadratura del cerchio più forte per ora di un mercato dell’intrattenimento musicale dal vivo che, inebriato del suo stesso successo, di suo da qualche anno a questa parte è sempre più stronzo, sempre più avido, sempre più cinico, non solo nel mainstream ma anche in tutti gli altri ambiti più o meno alternativi, C2C compreso. Questo almeno fino a quando il giochino non inizierà a mostrare la corda, e le cose le si faranno solo a Riyadh o a Dubai finché pure da quelle parti non si stuferanno ed inizieranno a far di conto, o non si faranno e basta. Dietro ai giudizi artistici su un set più o meno decostruttivista, più o meno avant, più o meno techno, più o meno hyper/avant pop, bisogna iniziare a porsi anche queste questioni: sennò va a finire che resteranno solo i concerti negli stadi, o nei palasport, o nei festival grandi che si mangiano quelli piccoli.
Ma anche no.