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Per la nostra “tavola rotonda” di discussione musicale, come era stato per Kendrick Lamar (prima) e Jamie xx (poi), stavolta abbiamo deciso di toccare il tema caldo del momento; vale a dire “Caracal”, la seconda fatica dei chiacchieratissimi Disclosure, che ha ricevuto diverse critiche per il suo sostanziale appiattimento musicale e per la grande apertura verso il pop,
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che molti fan “della prima ora” non hanno facilmente digerito. Per l’occasione abbiamo messo uno accanto all’altro due che normalmente riuscirebbero a litigare pure sul fatto che il cielo è azzurro e che il ghiaccio è freddo, i nostri Matteo Cavicchia e Federico Raconi.
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Insomma, vorrei partire con ciò che a pelle ho sentito mentre ascoltavo “Caracal”. Mi sembra un buon album di musica pop, ecco, ma nulla più. Infatti più l’ascolto più penso che il suo unico grande pregio sia quello di fugare ogni dubbio sulla reale natura dei Disclosure: i fratelli Lawrence non sono house e sfido chiunque a definire i loro lavori come tali (c’è pure chi si ostina). Non basta arraffare qui e lì elementi che evocano la UK garage o la bass-music per fargli fare uno “scattino” verso una determinata attitudine, no; loro fanno roba per la radio e in questo sono bravissimi, ma restano comunque lontani dallo spirito tipico dell’house. Detto questo ti chiedo: per favore prova a convincere me e quelli come me che in qualche modo ci sbagliamo e che, forse, tutta questa freddezza è solo il fastidioso risultato di quel rigetto che generalmente ha come bersaglio i lavori la cui uscita è accompagnata da un hype alle stelle.
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Non credo ci sia nessuna via traversa o sotterfugio abbastanza articolato che possa far passare il messaggio che questo “Caracal” sia un manifesto della musica house. Ma, a differenza di quanto provato a fare (e parzialmente riuscito) con “Settle”, credo che stavolta non ci sia stato nemmeno il tentativo di accaparrarsi la simpatia del pubblico più esigente e…sigh…underground. Credo che i valori in gioco siano ben altri: facilità d’ascolto, apertura al pop, l’ennesima sfilata di featuring illustri. Ed in questo i fratelli Lawrence hanno fatto senza dubbio centro, seppur perdendo un po’ del fascino magnetico e della “verginità” che trasudavano dai loro primi lavori. Se dopo “Settle” si era detto “Cazzo, per essere due ragazzini semi-sconosciuti, senti che roba!” ora i Disclosure partivano con altre aspettative sulle loro (comunque ancora giovanissime) spalle. Quello su cui ci dovremmo interrogare è quindi: un album che essenzialmente è la fotocopia del suo predecessore e che se non cambiassero le voci sembrerebbe un’unica grande traccia, come può rimanere memorabile agli occhi di una scena così soggetta alla memoria corta come quella pop a cui sembrano tanto voler appartenere?
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Fondamentalmente penso si tratti di un falso problema in quanto i fratelli Lawrence sanno perfettamente che la scena pop, per sua natura, è portata a prendere, spremere e poi a passare rapidamente all’artista successivo, al nuovo disco in promozione o al nuovo fenomeno mediatico. Immagino che per i Disclosure questo sia stato un rischio calcolato e dovutamente soppesato; in quest’ottica, e per com’è stato realizzato, “Caracal” è il passepartout perfetto per accedere e scardinare questo tipo di sistema, meglio ancora di “Settle”: ha i singoli giusti per finire in radio e abbandona preventivamente e (forse) furbescamente qualsiasi sfida. Questa considerazione mi fa pensare a SBTRKT: quanti di noi preferiscono “Wonder Where We Land” al disco d’esordio? Nessuno. Eppure nello scrivere il secondo album, Aaron Jerome ha provato ad alzare il livello della competizione, confrontandosi con una scrittura diversa. Anche in quel caso ha coinvolto molti artisti, in alcuni casi ho addirittura pensato che si potesse fare a meno del featuring, però è riuscito a evitare la “sindrome Coldplay”. Te lo ricordi “Ghost Stories”, no? Nel tentativo di piacere a tutti, a tutti i costi, Chris Martin & Co. sono finiti per perdere fragorosamente la sfida.
