State a casa! …assolutamente, fatelo. Uscite solo per le strette necessità – e seguite le indicazioni che arrivano dalle istituzioni, perché non è il momento delle fughe in avanti. Decisioni che possono e anzi devono essere discusse ed analizzate, in caso anche criticate, ma in situazioni d’emergenza come queste, con la Sanità in alcune regioni d’Italia al collasso (e in altre, forse, impreparata al potenziale picco), intanto vanno rispettate. Non possiamo permetterci il caos, ora.
Nello stare a casa, e nel fare eventualmente flash mob ai balconi (a chi piace, a chi no; chi li apprezza, chi no; non è il momento di puntare il dito, ma di essere più tolleranti, ciascuno reagisce a modo suo), c’è stata inevitabilmente una esplosione di attività on line. La gente è molto di più su internet, come del resto sanno tutti i provider in Italia, di fisso e mobile (…ecco, chiediamoci cosa succederebbe se la nostra rete iniziasse a non reggere più il traffico: sappiate che il rischio c’è). Vale anche – già ne parlavamo qualche giorno fa – per le cose “nostre”, la musica, i dj, il clubbing. Magari col fatto che era il primo sabato di quarantena nazionale, con quindi maggior senso di nostalgia per la “normalità da weekend”, sabato scorso 14 marzo 2020 aprire Facebook o Instagram significava un piovere di notifiche su dirette di questo dj, quel musicista, quell’altro scrittore, o pure di influencer sparsi che si reinventano in qualsiasi cosa, pur di mantenere la loro tribuna.
Se state pensando che ora arriva la parte “Ma anche meno, con tutte ‘ste cose… anche basta con questo esibizionismo…” beh, vi sbagliate di grosso. E se l’avete pensata voi, questa parte, sappiate che questo non è l’articolo giusto per voi. Qualsiasi cosa indichi una reazione emotiva, indichi una attività, indichi una voglia di fare le cose, indichi una voglia di condividere è sacrosanta e benefica, in giorni, anzi, settimane in cui è chiaro saremo costretti a restare fra quattro mura senza interagire fisicamente praticamente con nessuno. Poi chiaro: il rischio dell’effetto overload c’è. E c’è pure il rischio che ci sia chi fa cose più per ansia o supposta necessità di apparire, che per reale voglia di condivisione. Se anche fosse così: ‘sticazzi. Gli esibizionisti e i malati di esposizione nel mondo ci sono sempre stati e sempre ci saranno.
La differenza è una sola. Questi sono i tempi in cui “dare”. Questo sono. Bisogna insomma diffidare solo da chi fa palesemente qualcosa solo per avere un proprio tornaconto, senza “dare” nulla in cambio: nulla in termini artistici, nulla in termini di impegno, nulla in termini di tempo. Oppure dà pochissimo, dà magari il giusto, ma con l’esplicito calcolo di ricevere più di quello che dà (e di avere poi un vantaggio competitivo quando le cose ripartiranno). Queste sono le domande da farsi, secondo noi, se volete distinguere chi è animato da buonafede e chi invece fa esercizio di cinismo affarista: mi sta dando qualcosa, in cambio della richiesta di attenzione? Lo fa per spirito di condivisione, o per calcolo imprenditoriale?
Non che i calcoli imprenditoriali siano sbagliati di per sé. Anzi. Sono in realtà la base su cui si fonda la nostra società capitalista: esecrarli sarebbe stupido (ed ipocrita). Ma c’è momento e momento. In una fase storica in cui praticamente tutti – tranne forse i dipendenti statali, e non si offendano nel leggerlo, ma pensino piuttosto a cosa sono disposti a rinunciare in segno di solidarietà nell’immediato futuro – rischiano qualcosa e stanno perdendo qualcosa nell’immediato (…molti più di “qualcosa”: molti, senza nessuna o con minima tutela, stanno imboccando l’autostrada del panico e dell’indigenza), non è davvero il caso di indulgere in calcoli imprenditoriali. Non è il caso di farlo per rispetto. Non è il caso di farlo per opportunità. Non è il caso di farlo perché è un po’ da avvoltoi senz’anima, e se e quando le cose ripartono beh sarà meglio se ce ne ricorderemo, di quanto sei stato avvoltoio e senza scrupoli.
E per dare un esempio di quanto sia importante “capire il momento”, ecco un esempio di chi – purtroppo – non c’ha capito assolutamente un cazzo. Questo il post apparso sul profilo Instagram di Discwoman (avete presente, no? Pure noi avevamo parlato di loro, ed erano venuti fuori concetti importanti):
Davvero si fa fatica ad immaginare un post più sbagliato ed inopportuno, in ultima analisi stupido e (crediamo involontariamente) offensivo. Ci sono infatti alcune pezze d’appoggio su questo ragionamento e, se leggete i vari carteggi tra pro e contro, sono pure emersi: in America il welfare è praticamente a zero, è insomma più nella mentalità anglosassone della nazione chiedere direttamente un contributo in momenti di difficoltà, straightforward. Tutti sono autorizzati a farlo, meglio per chi è più bravo e raccoglie più soldi (…a proposito di anglosassone, pure quello che è finora l’approccio di Boris Johnson alla pandemia pare andare in questa direzione: si salveranno i più tosti e in salute, per gli altri pazienza, preparatevi a vederli schiattare, è la vita). Ma il ragionamento non si può fermare qui.
