Chi ha avuto la fortuna di godersi il primo set italiano di Dj Vadim al mitico Link di via Fioravanti, a Bologna, alla fine degli anni ’90, non potrà mai scordarsi l’energia, la perizia tecnica e la totale sintonia del ragazzo di San Pietroburgo con il suono che stava sintetizzando in quel momento: un’adrenalinica miscela di ritmi “headz”, beat di chiara matrice hip-hop e futuribili trame elettroniche. Ai tempi il ragazzo aveva poco più di venti anni e stava già girando il mondo sull’onda dello straordinario successo ottenuto dal suo album d’esordio marchiato Ninja Tune, U.S.S.R. Life from the Other Side. Per promuovere quel lavoro Vad aveva messo su una vera e propria live band – The Russian Percussion – che poteva contare sulla presenza ai piatti di Mr Thing, il mostruoso beat box di Killa Kela, le metriche di Blu Rum 13 e le tastiere di John Ellis. La visione musicale e la maturità artistica erano già evidenti. Sono passate due decadi, una malattia seria sconfitta con coraggio e forza d’animo, vari cambi di residenza tra New York, Barcellona, Berlino e Londra, molti contratti discografici, 13 album e una incalcolabile quantità di date sull’intero globo terraqueo ma il nostro è ancora in gran forma. Ha già sfornato hit come The Terrorist, Black is the night, This Dj e Bluebird, remixato Erykah Badu, Alice Russell, CL Smooth e collaborato con artisti come Prince, Stevie Wonder, The Roots, Public Enemy, Kraftwerk ma continua a scoprire e promuovere giovani talenti scovati ad ogni latitudine. L’innovazione della formula è ancora il suo credo e la ragione prima nel produrre e suonare musica, alla continua ricerca di nuove sonorità e senza fossilizzarsi su stereotipi, come dimostra la recente uscita dei due volumi di The Dubcatcher, una organica collezione di tracce che declinano in chiave elettronica la fertile eredità del reggae. Per farci raccontare l’imminente uscita dei nuovi lavori su BBE e in attesa della data unica italiana al Tropical Party di sabato 29 luglio, San Cataldo (Lecce) lo abbiamo intervistato.
Quella del 2017 sembra un’estate molto calda per te. “Dubcatcher2” è in giro da poco ma stai già lavorando a due prossimi album. Puoi accennarci qualcosa?
Ho appena finito un album soul assieme a Katrina Blackstone, una straordinaria cantante che avevo avuto modo di conoscere in un recente tour negli Stati Uniti. Sono rimasto incantato dalla sua voce ed ho deciso di chiamarla già nel primo capitolo di “Dubcatcher”. Il disco si muove su territori musicali molto eclettici che vanno dall’afro beat alla disco, dal soul al reggae, ovviamente con un humus hip hop che si sente molto bene. È un po’ come se Jay Dilla incontrasse Fela Kuti, insieme decidessero di andare in studio da King Jammy con Kaytranada alla produzione. L’altro album pronto ad uscire è il terzo volume della serie “Dubcatcher”, per il quale sono andato in Giamaica a registrare le voci di alcuni grandi veterani della dancehall e molte delle nuove promesse.
“Turn It Up” è il tuo ultimo mixtape, basato su un perfetto blend di rap, dancehall e soul. È lo stesso tipo di amalgama sonoro che stai portando in giro nei dj set del tuo tour estivo in Europa?
Sì e no, nel senso che una delle mie preoccupazioni artistiche principali, come dj, è quella di suonare in relazione alla vibrazione del club o del luogo nel quale mi trovo. Pongo molta attenzione nell’analizzare la situazione, il pubblico, l’impianto. La tracklist dei miei dj set cambia ogni volta e deriva dal mix tra queste osservazioni e l’intuito allenato in tanti anni. Capita così che certe sere io suoni heavy bass, oppure cerchi di ricostruire le atmosfere di una dancehall giamaicana, mentre altre volte opti per set più marcatamente hip-hop.
Da alcuni anni stai curando con grande attenzione e regolarità la tua pagina Mixcloud. Hai molti follower lì e i tuoi mixtape finiscono regolarmente in cima alle classifiche. È un canale nel quale credi?
Credo che sia sempre una gran cosa coltivare l’attenzione dei propri ascoltatori. Riuscire a tenerla viva è una delle massime ambizioni di ogni artista. Mixcloud è un’ottima piattaforma, da questo punto di vista. La uso molto anche per ascoltare e scoprire nuovi artisti, oltre che per caricare i miei contenuti. Peccato che ancora poca gente la conosca.
Sempre in tema di piattaforme digitali, di recente la Trojan Records ti ha chiesto di curare una playlist speciale sul suo canale Spotify. Cosa pensi di questa etichetta?
Per me la Trojan è una delle etichette fondamentali per la storia della musica, uno dei pilastri insostituibili per la nascita e l’evoluzione del reggae. Se non fosse esistita forse la reggae music non sarebbe mai nata o comunque sarebbe qualcosa di molto differente. Proprio come un mondo senza la Motown, la Blue Note o la Def Jam.
L’estate è il momento dell’anno nel quale i tuoi tour, sempre molto ricchi di date, si intensificano ulteriormente. Riesci a trovare il tempo per fare altro a parte arrivare in forma alle tante date?
In questo momento ho davvero tanti show in giro per il mondo. Nonostante questo sto costruendo un nuovo studio di registrazione e sto per avere un bambino con mia moglie.
Essere un dj globetrotter e visitare così tante città e scene musicali ti ha permesso di sviluppare forti connessioni e collaborazioni creative. Credi ancora che la musica sia un buon modo per consolidare e supportare le comunità sociali che incontri?
La musica è, per definizione, un linguaggio internazionale. Scavalca le differenze culturali, linguistiche e sociali. Per esempio: non posso contare il numero di persone, tra quelle che ho incontrato in più di venti anni di musica, che mi hanno detto di aver imparato l’inglese attraverso le canzoni. Molte altre hanno conosciuto lo spagnolo e il portoghese per seguire i loro artisti preferiti. È un carattere innato della musica: ti porta a superare ogni tipo di limite e confine, se la sai ascoltare.
Hai sempre avuto una prospettiva onesta sullo stato dell’industria musicale e sul ruolo del dj. Come descriveresti sinteticamente la situazione attuale?
Per scherzare, ma neanche poi più di tanto, potrei dire che ci sono troppi dj e troppi pochi ascoltatori, troppe tendenze che provano ad imporsi ma, alla fine dei conti, bisognerà vedere chi sarà ricordato e chi scomparirà alla memoria. Per quanto mi riguarda ho sempre pensato alla musica come una forma d’amore e mai come ad una opportunità d’affare. Quello che faccio lo faccio per amore. Quello che ho imparato con l’esperienza è una cosa molto semplice, forse banale ma sempre vera: la cosa più importante per un artista è portare vibrazioni buone alle persone che stanno soffrendo per una situazione di instabilità politica e finanziaria. Come dicono in Game of Thrones: “l’inverno sta arrivando e Daddy Vad è quello che porta sempre il calore”!