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Credo però, seppur ci sia effettivamente il palesarsi di una “banalizzazione” dei contenuti per aprirsi maggiormente al pubblico (come se l’house fosse ingegneria aerospaziale), che non sia possibile negare che il tentativo di creare un suono di facile attrattiva, e allo stesso tempo distintivo del loro suono caratteristico, abbia reso questo album sostanzialmente una brutta copia del precedente. E se pensiamo a quanto sia difficile ripetersi nel pop, ribattendo costantemente lo stesso sentiero musicale, abbiamo facilmente una risposta sul perché “Caracal” non resterà a lungo nella memoria del grande pubblico. Non è possibile pensare di fare musica “facilona” e campare di rendita sugli stessi registri musicali per sempre. Prendiamo due giganti del pop come Madonna e Michael Jackson. Gente che nel business è durata tre decadi. Qual è il suono che li ha distinti? Nessuno in particolare, perché hanno spaziato lungo tutto il range musicale che ha funzionato nel corso della loro carriera. Sono stati dei paraculi? Indubbiamente. Canticchiamo però ancora le loro canzoni sotto la doccia dopo anni o sbaglio? Secondo me è questa la grande mancanza dell’album, cercare di restare attaccato a ciò che ha funzionato in precedenza piuttosto che affacciarsi e provare a carpire cosa funzionerà nei mesi a venire o addirittura tentare di dettare un trend. Cosa che per me, ad esempio, SBTRKT ha saputo se non altro sviluppare in maniera più avveduta. Resta da capire: cosa possiamo salvare dunque di questa raccolta?
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Ma sì, “Magnets” e “Nocturnal” non sono mica male, ma è innegabile che ci sia un abisso rispetto alle varie “Latch”, “White Noise” e “You & Me”. Parlo dell’impatto che hanno avuto i singoli di “Settle” e della sorpresa che hanno suscitato: quelli erano brani bollenti, roba che m’ha fatto ripensare, in modo assolutamente piacevole, a quando quasi tutti gli artisti pop si facevano remixare dai grandi dell’house e i risultati erano delle cose stupende. Non c’è bisogno di andare a scomodare i Jamiroquai e David Morales, e nemmeno gli Everything But The Girl e Todd Terry, ma fino agli inizi degli anni 2000 tutti i singoli avevano un “Club Mix”. Il fatto che tu abbia paragonato i Disclosure a Madonna, a mio avviso in modo azzardato, apre un altro capitolo: non è che ci aspettiamo troppo da ‘sti due?
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Ecco. Un altro passaggio fondamentale su cui soffermarsi è che per quanto ci siano molte tracce orecchiabili (sicuramente la mia preferita rimane “Holding On“, non per niente con la partecipazione di un grandissimo come Gregory Porter) non riesco ad identificare né una hit spacca-radio, com’era stata “Latch”, e nemmeno una spacca-pista come “White Noise” o “When A Fire Starts To Burn“. Sul discorso dei remix, c’è da dire che hanno avuto una quantità di edit e bootleg davvero degna di nota in questi anni, quindi forse almeno sotto questo punto di vista sono riusciti a salvarsi involontariamente in corner. E poi, si può anche concepire un album senza pre-disporlo a tutti i costi per il club senza per questo essere soggetti a critiche. Sicuramente arriveranno anche i remix, autorizzati che siano o meno. Sul discorso di Madonna, beh, se ti affacci ad un panorama come quello della musica pop con la stessa prepotenza con cui i Disclosure hanno fatto con “Settle”, è naturale guardare sempre in cima alla piramide. Ovviamente, arrivarci è tutto un altro paio di maniche. Ma voglio ora soffermarmi sui featuring: trovo che molti degli artisti che hanno collaborato a “Settle” (Sam Smith, London Grammar, AlunaGeorge) ne abbiano tratto beneficio, come fosse un “trampolino” per dare visibilità al loro lavoro come artisti sfruttando il grandissimo hype intorno ai Disclosure. In “Caracal” mi sembra siano questi ultimi ad andare a bussare alla porta di artisti di già grande fama (Lorde, The Weeknd, lo stesso Porter) per dare un’ulteriore spinta commerciale (e, perché no, qualitativa) all’album. Esagero?
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La tua considerazione sui featuring scelti conferma in pieno la traccia “latente” dell’analisi che abbiamo fatto fin qui: “Caracal” è sostanzialmente un album conservativo che – magari perché i Disclosure sanno fare solo questo (comunque non è poco), o magari perché la scelta discografica appena intrapresa è, ad oggi, questa qui – deve rimarcare il perimetro delineato da “Settle” e nulla più. E ok, ci sta e a noi va benissimo, ma comunque è evidente che manchi qualcosa e alla lunga questo giochino non potrà funzionare sempre. Sarebbe quasi da dir loro “Guy, Howard, bomba! Tutto bello, ma ‘sta storia ce l’avete già raccontata”, ma immagino che per artisti con un seguito simile non sia il massimo. Oppure se ne fregano e basta, perché la strada già battuta, se da un lato può annoiare gli appassionati più curiosi, di contro è certo essere la più comoda per accrescere la loro fan-base.
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