Doveva essere solo un greatest hits, quella era l’idea originaria, ma sono bastate pochissime sessioni in studio per decidere che no, c’era tutto il margine e tutta l’ispirazione per far uscire un album nuovo, per festeggiare i dieci anni del gruppo. “Decade” per i Calibro 35 è la time capsule di una carriera lunga dieci anni, ma anche il “decadere” di un certo modo di fare musica – per una band, o proprio per una nazione. Alla vigilia dell’uscita di questo nuovo, splendido lavoro abbiamo incontrato Enrico Gabrielli per una lunga intervista che sì, poteva anche finire in una grossa figura di merda…
Sai che ero teso prima di questa intervista: si rischia sempre la figura di merda quando ci si approccia a determinati tipi di musicisti. Secondo me vi si vede un po’ come “supereroi”, soprattutto se raffrontati a un determinato tipo di musica fatto solo di plug in e pulsantini.
Cazzo, è interessante la prospettiva del tuo punto di vista. Noi facciamo semplicemente parte della categoria ormai in estinzione dei musicisti suonanti in maniera tradizionale.
Perché in via di estinzione?
Perché banalmente, secondo me, i ragazzi di diciotto anni o suppergiù non hanno più la fascinazione dello strumento manuale: sono più presi dallo strumento astratto, qualcosa che ti consente in una sintesi estrema di poter fare tante cose e che, tra l’altro, nemmeno ti fa avere un rapporto diretto con le note. Noi siamo l’esatto contrario, abbiamo ancora un approccio manuale con gli strumenti, alcuni di questi poi sono anche molto vecchi e sia chiaro, non perché siamo particolarmente feticisti, semplicemente preferiamo il plug and play alla tastiera con duecentosessantaquattro funzioni. In realtà più che vedermi come un eroe mi vedo più come in “Spazio 1999”: un qualcosa che se ne sta andando via, alla deriva, qualcosa che rimane solitario e va proprio da un’altra parte. Adesso ti snocciolo questa cosa storica che sembro chissà quale critico e fine analista, ma provo a farti capire il mio punto di vista: le epoche storiche, in realtà, hanno vari processi che sono sempre molto lenti e compresenti; quando c’era il prog c’era il punk ed erano sovrapposti, non è che uno si è fermato all’improvviso ed è partito subito l’altro. Se andiamo ancora più indietro, ad esempio nel 1500, la polifonia era molto più complicata; due secoli dopo ai tempi di Mozart era già molto più semplice, poi però è tornata a farsi più complessa, poi più semplice, e cosi via, è ciclico. Questo è un periodo dove più vai avanti, più c’è un desiderio di una semplicità nella forma canzone, che va di pari passo con i sistemi tecnologici che poi ti trovi a usare. La tecnologia ti consente di fare molte cose semplici ed efficaci, che vanno a lavorare sul suono. Ecco: oggi tutto va verso il suono, verso il confezionamento, verso il vestito piuttosto che verso le forme, anche perché sono gli strumenti che determinano la forma o certi meccanismi di contenuto, per cui alla fine del ragionamento, tornando a “Spazio 1999”, io vedo proprio che oltre ai nostri strumenti e al nostro modo di suonare se ne va anche un modo di pensare la musica. Io la percepisco proprio questa cosa.
Ti senti vecchio?
Sì anche, poi secondo me i musicisti pop sono come i calciatori: 43, 44 anni e secondo me entri nella fase calante.
“Decade”, il vostro prossimo disco, è anche un racconto dei vostri primi dieci anni di Calibro35. Non ti farò la classica domanda “fammi un bilancio di questi dieci anni” però ti chiedo: la prima volta che siete entrati in studio insieme, vi sareste mai immaginati dieci anni dopo?
