SIDE ONE
Da un lato ci sono gli indignati, quelli che “Ma anche stop parlare di Sfera Ebbasta, fa schifo, fa cagare, quella non è musica, è degenerazione sonora e culturale, orrore, merda, disgusto”; dall’altro ci sono quelli che parlano poco ma ascoltano tanto (mandando il nostro eroe iperdentalizzato e pelliccia-rosa-dotato per la prima volta, per un italiano nella top 100 di Spotify mondiale, otto milioni di ascolti and couting); da un terzo lato, poi, ci sono quelli che fanno concettuose analisi su chi è Sfera Ebbasta, cosa rappresenta, perché ha questo successo. Facendo incazzare gli indignati, visto che questi ultimi si chiedono perché dare spazio ad un fenomeno del genere (e danno pure la risposta: “Per opportunismo, per lucrare views”).
La verità, la verità completa, non ce l’ha in mano nessuna delle tre fazioni. Fareste bene a mettervelo in testa tutti quanti. Ma ciascuna delle tre, al tempo stesso, dice delle cose che sarebbe davvero importante tenere a mente. Sì, ci rendiamo conto che in un’Italia già di suo intossicata dalla mentalità “da curva” (ulteriormente amplificata negli ultimi anni dalle dinamiche da web e da social) questo è un discorso difficile da mandare giù. Paese pieno di massimalisti, l’Italia, di gente che si schiera tantissimo e con un’intransigenza che Savonarola al confronto era un pacioso signore, ma che poi a seconda della convenienza non ha problemi a contraddirsi quatta quatta in caso di convenienza personale. Per una volta, però, vogliamo provare a fare un gioco? Un gioco in cui si capisce che un argomento ha più sfaccettature e più luci interpretative?
Sarebbe il caso di farlo questo gioco, per l’hip hop. Perché parliamo di un genere musica che in questo momento fa i numeri come nessun altro. Ora, i numeri non sono legge. Scusate; qualora non fosse chiaro, lo ripetiamo: i-numeri-non-sono-legge. Chiunque giudichi un percorso artistico solamente sulla base dei numeri, beh, dell’arte ha capito ad esser buoni solo il 50%, ed è più che altro affascinato dai lustrini del successo.
Ma è anche vero che i numeri sono una cosa benedetta: sono un riscontro oggettivo, slegato dalle opinioni, su cosa cattura l’attenzione delle persone. Su cosa ne cattura le passioni. Positive o negative. Poi, sui numeri si può ragionare. Anzi, si deve ragionare. E allora: in questo momento, il genere espressivo del rap e l’aura attorno alla cultura hip hop declinata in un certo modo sono due cose che si “attaccano” perfettamente alle dinamiche odierne dell’immaginario giovanile (leggi, 14-22) e, di riflesso, anche su fasce d’età superiori. Funzionano subito, immediatamente. E’ un fenomeno con cui non si può non fare i conti.
Ecco perché chi vi scrive ha dedicato un intero pezzo ad analizzare i motivi del successo di Sfera Ebbasta, parlando poco di musica e molto di meta-critica musicale: la trovate qui. Ecco perché ci sentiamo di consigliarvi la lettura di un’altra analisi, puntuale e non banale, uscita su Vice: eccola. Ed ecco perché vi diciamo di tenere bene a mente la posizione ben espresso da HotMc per cui piaccia o non piaccia, Sfera Ebbasta sta ottenendo giuste attenzioni: cliccate qui.
Ma questi tre articoli (e parlo appunto anche del mio linkato lì sopra, sia chiaro) non esauriscono la questione. Sono un mezzo per inquadrarla, ok, ed è obbligatorio passare da un’analisi che fotografi il tutto, obbligatorio. Però non concludono il discorso. Ehi: gli indignati hanno le loro ragioni. Se uno accende il cervello e non si accontenta di seguire la marea dei numeri e dei play su Spotify, due o tre domande se le deve fare davvero, ad un certo punto. Il problema non è “se” Sfera Ebbasta sia musica o meno (lo è); non è “se” Sfera Ebbasta rappresenti il rap o l’hip hop o meno (lo rappresenta, così come lo rappresentano tutti quelli dell’ondata trap, che non a caso sempre più vengono chiamati a fare featuring anche da parte dalle generazioni più vecchie del rap italiano, quelle al di sopra di ogni sospetto); non è “se” lui e quelli che gli assomigliano di questa ondata siano una voce generazionale (lo sono, basta guardarsi in giro). Il problema non è “se”. E’ “cosa”.
