Non è solo un’impressione personale. Ogni anno l’avvicinarsi dell’estate fa scattare più di un campanello d’allerta a discografici, etichette e artisti, tutti all’unisono orientati di colpo verso l’obiettivo supremo: segnare in qualche modo l’estate che sta per arrivare. È un processo che osserviamo ripetersi puntuale ogni volta, nemmeno tanto difficile da riconoscere. L’annuncio tipicamente arriva a primavera o poco prima, e comunica una data di uscita che oscilla grossomodo tra aprile e luglio, a seconda di quanto conviene a livello d’immagine lasciar crescere l’hype. Il ritorno/debutto su album di X, magari con copertina dai colori caldi già svelata. X nel frattempo ha lavorato alla sua rivoluzione estiva componendo i pezzi magari anche in pieno inverno, ma che importa. Se il sound ce l’hai in testa te ne freghi del termometro. E se è quella la missione che stai puntando, tipicamente le idee ce le hai già chiarissime.
Non è nemmeno una missione di quelle semplici, eh. Perché non parliamo dei Martin Solveig o delle Rihanna che mirano direttamente alle hit da classifica popolando le heavy rotation esattamente con quel che il pubblico generalista si aspetta per quell’anno. Questi sono artisti di carattere, detentori di un sound personale già consolidato ma che magari, per ragioni diverse, sentono il bisogno di cambiare pelle. O immagine. Rinverdire esattamente come i parchi a maggio, e nello stesso tempo gettare sul tavolo quel contributo peculiare che può donare alla stagione una sfumatura inaspettata, un mood differente, un nuovo input proveniente da spazi e territori non comuni. Magari non se ne accorgono tutti. Ci vuole una certa malizia e un occhio attento, ma se il disco riesce come previsto, finisce non solo nelle preferenze più alte dei magazine specializzati, ma anche nelle autoradio dei tragitti vacanzieri degli ascoltatori più accaniti. Quelli che la musica è una compagna di vita e il periodo estivo ha l’appuntamento fisso con la compilation selezionata da loro stessi per gli amici.
Succede ogni anno, incluso quello in corso. Quelli che seguono sono dieci esempi di album usciti a ridosso delle ultime estati e ognuno di loro, a modo proprio, ha segnato i ricordi che da bravi ascoltatori portiamo di quei mesi. Dischi più o meno legati a trend di quegli anni, identificativi di una svolta sonora più o meno netta degli artisti coinvolti. Dischi fatti di canzoni che quasi mai finiscono nelle summer compilation che troviamo tra i banchi top selling dei negozi di dischi, ma che puntualmente marcano un legame affettivo con chi nel mondo della musica si fa guidare dalla ricerca delle sensazioni giuste, invece che dai nomi spinti dalle classifiche di vendita. Succederà ancora, e ogni volta sarà come trovare il proprio angolo di felicità in mezzo al chiasso indistinto di fondo che sale dalla spiaggia.
[title subtitle=”Mount Kimbie: l’estate che rivoluzionò il dubstep”][/title]
Luglio 2010: c’è questa cosa chiamata dubstep che va avanti da anni tra alti e bassi, e con l’estate non c’entra manco di striscio. Una cosa buia, fatta di basse frequenze e spazi intimisti, tutto l’opposto della vivace giovialità tipica dei suoni della bella stagione. ‘Sta cosa però ai Mount Kimbie pare non l’abbia spiegata nessuno. E meno male. Perché fu quell’anno che i due ragazzetti londinesi si misero in testa che il dubstep può suonare diverso. Non “un po’” diverso, tipo le deviazioni techno pensate nello stesso periodo dal loro stesso boss alla Hotflush, Scuba. Diverso nel senso che può tirare in gioco cose che finora erano state delle assolute estranee. L’allegria. La dance baldanzosa. Le vocine furbette. Così con “Crooks & Lovers” tirano fuori una copertina che trasuda afa a prima vista, spezzano il muro dell’oscurità con pezzi come “Mayor” e “Carbonated” e segnano la svolta più importante avvenuta quell’anno: la nascita del cosiddetto “post-dubstep”. E tutti gridarono allo scandalo.