No, non avremmo mai immaginato. Io conoscevo Luca da tanti anni per esperienze bolognesi; conoscevo poi Tommy, ma non conoscevo gli altri. Ti dico una cosa: i Calibro 35 non sono la classica band di amici. Noi non eravamo amici, noi siamo stati assemblati come un’equipe di lavoro. Poi ovvio in questi dieci anni l’equipe è diventata anche una band, nel senso della condivisione, convivenza, tour molto lunghi. Abbiamo anche progetti paralleli, che sono vitali per costruire l’energia di Calibro 35.
Un progetto nato a tavolino quindi…
Si, siamo stati assemblati come gli X-Men, siamo anche i cinque tipici personaggi da film d’azione poliziesco, il classico gruppo criminale dove ognuno ha i suoi skill: lo spacciatore, lo scassinatore, l’esperto di mitra, quello di finanza, di strategie; poi, chi sia chi non si sa, e non è chiaro. Ma è così.
Un po’ anche come le boy band se vuoi.
Sì, certo. Ma in effetti se ci pensi sia la cosa delle boy band che quella dell’assemblare le band a tavolino è una cosa molto anglosassone. E non per forza riferita solo alle boy band, appunto: pensa ai Led Zeppelin.
Avete scelto di evitare la classica pubblicazione celebrativa del “Greatest Hits” a favore invece di un disco nuovo fatto e finito. Tra l’altro, un disco in cui secondo me Calibro 35 trova la completezza del proprio suono. L’aggiunta delle ensemble Metallo Su Carta completa e riempie tantissimo il vostro suono, rendendolo molto compatto, arioso.
Certo, la maturazione fatta durante questo percorso ha portato ad un rapporto forse più cinico con la musica, un cinismo che in fin dei conti secondo me ci ha fatto crescere molto. C’era questa idea di mischiare un pochino le carte, aggiungendo delle persone in registrazione. In effetti noi dovevamo fare questa cosa di aggiungere delle parti orchestrali, per un ipotetico greatest hits celebrativo, con i nostri pezzi riarrangiati. Poi però ci siamo detti: “No, dai, aspetta un secondo, facciamo uno step ulteriore, teniamo l’orchestra ma facciamo un disco nuovo”. Son bastati un paio di pezzi ed è scattato il meccanismo del “nuovo disco”, che si è assemblato in pochissimo tempo.
Il disco ha più concept al suo interno: certo, c’è la celebrazione dei dieci anni, ma si parla anche di architetture, per dire, già dalla copertina oltre che in alcune tracce.
“Decade” è un titolo che si presta a più chiavi di lettura. Vivendo tanto all’estero e con il vantaggio di essere una band di strumentali e non di voci e pronunce, giochiamo con le varie pronunce del titolo. “Decade” può essere letto anche come “decay”, “decadere” in inglese: Tommaso vive a Londra, in un paese post Brexit e in una realtà molto complessa, per cui oltre alla decade/decennio può significare il decadere di una nazione, di una band – ha tanti significati, questa cosa l’abbiamo lasciata anche in pasto alla gente. Un altro concept è quello dell’architettura utopica, delle distopie e di un immaginario non più spaziale ma architettonico: un immaginario improbabile, urbano, visto da un’ottica sia estremamente remota, sia estremamente lontana nel futuro. Abbiamo interrotto sia quell’immaginario poliziottesco a cui eravamo legati e che ci caratterizzava, ora andiamo più nello spazio come fossimo in un cosmic cartoon, ma lasciamo alla gente il libero arbitrio di decidere cosa sta ascoltando. C’è un titolo, c’è una musica e fai te: crea tu il tuo immaginario.
Che poi sono un po’ i dettami dell’architettura radicale che si ritrova in due pezzi del vostro disco, “SuperStudio” e “ArchiZoom”, intitolati come due famosi (e particolari) movimenti architettonici. Oltre al concetto di architettura capovolta, a cui ovviamente si rifà la copertina.