Il problema non è “se”. Il problema è “cosa”. E anche “fino a quando”
Anzi, il problema non è solo “cosa”, ma pure “fino a quando?”… Andiamo però con ordine. Infilare la testa dentro la sabbia o avere una snobistica ripulsa per cui “Di queste cose non bisogna nemmeno parlare” è un perfetto ascensore per l’irrilevanza e per l’impossibilità di capire la realtà che ci circonda. Sapete perché tutto il filone della trap ma anche tutta la nuova ondata indie rock (o “itpop”, mutuando la definizione da Diesagiowave) funziona così tanto? Perché è tornato a raccontare la realtà. Usando un linguaggio nuovo, non mutuato dai cantautori degli anni ’70, non mutuato da De André, Guccini, no, usa il linguaggio del tempo, esattamente come hanno fatto Ligabue, Vasco o Pezzali nei due decenni precedenti. Perché dovremmo dare per normale ed inevitabile il successo oceanico di Ligabue, Vasco e Pezzali ma più o meno inconsciamente non riusciamo ad accettare l’idea che anche il nostro qui&ora diventi “popolare”? Perché ci dà fastidio l’idea che Calcutta suoni all’Arena ma non avremmo troppo da ridire – tipo, son “Le solite cazzate, non ci riguarda” – se lo facesse un Antonacci o una Nannini, o appunto una delle tre creature di Tutankhamon di cui prima?
Sintonizzarsi con la “lingua” ipercontemporanea e riuscire a metterla in musica in un modo che suoni convincente, immediato e “famigliare” non è una cosa così facile e scontata. E quando ci si riesce, sarebbe giusto che arrivasse il successo, che arrivassero i riscontri, eccome. Esempio: il paraculismo di Thegiornalisti e di Tommaso Paradiso, che a chi scrive piace poco poco, ha senso che possa arrivare a riempire i palasport. Idem il buonsensismo cazzone comodamente sarcastico de Lo Stato Sociale. Idem l’intimismo emo-astuto dei Cani. Aggiungete pure altri esempi. Più in generale, è un fenomeno clamorosamente sano che finalmente gente che è partita dall’indie – e quindi in qualche modo ha con sé un marchio concreto di autenticità, non sono creature pop ricreate in vitro dalle major – possa arrivare a panorami ampi e numeri da star, da pop “vero”. Per quale motivo questi panorami e questi numeri devono restare per sempre appannaggio di (per dire) Baglioni, Renato Zero e Raf, gente nata artisticamente due o più generazioni fa? E’ stato fatto un tale lavaggio del cervello, negli ultimi decenni, sul fatto che sia normale che le cose non cambino mai (Italia, paese dei Gattopardi…) che siamo diventati completamente allergici all’idea che esistano dei ricambi generazionali, e che chi parta dal basso ad un certo punto si possa ritrovare naturaliter in alto (…se ha certi tipi di talento istintivo, di perseveranza, se ha lavorato bene nel suo). Sapete che c’è, sapete qual è il punto che inceppa tutto? Vogliamo restare adolescenti per sempre. Sempre mantenuti o co-mantenuti dai genitori (spesso è una necessità, nota bene). E pretendiamo lo restino anche le cose che ci piacciono, in particolar modo se le sentiamo “vicine” (ovvero, se sono italiane, fatte da gente della nostra età, della nostra nazionalità, dei nostri gusti, delle nostre abitudini, della nostra lingua quotidiana: perché non abbiamo il minimo problema ad apprezzare i fenomeni ventenni inglesi o americani del rap, dell’indie o del pop, anche quelli più effimeri, lì guarda un po’ all’improvviso vale tutto).