[title subtitle=”Washed Out: il canto del cigno glo-fi”][/title]
Luglio 2011: il glo-fi è tipo la cosa più chiacchierata del momento. Anzi, a dirla tutta lo era ancor di più i due anni prima, ma quegli hippies dei giornalisti specializzati non hanno ancora trovato niente di più eccitante con cui sfogare la propria libido, e tutto questo ovviamente fa il gioco di Washed Out, che di questo pseudo-movimento è il leader dai tempi di “Life Of Leisure“. L’album non lo aveva ancora fatto, ma va da sé che era una cosa da fare d’estate. Cacchio, il glo-fi è proprio questo: la nostalgia malinconica delle estati passate, quei momenti di relax poco prima del tramonto, magari nella stanzetta di casa con le veneziane semichiuse, giusto a far entrare gli ultimi raggi di sole prima del tramonto. E su album il ragazzo perfeziona il sottile spostamento del baricentro glo. Passo addormentato quasi fosse appena tornato dall’after in spiaggia, definizione pop più netta del solito, un paio di folklorismi azzeccati e persino una dimensione housey che fa gioco. Per quanto l’album glo-fi definitivo a conti fatti non è mai stato fatto, nessuno ha fatto disco di genere più completo di “Within And Without”. Perché c’è tutto quel che c’era da dire in merito. Più qualcosina in più. Tipo “Amor Fati”, che il concetto di vacanza estiva te lo spara esplicito sul video. Il colpo di genio? Il video esce a settembre, a estate quasi conclusa. Se no dov’è la nostalgia?
[title subtitle=”Little Dragon: il pop-soul si fa danzereccio”][/title]
Sempre luglio 2011: son diversi mesi che tira un casino quest’elettronica cantata, un po’ pop un po’ soul, che stuzzica tanto il pubblico di settore quanto gli indie in cerca di novità e sembra funzionare a tutti i livelli. Esattamente quanto accade oggigiorno, già, e le cose sono grossomodo cominciate in quel periodo. Fu l’anno in cui esplose SBTRKT ma anche The Weeknd e Jamie Woon, si gioca con l’r&b ma si prova anche a far canzoni col ritornello facile da ricordare. Tutte cose che i Little Dragon da bravi svedesi avevano fatto anche in passato, ma fino a quel momento senza il disco che rappresentasse tutto al meglio. “Ritual Union” colmò l’esigenza in un modo che non fu più eguagliato. Con uno spirito così sbarazzino, con quell’armonia soul sprigionata da certi pezzi, col passo svelto dei momenti più dancey. Un clima di spensieratezza che di solito gli scandinavi non offrono mai in maniera così esplicita, sempre attratti da atteggiamenti diversamente intellettuali. Stavolta no, tutt’altro. Stavolta son lì a divertirsi come matti in pista, dimenticando tutto il resto. Te li immagini saltellando come cavallette sul pavimento di legno del gazebo centrale, mentre il dj manda “Little Man”.
[title subtitle=”Santigold: la seduzione esotica nell’anno dell’hip hop”][/title]
Aprile 2012: è l’anno in cui l’hip hop sbanca il jackpot. Quello che sarà ricordato per i dischi di Kendrick Lamar e Frank Ocean ai primi due posti della top albums di Pitchfork (con Killer Mike di poco sotto). O detto con parole più adatte a chi mira alla sostanza, l’anno in cui l’hip hop scoprì il volto definitivo per il decennio in corso. Gentile e addolcito, ripulito da ogni carica machista, nobilitato da ambizioni intellettuali. Il trionfo degli sforzi di Kanye West, insomma. Nessuno dei nomi appena citati però era portato a pensare il volto hip-hop dell’estate. Per quello ci voleva qualcuno che avesse uno stile più seducente, l’empatia col pubblico e una presenza che faccia piacere a tutti. Una donna, insomma, preferibilmente con lo smalto della popstar. Venne fuori che Santigold era quella perfetta. Aveva già dalla sua lo stuolo di produttori con cui anni prima aveva fatto “Santogold”, aveva maturato nel frattempo la dimestichezza necessaria per la mossa di successo e, già che c’era, aveva capito quanto prometteva bene l’influenza esotica nel pop moderno (M.I.A. era già esplosa qualche anno prima) quindi avere dalla propria Diplo & Switch era un terno al lotto, che diventa quaterna se aggiungiamo i Buraka Som Sistema che la aiutano su “Big Mouth“. E così venne fuori “Master Of My Make-Believe”. E così venne fuori “Disparate Youth”. E l’estate si riempi di eleganza dalla pelle ambrata.