Esattamente! La copertina è una citazione di “Monumento continuo”, un lavoro di Superstudio in cui c’è la città di New York rinchiusa in un gigantesco monumento. Molti ci dicono “Fa molto Inception”: sì, anche, lo è. C’è poi un po’ di paradosso in più, in “Decade”: non è più un disco di narrazione ma è un disco di library, con tutto quello che ne consegue. Ci sono un sacco di library che ad esempio hanno soltanto dei titoli: prendi Lesiman (alias Paolo Renosto). Lui era un compositore che ha fatto library importanti: magari offriva titoli tipo “Confronto” o “Moto Centripeto” in cui appunto veniva dato giusto il titolo e il suono, e in cui era l’ascoltatore che doveva dare spazio ad un immaginario proprio.
E’ un disco che in effetti apre molto all’immaginazione, rispetto ad esempio a “Traditori Di tutti”. Lì ci voleva un preciso mood per mettersi all’ascolto.
No chiarissimo, anche perchè “Traditori di tutti” era la colonna sonora di un film mancato. Lì c’era questa storia per cui Scerbanenco aveva scritto quattro libri su Duca Lamberti, da cui erano stati tratti tre film, il quarto no, e noi avevamo deciso di fare la colonna sonora per questo film mai fatto. Con “Decade” non c’era una scusa, non c’erano pretesti di questo genere, è un percorso a doppio senso. Volevamo fare – e secondo me è venuto molto meglio di quanto ci aspettassimo – un disco più misterioso del normale.
(Continua sotto)
Torniamo a questa cosa dell’architettura e di Superstudio. Ho un’amica architetto, lei viene dallo studio Shigheru Ban, ora è nel team di Zaha Hadid. Sono andato da lei per capire meglio Superstudio e Archizoom, da amante profano dell’architettura quale sono. Lei mi faceva notare che in molti ambienti e per buona parte del mondo dell’architettura Superstudio era considerato un bluff, gente che ignorava i problemi reali dell’architettura mettendo la testa sotto la sabbia. Niente di più di una moda, insomma, che sta tornando giusto tra chi vuole fare il figo con questa mania del retrofuture…
L’immaginario di Superstudio o Archizoom, come anche di altre cose che sfociavano nella pubblicità di allora, non era architettura reale o architettura pratica: era il passo preliminare di un certo tipo di concetto estetico applicabile poi al commerciale, all’immaginario pubblicitario, come anche alla disco music. Il mondo black in realtà prende tantissimo da questo immaginario retrofuture, e non è un caso che da parte nostra ci sia un riferimento diretto a quelle cose lì. Però sì, credo che questo tipo di rapporto con l’architettura non sia lontano dai gesti tipici di un Manzoni: contraddizioni artistiche scarsamente utili ad un discorso di tecniche pittoriche o artistiche, vero, che lavorano più che altro sul concetto. Superstudio lavorava su quello, facevano installazioni più che architettura. Assolutamente.
Un bluff associabile forse a quello dietro questo improvviso ritorno d’interesse per il funk e il jazz. Secondo me poi a null’altro si riduce se non a Pitchfork e altri specifici tastemaker che si accorgono all’improvviso del jazz e del funk, dopo averli serenamente ignorati per anni.
Sì, di fatto è così. Io sono stupito ad esempio nel vedere come Kamasi sia diventato un fenomeno così hype, visto che in realtà fa della fusion assolutamente vecchio stile. Già Thundercat, per dire, fa delle cose più moderne. Io penso che nel mondo delle mode giornalistiche scatti qualcosa in alcuni opinion leader che, evidentemente, hanno mezza passione ma soprattutto hanno un potere tale da far partire un meccanismo di “coolness”. I grandi fenomeni partono solitamente dal rifiuto di quello che c’era prima, per cui basta una persona con un minimo di potere per rilanciare una moda e creare fenomeni di questo tipo. Però, se ci fai caso, Superstudio lavora sicuramente molto meglio sulle mode che Le Corbusier: è insomma chiaramente più facile un approccio all’architettura di quel tipo piuttosto che all’architettura di Le Corbusier. Evidentemente anche nella musica ci sono cose che sono destinate a rimanere in una nicchia. Beninteso, fossi io un architetto probabilmente direi le stesse cose della tua amica…
In un certo senso, pensavo che se è vero che questa riscoperta del jazz e del funk può essere vista come un bluff, considerato che insomma jazz e funk hanno sempre regalato prodotti anche migliori di Kamasi e Thundercat, voi siete per certi versi un “andare a vedere” questo bluff. Voi siete sempre stati molto lontani dalla logica del “re”: re-interpretare, re-inventare, re-ipotizzare… Voi no, voi esattamente suonate come si suonava e si suona ancora. A voi non è mai interessato il reinterpretare.