Sapete che c’è, sapete qual è il punto che inceppa tutto? Vogliamo restare adolescenti per sempre. Sempre mantenuti o co-mantenuti dai genitori
Bene. Tutto chiaro? Però ecco, c’è sempre un bivio che ad un certo punto si pone. Tu da che parte stai? E soprattutto: tu come vorresti che andassero le cose, uno volta che si è entrati nel mondo degli adulti? Perché quello che non capiamo è che noi possiamo scegliere, e ogni nostra scelta può influire sulla realtà, se iniziamo a scegliere sempre, sistematicamente, in modo consapevole.
E’ ottimo a prescindere che voci “nuove”, della generazione attuale, abbiano un grande proscenio. Stateci. Perché ogni ricambio è sano. Ma questo non significa non poterle criticare. Non significa prendere per buono tutto quello che passa il convento dei sold out al Forum, della views su YouTube, dei plays su Spotify e pensare che la forza dei numeri spieghi tutto e tagli ogni discussione, ogni tentativo di analisi che non sia quella di prendere atto del fenomeno e raccontarlo dicendo che accade per questo e quest’altro motivo. E’ fondamentale capire, spiegare, raccontare. Fondamentale. Ma una volta che si è doverosamente capito, spiegato, raccontato, poi ad un certo punto ci si può anche chiedere: ok, ma io cosa voglio? Come mi schiero? Mi sta bene?
Perché chiederselo? Per non restare alla superficie. Per non restare solo al racconto neutro delle cose, o alla fruizione passiva di ciò che va per la maggiore, di ciò che va di moda, di ciò che sceglie (spesso inconsapevolmente) la maggioranza. Ci puoi anche restare lì, eh. Nulla di male. Succede su mille cose, su mille campi, su mille questioni, per ciascuno di noi. Ma se vuoi fare un passo in più…
SIDE TWO
Mi danno fastidio gli indignati, certo, quelli de “Di certe cose non si dovrebbe nemmeno parlare”. Invece di certe cose bisogna proprio saper parlare. Proprio se non ti vanno bene. Non ti piace una cosa? Non ti piace un andazzo? Non ti piace una deriva? Cerca prima di tutto di capirla. Ma una volta che ti sembra di averla decentemente capita, una volta che vedi che riesci a comprendere perché una cosa piace e seduce e rapisce i cuori e i numeri, tocca a te dire dove stai e cosa vuoi.
Io capisco perché la trap funziona oggi, in Italia. L’ho scritto analizzando Sfera (scusate se insisto, ecco di nuovo il link al pezzo). Proprio per questo, se voglio fare un passo in più, mi permetto di dire: “Ok, sì, mi è chiaro, c’ho ragionato sopra e ho compreso dove stanno i meriti e le capacità di artisti sì diversi tra loro – Sfera, Ghali, Izi, Tedua, Rkomi, eccetera eccetera – ma comunque riconducibili ad una “nuova ondata” del rap con molte cose in comune. Ma non mi piace la direzione in cui vanno”.
Cos’è che non convince? Vero: sono freschi. Vero: hanno svecchiato un suono e anche il modo di rappare. Vero: hanno la capacità di guardare con grande prontezza a quello che succede/funziona all’estero, e in un paese dove il pop è sempre stato di almeno cinque anni indietro, a livello di soluzioni sonore, rispetto a quello che succede all’estero questa è un grande merito. Ma questo, e anche il pensiero che emerge dai loro testi, non mi basta.
Sta ad un approccio intelligente e consapevole all’hip hop capire cosa è fatto per restare (nel tempo), cosa è fatto per cavalcare (le mode del momento)
Com’è possibile che in un paese così sclerotizzato come l’Italia, con una disoccupazione giovanile così alta e un ceto politico ed imprenditoriale che si basa sul nepotismo più ancora che in altre nazioni europee, non monti una rabbia reale contro il sistema? Com’è possibile che ci si accontenti di descrivere la situazione, mettendoci al massimo un po’ di sarcasmo amaro e nichilista? Com’è possibile che chi ha (o vuole avere) uno sguardo fresco e nuovo sulle cose non indichi i colpevoli per cui dalle nostre parti è tutto così vecchio e bloccato? Perché pensateci: mediamente, la massima aspirazione, nelle voci della trap ma anche di alcuni grandi del rap, è avere una gratificazione personale o solo per la propria ristretta cerchia di amici. Siamo bravissimi a fotografare a parole storture e problemi, a descriverli con punchlines geniali e taglienti (Marracash, ma anche i Dogo), nel caso di Sfera si parla di successo ed ostentazione ma ci sono anche momenti di amara autoconsapevolezza su quanto tutto questo sia fugace; ok. E’ che poi però non abbiamo il coraggio di prenderne realmente le distanze. Quello che rimprovero al rap attuale – anche quello americano – è di non voler cambiare le regole del gioco (il massimo è introdurre in modo sano il tema del multiculturalismo, come ha fatto Ghali: ad oggi unico risultato realmente interessante sotto il punto di vista di costume e società).