Il punto è che questo post di Discwoman è una totale, clamorosa mancanza di senso di empatia e di condivisione – qualcosa che alimenta il DNA fondante della club culture (aka, di ciò che ha fatto nascere Discwoman… non una cosa da poco). Ok, si apre con le prime righe che parlando di come tutti stiano perdendo dei soldi, almeno quello; ma poi si passa direttamente a parlare di sé, delle proprie perdite (“Thousands of dollars”), da un lato si chiedono dei soldi senza dare nulla in cambio, ma proprio nulla!, dall’altro è proprio un “Si salvi chi può” senza un pensiero minimo alla pletora di artisti che non siano Discwoman, di label discografiche, di club, di promoter, in generale di tutte le persone che ruotano attorno al sistema del clubbing – sì, anche baristi e buttafuori – che stanno soffrendo di questa crisi e di questo lockdown come e quanto le dj di Discwoman. Tutto questo è completamente escluso dalla narrazione, in un post come questo. Completamente. E’ una delusione, ed è svilente, considerando quanto è importante il discorso della “inclusività” nella ragione di esistere (e, anche, di farsi notare più di altri sul mercato) di Discwoman.
Ancora più brutto vedere una delle artiste rappresentate dal collettivo, Ciel, rispondere a lecite critiche con argomentazioni vergognose ed imbarazzanti (così vergognose ed imbarazzanti che lei stessa le ha cancellate: frasi tipo “You Europeans are a fucking disgrace”, testuale), dove si mette in campo il ricatto morale del “Siete bianchi etero privilegiati, che ne potete sapere voi, dovete solo stare zitti”, cosa che fa ridere ed irritare per mille motivi (parti dal presupposto che la critica sia razzista e sessista di per sé, senza nemmeno sapere il background di chi la fa e senza voler minimamente entrare nel merito).
Non è questo il modo di reagire. Il modo di reagire è la solidarietà. E’ unirsi. E’ sentirsi tutti sulla stessa barca, e non avere l’illusione che “Intanto mi tento di salvarmi io, per gli altri si vedrà”. Il modo di reagire è condividere qualcosa: ecco perché comunque siamo felici di vedere tanti dj che fanno dirette, tanti musicisti che fanno live casalinghi, tanti esperti che offrono tutorial – e lo fanno senza chiedere soldi in cambio, in un momento come questo.
L’unico modo di reagire è la solidarietà. E’ unirsi. E’ sentirsi tutta sulla stessa barca
Che poi, ora il problema Coronavirus sta assumendo risonanza mondiale. In un primo momento sembrava un problema solo italiano. Fosse rimasto tale, e qua facciamo la domanda ai più grandi dj a livello internazionale anche se sappiamo che difficilmente ci leggeranno, avrebbero poi accettato di venire in Italia a situazione normalizzata ad un cachet più basso, per dare un po’ di ossigeno ai promoter locali? Sì? No? Si erano posti il problema? Quanti sono coloro – sia dj che agenzie che li rappresentano – che grazie al mercato italiano hanno moltiplicato il proprio fatturato e il proprio valore sul mercato? Hanno preso e preso parecchio, da noi, ma al momento giusto sarebbero stati pronti a dare qualcosa in cambio, vedendoci in difficoltà? Adesso il problema sta diventando anche spagnolo, tedesco, francese, inglese, quindi la domanda diventa meno “localizzata” e legata al caso specifico, ma comunque quando le cose ripartiranno ci saranno macerie e danni un po’ dappertutto, promoter e club con debiti accumulati non per colpa loro: artisti ed agenzie “major” avranno il cuore di chiedere sempre gli stessi cachet e di pretendere sempre le stesse condizioni con trattamenti di lusso? Sperando che ci sia qualche allocco, o megalomane, o ricco di famiglia che pur di mettere fuori mercato tutti i propri competitor accetta di giocare a questo gioco?
In fondo, è lo stesso ragionamento che sta dietro al post di Discwoman, anche se su scale diverse: sperare di mantenere quella che fino ad oggi è stata la propria normalità. Nel caso di Discwoman, che rappresenta artisti non famosi e spesso discriminati per genere o razza, si tratta di mantenere la propria possibilità di operare senza perderci dei soldi ed anzi guadagnandoci stipendi; nel caso dei colossi fra dj, management ed agenzie si tratta di mantenere costanti il più possibile i fatturati soliti, per non doversi ridimensionare e spingersi verso il basso. La verità è che questo lockdown prima locale e ora sempre più globale rischia di danneggiarci tutti quanti in modo sensibile e non (immediatamente) recuperabile, molte cose potrebbero cambiare, dobbiamo essere pronti a ciò.
Nel frattempo, dobbiamo dimostrarci generosi sì, ma anche solidali. Dobbiamo essere pronti a ricevere, così come a dare. Il processo non deve essere unidirezionale, nessuno si può chiamare fuori dalla “chiamata di responsabilità” a cui ci stanno costringendo questi tempi difficili. Vale per chi ha di più (… che sarebbe meglio desse di più), vale per chi ha di meno. C’è stato in questi giorni un esempio magari piccolo, ma secondo noi bello: Giorgio Gigli e i Bichord hanno messo a disposizione l’album a cui avevano lavorato in questi mesi. Un album a cui contavano di fare fare l’iter “normale”: release, promozione, un po’ di euro racimolati via stream o via donwload, per vedersi almeno un minimo ricompensati della quantità di tempo, lavoro e passione che ci hanno investito. Visti i tempi un po’ così, hanno deciso di metterlo in condivisione gratis. Ecco. Questo è lo spirito giusto. Così come è lo spirito giusto quello di chi non si dà per vinto e magari sbagliando, magari esagerando, magari in maniera scomposta, magari ingolfando le nostre timeline nei social, prova a dare qualcosa, a condividere, per il piacere di farlo, per il piacere di raccontare, per il piacere di creare comunità.