Questo è verissimo. Suonando con strumenti, è molto più facile essere quelli che evitano il re-. Avessimo un approccio più elettronico, reinterpreteremmo. Se hai un organo Tiger puoi provare a reinterpretare quanto vuoi ,ma lo suonerai sempre come si suonava negli anni ’60. Siamo anche su Record Kicks, un etichetta molto più vicina alla scena funk newyorkese (ad esempio quella di Sharon Jones). Noi siamo una via di mezzo, magari, ma con riferimenti solidamente ancorati a quella scena.
Vi ritenete musicisti rigorosi?
Alcuni di noi lo sono. Luca è molto rigoroso, è una persona severa con se stessa e con la materia musicale, ed è infatti uno dei migliori bassisti in Italia. Lui fa delle cose, pur senza una conoscenza stretta della materia compositiva, che sono assolutamente incredibili: sono cose che non ho mai visto nemmeno in Conservatorio. Credo, anzi, sono sicuro sia un qualcosa che gli viene dal metal. Nel metal ci sono delle cose molto rigorose, che però allo stesso tempo sono comunque al servizio dei “kids”, cioè di un ragazzo che ama il metal. Gli altri, me compreso, sono meno rigorosi. Io di mio sono molto monastico nell’approccio allo studio della musica. Tutti i miei brani sono prima scritti su carta, nemmeno il computer, proprio carta, e nemmeno sono cose che simulo prima con uno strumento. Io le scrivo, le porto in studio e si prova. Max poi è uno dei più brillanti musicisti pop in circolazione: lui arriva con un brano scritto fatto e finito, che alla fine diventa sempre il brano hit dei Calibro 35.
Fammi capire: tu scrivi una nota sul pentagramma immaginando già il suono che fa?
Sì, anzi per me la cosa più difficile è trovare gli strumenti per fare le simulazioni ma – credimi – non è altro che una tecnica che si sviluppa con lo studio. È lo stesso per una persona che studia matematica o fisica, un percorso di calcolo mentale naturale.
Qual è la congiunzione tra la parola pop, che hai usato poco fa, e i Calibro 35?
Il ponte è che i Calibro 35 hanno alcune cose con una grossa capacità comunicativa, poi il pop erroneamente viene associato solo alle cose famose. Secondo me il pop è quello che riesce a comunicare meglio; se poi questa forma di comunicazione sia basata su un principio sano o meno, questo non lo so. A volte è basata su un principio del cazzo, una coercizione mentale di quello che la radio in diffusione ti manda: sei talmente abituato ad ascoltare quella merda che poi va a finire che ti piace. Non è però detto che tutto il pop sia merda, o tutto il pop faccia schifo, o che sia tutto bello. Noi abbiamo queste capacità di grande comunicazione, che stanno insieme a cose molto complesse: e sono cose che stanno bene insieme perché le cinque persone che le sviluppano in parte uguale sono una parte, ciascuna, importante. Probabilmente camperemmo uguale anche senza alcuni di noi ma la completezza, e in “Decade” si sente come non mai, viene data dai cinque importantissimi approcci alla musica di cinque persone diverse che hanno cinque idee diverse di fare musica.
