Effettivamente, è così. Sì. Paul Kalkbrenner dice che tutta l’operazione “Back To The Future” gli ha “pulito la mente”, che gli ha fatto riscoprire il gusto di fare musica, che ora si sente di aver ritrovato le sue radici – tutte cose che ci ha raccontato qualche giorno fa a Roma, dove lo abbiamo incontrato per conto di Billboard Italia per un’intervista che uscirà sul numero di giugno, in una chiacchierata che è stata molto gradevole, più gradevole del previsto. Certo faceva sorridere il contrasto d’ambientazione: un albergo lussureggiante in Via Veneto, tra stucchi e arazzi ottocenteschi da un lato, lui in jeans e felpa con le solite movenze da guappo sicuro di sé dall’altro. Ma in questi contrasti Paul Kalkbrenner ci vive dai tempi di “Berlin Calling”: perché il suo successo planetario lo ha portato a vivere una “stardom” da rockstar globale che difficilmente sarebbe toccata ad un onesto produttore tech-house emerso dal sottosuolo di Berlino, uno per cui sembrava già un bel traguardo essere arrivato alla BPitch di Ellen Allien (e ancora di più recitare se stesso in un film a basso budget).
La domanda è la solita: come mai proprio a Kalkbrenner, di tutti i miliardi di produttori di tech-house più o meno tedeschi, è toccata la sorta di diventare un’icona nazionalpopolare al pari di Guetta? Perché oggi annunciare un set di Kalkbrenner è la garanzia per avere almeno dieci, quindicimila paganti, garanzia che nessun altro collega del suo ramo musicale può offrire, e intendiamo proprio nessuno? Perché? “Parts Of Life”, col fatto che effettivamente è un ritorno alle radici, ha la qualità di offrire una risposta particolarmente nitida a questa domanda. Per un motivo ben preciso: è proprio Kalkbrenner al 100%. Non il Kalkbrenner “pimpato” di “7”, il disco-da-major in cui ha potuto attingere in modo libero alla library della Sony (privilegio più unico che raro), un disco che lui oggi disconosce, lo ha fatto in modo esplicito durante la nostra chiacchierata; in parte nemmeno il Kalkbrenner di “Guten Tag” ed “Icke Wieder”, i due dischi successivi al boom di “Berlin Calling”, in cui sì, più o meno ripeteva la sua cifra sonora ma si sentiva il bisogno di suonare “epico”, di dimostrare di meritare (o di credere di meritarsi) la fama mostruosa raggiunta facendo l’attore in un film carino ma didascalico e girato maluccio, con però il dono di essere stata la cosa giusta la momento giusto, per colpire l’immaginario collettivo giovanile dalle avanguardie clubbare alle sciampiste.
E allora: come mai proprio Kalkbrenner? Perché tutto questo successo solo a lui? Solo culo? Solo un complotto dell’industria? Nada. Niente di tutto questo. Kalkbrenner è arrivato lì dove se lo merita perché ha delle qualità ben precise. Con “Parts Of Life” è più chiaro che mai. Kalkbrenner è la dance elettronica degli ultimi trent’anni spiegata a chiunque. Con esempi chiari e semplici. Ci sono le reminiscenze “astrali” di certi arrangiamenti che hanno fatto la fortuna della techno detroitiana, c’è un piglio marziale molto crucco che pare confermare il fil rouge Kraftwerk techno che è ancora presentissimo nelle coscienze di tutti (la techno è una musica disumana, robotica, futurista…), c’è il ritmo, c’è l’iterazione, c’è l’abolizione della struttura pop strofa-strofa-ritornello-strofa-ritornello-strofa-ritornello: insomma, uno che ha ascoltato fino a ieri Dario Baldanbembo o Dolcenera o i Jalisse o Gianni Morandi può mettere su un disco di Kalkbrenner e dire “Ah, questa è la techno! Certo! La sento! E’ chiaro!”. Può farlo, anche perché quella che sente è techno fino ad un certo punto, atmosfere e ritmiche sono levigate infatti in chiave house, sono rese cioè meno contundenti, meno accigliate, più morbide, più avvolgenti; tanto – col continuo ricorrere all’andamento “a marcetta” – la crucchitudine dell’insieme è comunque salva, a livello di percezione. E tutto quadra.