Perché la cultura hip hop, nel Bronx, ad Harlem, è nata per cambiare le regole del gioco. Chi ha iniziato a fare rap, lo ha fatto per dimostrare che puoi sfondare nel mondo della musica anche con un’arte “altra”. Chi ha creato le crew personali e ha iniziato ad ostentare il successo ottenuto attraverso status symbol vari e svaccati, lo ha fatto per dimostrare che puoi arrivare al successo anche giocano alle tue regole, creandoti le tue strutture, facendolo con le tue persone.
Già sentiamo l’obiezione: “Ehi, ma quest’ultima è esattamente quello che fanno moltissimi rapper e trapper d’oggi!”. Ma ancora lì, stiamo? Un conto era fare così negli anni ’70, ’80 e ’90 e nei primi 2000, quando i media di massa erano saldamente nelle mani della corporation, un conto è farlo oggi in cui diventare famosi e conosciuti è qualcosa alla portata di molte più persone, il passaggio dai canali major non è più per niente obbligato. Ehi: è una differenza non da poco. Quello che un tempo era una vittoria incredibile – tanto da farti ostentare successo, soldi, figa, gioielli, tutte cose ottenute senza aver avuto bisogno del “bacio” generativo di una multinazionale – oggi invece è una vittoria poco più che discreta. Vi accontentate? Ci accontentiamo?
Perché la cultura hip hop, nel Bronx, ad Harlem, è nata per cambiare le regole del gioco
Gli mc diventati famosi negli anni ’80 e ’90 e primi 2000, anche quelli che parlavano di droga scopare denaro e di semplici cazzate stile “Facciamo party, siamo i meglio, tu fai cagare”, stavano cambiando realmente le regole del gioco. Avevano realmente ottenuto qualcosa che prima era semplicemente inimmaginabile. Però, notizia: sono passati vent’anni. Possibile che ancora lì stiamo? Ora che la musica e l’estetica di ciascuno può arrivare ovunque, ora che bastano 1000 euro spesi in inserzioni sui social per ottenere quello che prima si otteneva solo con almeno duecento milioni di lire in campagna stampa, possibile che ci accontentiamo ancora di quello? Possibile che non vogliamo veramente esplorare le possibilità di agire concretamente nella realtà, offerteci dalle nuove tecnologie, e ci basta avere il successo solo per sé e per la propria crew, ostentando il lavoro del proprio dentista?
Il rap e l’hip hop, che sono stati e sono una cultura rivoluzionaria, devastante, potentissima, si sono impigriti a dismisura. In America, in Italia. Facciamo un esempio concreto, per stare sull’Italia. Prendiamo “Pezzi” di The Night Skinny: musicalmente, uno dei dischi hip hop italiani più belli di tutti i tempi. Non ci credete? Ascoltatelo con attenzione. Cercate di cogliere l’equilibrio incredibile che riesce a raggiungere tra innovazione ed impatto, tra capacità di trattare i suoni del qui&ora di successo declinandoli però in modo molto personale. Guardare come riesce ad essere una piattaforma perfetta sia per il rap più classico dell’ultimo decennio (Gue e Noyz danno spettacolo, tecnicamente) che per gli artisti della nuova generazione trap (il flow di Rkomi, per fare un esempio, suona in maniera devastante, sublime, quasi coltraniana in “Fuck Tomorrow”… lo fa in un modo mai raggiunto prima: perché è stato “guidato” alla grande da TNS e dalla sartoria sonora confezionata. Ma anche Tedua e Lazza fanno faville). Raga: questo disco, musicalmente parlando, è un capolavoro.