Tra l’altro il vostro essere pop ha ricevuto un importante riconoscimento, come quello di essere finiti in una delle definizioni della Settimana Enigmistica.
(Ride, NdI) Quello è buffo sì, mio padre ci è rimasto… La fortuna dei Calibro 35 è che, essendo strumentali, il mondo dell’hip hop si è appropriato della nostra musica facendoci entrare nel circuito del sampling, dei djing, delle library con Dr. Dre e Jay-Z.
Questo è il premio di una certa rigorosità musicale…
Credo tu abbia ragione. Noi veniamo associati a qualcosa di antico, e questo fa sì che noi veniamo campionati come se fossimo qualcosa di vecchio. Questo è un meccanismo assurdo: noi ci comportiamo assolutamente come un gruppo attuale, ma mi rendo conto che veniamo visti come un gruppo vecchio, dell’epoca d’oro.
E’ un traguardo anche perché, che sia Dre o Jay-Z, l’essere campionato secondo me se fai questo tipo di musica vale un Grammy (visto che tra voi c’è chi l’ha vinto…), e questo vuol dire rimanere nella storia.
Cazzo sì (Ride, NdI), in termini moderni vale un Grammy. Vuol dire entrare a far parte di una piccola forma di storicizzazione di un percorso musicale.
Strizzate un po’ l’occhio a questa cosa di poter dare materiale ai dj con “Decade”, magari anche solo involontariamente?
Involontariamente credo di sì, ma soprattutto perché la mente del progetto è Tommaso, con il braccio armato di Max. Eravamo ad Austin a una data, ci guardavamo intorno e Tommy lanciò l’idea dicendomi: “Che cosa ha reso celebri gli italiani nel mondo per la musica? Le colonne sonore”. Però lui veniva dall’hip hop, lui era un writer a La Spezia e viene da quel mondo lì. Il circuito dell’hip hop italiano ci è molto vicino, poi guarda, se ti dicessi io ciò che penso di questo circuito potrei riempire una pagina di insulti.
Vai…
Ci sono delle cose belle ma secondo me c’è ancora un grosso problema: c’è un divario molto grande tra quello che metti in campo con le parole e il senso invece della musica. C’è Mos Def che fa freestyle al Letterman accompagnato da un’orchestra e sta ad un livello di cinquecento anni avanti rispetto all’Italia, ancora ferma all’mc che rappa con le basi dietro, arrancando un po’.
Infatti siccome non c’erano le skills, è andata subito di moda la trap.
Certo, il problema è che sono dei filoni che creano dei mostri che creano dei filoni che creano mostri. Un fuoriclasse hip hop che canta in italiano e che utilizza la materia musicale in forma davvero inedita, beh, non mi viene in mente. Vedo un sacco di fenomeni che si moltiplicano da fenomenologie identiche, ma nessuno di loro si può assumere lo status di musicista: vorrei vedere uno che fa hip hop che sia anche un musicista con i controcoglioni.
Damir (Ivic, ndr) ti direbbe che sei poco elastico, come lo dice a me. Secondo me questa moda della trap di adesso è una resa del rap italiano, in cui si è pensato “Chi se ne frega dei testi, spariamo quattro cagate va bene così”. Forse non è nemmeno il periodo di fare un disco rap suonato.
Qualcuno ci ha anche provato, Ghemon forse era stato il primo. Apprezzo il tentativo ma serve altro, serve una grande capacità di narrazione verbale e una struttura musicale inedita che faccia dire “Questo è l’hip hop italiano”: e non perché sia in lingua italiana ma perché ha un suono italiano, e non è solo una cosa di produzione.
Come Calibro 35 fareste mai un disco con un rapper?