“Facile, così”, direte voi. Beh: provate a farlo. Vi fa schifo, il successo di Kalkbrenner? Vi fa schifo poter vivere della propria musica? Vi fa schifo, avere della cachet della madonna e, quando venite a Roma, finire in un hotel a cinque stelle in centro invece di dover elemosinare un divano-letto al vostro amico al Quadraro? Magari sì. Ma se vi fa schifo tutto questo, non dovreste nemmeno porvi il problema di Kalkbrenner cosa sia o che faccia. E’ proprio fuori dalle vostre traiettorie. Se ve lo ponete, invece, vuol dire che un po’ vi interessa. Un po’ vorreste essere al suo posto. Almeno un po’. Anche se dite di no.
E allora, per tutti gli invidiosi e i critici di Kalkbrenner: quest’uomo ha una capacità quasi innaturale che altri non hanno. Non è la bravura. Non è l’inventiva. Non è la bravura, perché la sua musica non è che suoni meglio – più potente, meglio mixata, più “profonda”, più curata – di tanta altra tech-house che c’è in giro. Anzi, anche in “Parts Of Life” ascolti delle tracce e ti dici qua e là “Boh, questa parte forse la mixavo meglio anche io, non ne sono sicuro, ma forse”. Non è nemmeno l’inventiva, perché in “Parts Of Life” come in tanti altri dischi suoi c’è sì quel tocco melodico in più, quel non arrendersi allo stereotipo “robbboso” della tech-house da ketamina e voler invece inserire armonie, melodie, frammenti cantati, sample assortiti, ma tutte queste cose non sono mai sviluppate in modo particolarmente geniale, anzi, a dirla tutta ogni tanto è proprio scolastico, il signor Kalkbrenner, sceglie davvero la via più ovvia.
E’ così che arriviamo al suo talento vero. Paul Kalkbrenner è il Bignami della musica elettronica oggi. Ne riassume le varie anime – anche quelle più interessanti e suggestive – con chiarezza ed efficacia. Con qualità? Mah, ad orecchi smaliziate musicalmente diremmo di no. Ma efficace è efficace. Più di altri. Se un minimo mastichi musica elettronica, ti darà quasi fastidio come lui cerchi – e trovi – sempre la soluzione più semplice, quella più paracula, più chiara, più semplice da comporre e anche la più semplice da ascoltare. E’ che lo fa con un’abilità quasi luciferina. Come se avesse venduto l’anima al diavolo. Non lo fa (solo) per essere famoso: è qualcosa che è proprio naturale in lui, un dono che sarebbe rimasto completamente inutile e poco valorizzato se non ci fosse stata la scintilla di “Berlin Calling”, che lo ha catapultato presso un pubblico più vasto, molto più vasto: per gli appassionati veri ed approfonditi di tech-house, Kalkbrenner sarebbe rimasto sempre “…quel tizio nel catalogo BPitch un po’ più melodico di altri, manco così male”, ma una volta immerso nel mare magnum degli ascoltatori a trecentosessanta gradi questa sua “medietà paracula” è diventata un propellente eccezionale e soprattutto una Qualità Suprema.
Ascoltare “Parts Of Life” tutto questo lo fa capire in modo incontrovertibile. E’ Kalkbrenner allo stato puro. Lui dice – nella nostra chiacchierata, lo ha sottolineato con enfasi – “Questo è il mio materiale migliore dai tempi di “Berlin Calling”, il disco che mi ha cambiato la carriera”. Forse è anche vero. Di sicuro è il materiale che lo “racconta” meglio. Con tutti i suoi limiti. Tanti. Ma pure con questo “X Factor” che gli permette di sedurre – facendo tech-house e senza manco annacquarsi rispetto a quello che farebbe lui di suo – anche quelli che hanno più orecchio per il pop o l’EDM. Gente per cui Kalkbrenner è “geniale”, mentre tutti gli altri colleghi suoi di quella sponda suonano sì bravini, sì interessantini, ma un po’ noiosi. Troppo cupi. O troppo complicati. Vuoi mettere con Paul. Eh. Vuoi mettere.