[title subtitle=”Purity Ring: strane entità alla luce del sole”][/title]
Luglio 2012: tutti parlano della 4AD. Non si è mai parlato della 4AD così tanto. Tra Bon Iver, Grimes, Ariel Pink, GusGus, Mark Lanegan, Twin Shadow, David Birne & St. Vincent nel 2012 praticamente si fa a gara a chi ha più dischi del cuore presi dal catalogo 4AD. È la rivincita finale del popolo indie, fiero dei propri gusti alternativi ma soprattutto della propria apertura mentale, che lo porta ad orientarsi anche in direzioni bizzarre. Anzi, più son bizzarre, più rispondono alle esigenze di base. È per questo che l’album d’esordio dei Purity Ring, “Shrines”, quell’anno ha spaccato così tanto. Non di certo perché era il suono tipico che si vuole dall’estate, tutt’altro. Son tutte canzoni che si stampano in testa dal primo istante, vero, ma ciononostante sono tra le cose più strambe che si potessero sentire in quel periodo. Una sorta di via di mezzo tra la ricerca synth sperimentale, la neo-psichedelia promossa pochi mesi prima dalla Not Not Fun e certi esoterismi ereditati dalla recente onda witch house. Come fa un mix del genere a suonare estivo? La risposta è “Fineshrine”. Ma ancora non l’abbiamo capita nemmeno noi.
[title subtitle=”Major Lazer: chiedimi cos’è il moombahton”][/title]
Aprile 2013: Ora, va bene tutto. Va bene, benissimo, che l’occidente si scopra così attratto dai ritmi tropicali e suoni esotici ed era ora che si iniziasse a trovare la quadratura perfetta tra cultura occidentale e resto del mondo. Ma da qua a far diventare l’ultimo prodotto di questa ibridazione una fabbrica di pezzi per popolare radio e dancefloor estivi ce ne voleva. I mean, nessuna sorpresa che l’estate 2013 sarà segnata dal disco di cui parleremo tra un attimo, perfettamente sintonizzato sulle aspettative del pubblico dance occidentale, ma quante possibilità c’erano che tutti ballassero al ritmo di un disco che sulla carta cade sotto una categoria chiamata “moombahton“? Far ballare mezzo mondo con una cosa che mezzo mondo non sa cos’è? Impossibile. A meno che non sei i Major Lazer e hai un talento inarrivabile nel presentare suoni provenienti da scene e posti sconosciuti ai più in un formato che attizza chiunque. Tra l’altro senza nemmeno porsi dei limiti stilistici per i pezzi inclusi dentro quella bomba di disco che fu “Free The Universe”. Incantare Europa e USA con un pezzo vaporoso fatto praticamente di sola voce come “Get Free“? Fatto. Spaccare a metà i set più coraggiosi con il dubstep iperenergizzato di Flux Pavillon in “Jah No Partial“? Fatto. Fare in modo che il mondo scopra il moombahton e neppure se ne accorga? Chiedete in giro se qualcuno s’è dimenticato di “Watch Out For This”…
[title subtitle=”Disclosure: scusa, qual è il sound del momento?”][/title]
Maggio 2013: adesso ripetete in coro quello che vi raccontano da anni i magazine di settore, soprattutto quelli italiani: “la techno è il sound più gettonato del momento“; “la techno sta avendo il suo ritorno di fiamma“; “la techno è tornata ad elettrizzare il pubblico dance“. Fatto? Bene. Ora toglietevi per un attimo gli abiti dell’ascoltatore di nicchia (perché questo siamo se paragonati allo scacchiere generale, tutti noi, ed è bene non dimenticarcelo) ed accendete la radio. O la tv. O volendo basta entrare ad H&M e prestare l’orecchio. Cosa sentite? House, nient’altro che house, vero? Già. L’ultima volta che un pezzo classificabile come techno ha varcato i confini del pubblico di settore era stato per “Sky & Sand“, nel 2013 erano già passati 5 anni e in giro c’era gente come Duke Dumont che ci rammentava qual era il vero sound del momento a colpi di “Need U“. Tutto questo non ve lo diciamo noi, ve lo direbbero i Disclosure che l’andazzo l’avevano già capito e si apprestavano a cambiare il proprio status da “dj affermati” a “star globali” con l’album di debutto, “Settle”. Che non ha nulla, ma proprio nulla di tecnicamente nuovo da dire, e anzi recupera l’esperienza UK garage di parecchi anni addietro. Ma che ha il pregio di interpretare il sound che tutti vogliono, con l’energia che tutti vogliono, sfornando pezzi che tutti amano. Ancora oggi. Tipo che a un certo punto pure la definizione di deep house inizia a risentirne. Effetti collaterali di quando i singoli scavalcano ogni barriera.