Sì, lo faremmo per gli A Tribe Called Quest, per gli americani banalmente. In primo luogo perché non capisco un cazzo di quello che dicono, per cui diventa una cosa musicale, e questo mi piacerebbe. Trovo l’hip hop troppo basato sull’inside joke: se uno non è abituato all’hip hop, non capisce un cazzo di quello che viene argomentato. Se non ne sei parte (o fingi di esserlo), ne sei tagliato fuori.
Stiamo finendo l’intervista e forse mi sono salvato. Ho pensato, preparandola, “Speriamo non mi tiri fuori titoli funk alla naftalina perché sono rovinato, tento tutto al più la carta Neville Brothers”.
(Lunga risata, NdI) Per quel funk devi parlare con Max, con me ti salvi. A me interessa in parte. Nonostante ascolti musica antica, mi interessa a livello sociale la musica contemporanea. Non ne faccio parte, sono un vecchio rocker psichedelico e glam con la faccia che non c’entra un cazzo, che non si veste con i vestiti adatti, però sì, comunque mi interessa capire.
Secondo me ci sta che uno dei compiti del musicista sia quello di osservare.
Dovrebbe. I musicisti sono una strana cosa, sono persone con una percezione filtrata dalla musica: ci sono quelli che sopperiscono alle carenze prendendo da costume e società, creando dei casi orripilanti. Parecchia gente insomma che fa strategia continua per coprire delle lacune. Poi ci sono i musicisti che non capiscono una minchia di quanto intorno: non ascoltano, non vanno ai concerti. I migliori sono gli ascoltatori, che sono i più esperti, anche se sopraffatti spesso da ciò che trovano in giro. Il musicista dovrebbe avere un ruolo da osservatore, ma è molto difficile.
Calibro 35 da qui a dieci anni? Immagina di trovarci qui tra dieci anni: di cosa parleremmo? Sempre di musica? E sempre di musica in un certo modo? Considerando anche quello che ci siamo detti in questa intervista, è una cosa possibile? Probabile?
E’ possibile se questo percorso manterrà intatto il profondo senso del legame con la “necessità” di fare quello che fai. Se ti serve invece un “colore” per coprire un disco, per portare in giro il nome, non avrebbe senso fare le cose per noi ed era il rischio che si sarebbe corso se avessimo fatto un mero greatest hits. Ci sono ancora tanti concetti che si possono prendere: pescare dal Western, una prospettiva su Paolo Renosto o su Alessandroni, o un programma morriconiano.
Ecco, con il maestro il rapporto qual è, l’hai conosciuto?
Io l’ho conosciuto insieme a Mike Patton.
No vabbè, rido immaginando la situazione.
Sì, infatti, immagina. È una storia che si esaurisce così: suonavamo con Mondo Cane a Santiago Del Cile, in un concerto condiviso, Morricone inizialmente non sapeva ci fossimo anche noi. Quando l’ha saputo si è incazzato di brutto e ha preteso di suonare per primo con la grande orchestra, scappando via un secondo dopo. Ricordo che quando gli ho chiesto l’autografo era nero, con ‘sto spartito in mano agitato furiosamente, mi ha segnato sto biglietto del treno sprezzante dicendo “Questo è n’autografo eh, nun è una firma”. Ha ottantacinque anni, è un signore anziano, ma per quel poco che l’ho visto è un grandissimo scassaminchia.
Guarda che lo scrivo.
Ma sì scrivilo pure, chi se ne frega delle denunce. E’ una delle più grandi rockstar viventi ma è un signore anziano che non ama viaggiare, non ama fare concerti, abbastanza capriccioso, che parla di musica in maniera naïf. Detto questo è un genio, anche grazie ai musicisti che aveva intorno.
Abbiamo finito, se posso permettermi però il disco western dei Calibro 35 me l’ hai messo in testa e lo vorrei.
Dovrei chiedere il permesso ai Guano Padano… In realtà, mi piacerebbe andare a toccare la commedia italiana, i film di Dino Risi: la colonna sonora de “Il sorpasso” è qualcosa di immenso!
(Foto di Chiara Mirelli)