E’ per questo che mi ha fatto rabbia vedere che, in sede di pensare ad un concept e per il lavoro, ci si è adagiati molto su questo richiamo velato-non-velato alla droga (“Pezzi”, le carte di credito promozionali, eccetera eccetera). Difesa numero uno di The Night Skinny: “In realtà il disco parla d’altro, che cazzo dici” (le carte di credito sarebbero in realtà le tessere per entrare in un club, per dire…). Difesa numero due di Skinny: “E poi vaffanculo, la realtà è questa, ma tu lo sai che succede per strada? O sei un vecchio rincoglionito che vuole fare il moralista, ma non ha la minima idea di cosa pensino, facciano, dicano, tirino quelli che oggi hanno venti/trent’anni? Sfigato, coglione”. Ora: la difesa numero due automaticamente depotenzia la difesa numero uno. I richiami alla cocaina, nel primo singolo (che dà pure il titolo al disco intero) e nelle trovate promozionali, sono troppo espliciti per non essere colti (di nuovo: ocio qui). Ma attenzione, seguite bene il discorso adesso…
Non siamo Giovanardi. Non solo: amiamo il rap proprio perché prima e meglio di qualsiasi altro genere musicale va al cuore della realtà nei suoi testi (non è un caso che la nuova generazione indie sia un’attentissima ascoltatrice del rap, perché questa nuova generazione vuole finalmente riprendere a parlare di cose reali, quotidiane, non rimasticare De André o i Sonic Youth). E sì, che oggi un certo tipo di consumo e di “esaltazione” sia diventato molto popolare un po’ fra tutti, senza essere più lasciato solo a ricchi, tossici, fulminati, è un dato di fatto ineccepibile, così come in generale oggi c’è un rapporto con le sostanze stupefacenti che, con buona pace appunto di Giovanardi, è molto più “normale” e pervasivo. E il rap ne ha parlato prima di tutti, con una nitidezza eccezionale. Questo è un merito. Un enorme merito. Qui sì che il rap è tornato ad essere “La CNN dei ghetti”, solo che invece dei ghetti abbiamo la provincia italiana o i twentysomething milanesi o romani. E quindi viva il rap che parla di droga.
…però ecco, è già stato fatto. Vogliamo fare un passo in più? Vogliamo non solo parlare di droga, raccontando in presa diretta come sia entrata nelle abitudini quotidiane, ma iniziare ad analizzarla anche un po’ più concretamente, ora che sappiamo che c’è, esiste, la si usa e, fuori da ogni ipocrisia, è diffusa quasi come fosse una cosa “normale”? Quand’è che arriverà un rap che inizierà a dire che un uso prolungato di cocaina ti trasforma (anche) in un mostro nevrotico dal narcisismo preoccupante, e lo farò senza usare il linguaggio trito, ritrito e polveroso di un centro sociale di trent’anni fa? Quand’è che ci sarà un Eminem italiano che ammetterà che ad un certo punto non ci stava capendo più un cazzo perché si stava fottendo il cervello? (…qualcuno lo ha fatto: Militant A. Come sempre, uno dei più grandi e avanti rispetto a tutti, nei contenuti).
La mia rabbia contro “Pezzi” nasce dal fatto che a livello di creazione artistica sonora e stilistica è sublime, è fenomenale, è un passo avanti; ma questo passo avanti non c’è stato al momento di pensare ad un concept e di sviluppare un discorso complessivo testuale. Occasione persa. Si è scelta la strada più facile: quelli di sembrare veri, “autentici” (perché si parla senza filtri di cose “scomode”), quando in realtà è solo un ammicco a qualcosa che tra l’altro è efficace a livello di popolarità presso il proprio pubblico di riferimento. Ma il punto è proprio questo: o sei Giovanardi e senti “droga” e subito inizi a gridare isterico allo scandalo e al pericolo di emulazione della nostra tenere ed innocente gioventù cristiana, o – proprio grazie a te, grazie a te rapper che hai iniziato a parlarne nei testi – queste cose non sono più così “scomode” o rivoluzionarie o iconoclaste. Sono il contrario: sono prevedibili, sono una carta sicura per ottenere il consenso più facile, sono una predica ai convertiti. Sono una routine del rap. Sono anzi peggio: sono ormai un luogo comune. Ora potresti fare un passo un più.