[title subtitle=”Jungle: in barba a quegli ignoranti dei giornalisti”][/title]
Luglio 2014: il cantato in falsetto. Il dannato cantato in falsetto, quello che da decenni è il simbolo di materiale che puzza di vecchio. O peggio ancora, di anni ’80. Per giunta con l’aggravante rappresentata dai danni che ha fatto la discografia degli Scissor Sisters. A chi può venire in mente di costruirsi un sound, un’immagine e un intero disco di debutto sul cantato in falsetto? A un duo londinese, che di fatto paga la propria natura in termini di recensioni tiepide un po’ ovunque. Perché, diciamolo, ‘sti giornalisti non capiscono una ceppa. Sono vittime delle loro stesse visioni maniacali farcite di riferimenti e esperienze d’ascolto e non sopportano l’idea che quello che tipicamente dicono gli artisti quando vogliono sminuire la loro importanza possa essere vero: non c’è oggettività, scienza, materiale da discutere nella musica, c’è solo quel che si prova ascoltandola. Quindi accade che un disco che trasuda funk anni ’70 diventa la cosa più caratteristica venuta fuori nell’estate di quell’anno. Perché non c’entra praticamente nulla con quello che si sente in giro, e perché riesce a prenderti alla pancia. Ossia a quella parte del tuo essere ascoltatore che non comandi in nessun modo. “I Can’t Feel The Heat“, cantano loro nella traccia di apertura. Come dire, se c’è stile non conta nient’altro.
[title subtitle=”La Roux: quelle cosette facili che san fare tutti (come no)”][/title]
Ancora luglio 2014: tutti sapevano del ritorno dei La Roux, ma per tutti era una di quelle cose assolutamente normali, niente a cui prestare attenzione eccessiva, semplicemente uno dei tanti ritorni a cui assistiamo ogni anno. Alla fine La Roux la conosciamo bene tutti, no? Mica può inventarsi chissà che svolta visibile che salti agli occhi più del dovuto. Eh, poveri ingenui che siamo. Vatti a immaginare che la rossa tutto pepe faccia di “Trouble In Paradise” un album di nove tracce che sono nove potenziali singoli, riuscendo a mettere a fuoco così bene la sua attitudine pop nella forma più graziosa e piacevole possibile. E tutto tra l’altro orientato con precisione chirurgica per l’ascolto estivo. Con le sue forme facili, qualche momento più rilassato per il chilling serale e una collezione di pezzi svagati e ricchi di inventiva che dovrebbero farcisu lezioni accademiche sull’arte pop. Che facile non lo è per niente, quello è il bello. Ma che, quando ce l’hai nel sangue, suona come le lo fosse, spontaneo e immediato quasi fosse in grado di farlo chiunque. Tipo che una “Kiss And Not Tell” la partorirebbe il vicino mentre fa la doccia. O forse richiede il dono supremo della perfezione formale?
[title subtitle=”Hot Chip: disturbed pop is the new summer trend”][/title]
Maggio 2015, cioè adesso. Diverse delle cose accadute negli ultimi anni si stanno ripetendo (i Major Lazer di nuovo a rilasciare hit a partire da “Lean On“, i professionisti dell’r&b ad affilarsi le unghie con Kelela e The Weeknd già sul posto) e in parecchi son già candidati come potenziali protagonisti (compresi Giorgio Moroder, Adele e di nuovo tutta la cricca 4AD). DI gente però che fa pop di classe se ne vede sempre meno, forse perché quelli che san farlo sul serio – lo dicevamo prima – son pochissimi. Capita però che la storia quest’anno si è già ripetuta: ritorno di un nome che in teoria non doveva riservare alcuna sorpresa, gli Hot Chip, e album che ti spara di stile la cosa migliore che la dinamica di casa poteva offrire: una collezione completa di intuizioni eccitanti all’orecchio eppure di un lineare da lasciare a bocca aperta, confezionate nel formato pop più laterale possibile, come la band londinese ha sempre fatto alla grande. Perché l’estate non deve suonare sempre spavalda e sfacciata. A volte può arrivare il groove corrucciato, la ballata con chitarra, il ritmo house dalla piega più romantica del solito. Oppure un pezzo come “Huarache Lights”, che dopo cento ascolti non l’hai ancora capito. È un incedere un po’ disturbato. Ma ha un cantato così arioso. Ma ha quei synth decisamente cattivi. E nel frattempo la tua testa ha già creato l’associazione indissolubile con la stagione in corso proprio adesso. Tra dieci anni lo riascolti e “2015” lo vedrai scritto davanti a te tipo proiezione 3D.