Possibile che ti limiti solo alla cronaca e alla descrizione più superficiale e formale, senza voglia di approfondire?
Lo stesso discorso vale per la fama, i soldi, il successo – il leit motiv di “Rockstar” di Sfera, il disco dei record in questo inizio 2018. Apprezziamo la sincerità: stai vivendo il viaggio di quello che ce l’ha fatta alla grande, di quello che tutti idolatrano, di quello che sta vincendo, e lo racconti. Va bene. Ma è mai possibile che, tolto giusto qualche inciso buttato lì tanto per far capire che non sei completamente rincoglionito, non ti venga voglia di fare un’analisi un po’ più approfondita di quello che ti sta succedendo e del perché ti sta succedendo? Possibile che ti limiti solo alla cronaca e alla descrizione più superficiale e formale, senza voglia di approfondire? Senza voglia di raccontare anche le possibili altre facce della medaglia? Senza voglia di problematizzare? Perché non sei scemo. Non sei un alieno. Non sei un ragazzetto che è stato miracolato dalla De Filippi o da qualche discografico major ed è stato catapultato da zero al successo. No. Hai una esperienza molto più profonda ed autentica – se non l’avessi, non avresti mai tirato fuori una cosa come questa. E allora “Rockstar” non mi basta. Non ho nulla contro il suo successo, capisco perfettamente i motivi del suo successo, non mi scandalizzo mormorando attonito “Signora mia…”, lascio questo a chi ha deciso di non uscire più dagli anni ’90; ma proprio perché sto nel 2018, ti dico che da te, Sfera Ebbasta, voglio qualcosa di più. Voglio qualcosa di più da te, voglio qualcosa di più da Charlie Charles che ha scompaginato il panorama sonoro italiano importando a modo suo la lezione dei producer trap americani ma che ora, una volta che ha scoperto che “alleggerendo” le sue produzioni e rendendole un po’ più normali e un po’ più pop, può ottenere risultati sull’immediato ancora migliori, si è molto adagiato e si è molto annacquato. I numeri lo premiano? Certo. A lui interessa soprattutto questo? Legittimo. Ma se io ho un minimo di conoscenze su certi argomenti, sono critiche che non posso non fargli. Poi sta a lui prenderle in considerazione o meno. E sono molto più utile io, di quelli che invece vogliono saltare sul carro del vincitore – quelli cioè che lodano a prescindere le sonorità trap per sentirsi sintonizzati con la contemporaneità, per far vedere che lo sono, che sono sintonizzati!, che ci stanno dentro!, yo!.
Sta ad un approccio intelligente e consapevole all’hip hop distinguere tra Sfera e Dark Polo Gang. Sta ad un approccio intelligente e consapevole all’hip hop capire che il genere è in continua evoluzione, non puoi cristallizzarlo ai Public Enemy, ad A Tribe Called Quest e ai Sangue Misto; ma questo non significa che il nuovo va preso ed abbracciato acriticamente, per il solo fatto che ha successo nell’immediato. Sta ad un approccio intelligente e consapevole all’hip hop capire cosa è fatto per restare (nel tempo), cosa è fatto per cavalcare (le mode del momento).
E tutti gli artisti e i loro management di amici&famigli che non capiscono questo, che rifiutano ogni tipo di critica, che si inalberano anche per una mezza parola non positiva sul loro conto, che pensano a proteggersi dal confronto con chi non è lì solo per lodarli, ecco, tutte queste persone non solo sono degli scemi, ma fanno anche una cosa peggiore: fanno male alla musica, fanno male all’intelligenza, fanno male ad un arricchimento culturale collettivo, fanno male all’hip hop. Faranno bene ai loro conti in banca e alle loro views su YouTube, nel breve periodo, ok; ma occhio raga – karma is a bitch. Per quanto riguarda invece chi ascolta, chi seleziona su Spotify, chi cerca su YouTube, beh: se l’hip hop in modo quasi inconsapevole vi affascina tanto è perché è più di una moda, più di una semplice musica. Se la trattate da moda o da semplice musica fare pure, ma pregate che ci sia qualcuno che arrivi a rompervi le scatole: sta lottando per preservare il fascino di ciò che vi sta seducendo tanto.