Uno dei privilegi di questo lavoro – uno dei pochissimi privilegi di questo lavoro – è che spesso ti ritrovi a essere testimone oculare delle diverse fasi delle carriere degli artisti con cui sei chiamato a interagire. Non solo: alla lunga certe interviste diventano come i capitoli nuovi di un romanzo lungo anni ed è sempre come se il discorso stia per ripartire da dove si è fermato la volta precedente. Più o meno è quello che è avvenuto proprio con Dan Snaith, l’uomo dietro Caribou e Daphni (il suo alter ego “da club”). Ci eravamo incontrati la prima volta mentre “Swim”, l’album del 2010, stava per esplodere e l’universo intorno Caribou sembra destinato a cambiare per sempre, con Dan Snaith che smetteva di essere un nome di culto del nuovo pop underground per diventare il nome su cui tutti avrebbero voluto puntare a scatola chiusa. Quello che piace alla gente. Il numero uno nelle classifiche dei dischi di fine anno. L’ultima chiacchierata era avvenuta a Roma, giusto un’ora prima che salisse sul palco per uno degli ultimi spettacoli da opening dei Radiohead (“Non ti voglio dire una bugia, ma credo che quelle date italiane siano state quelle in cui ho suonato di fronte al pubblico più numeroso della mia vita”, dice lui), ci rincontriamo ora con un album nuovo di pacca in dirittura d’arrivo e la sensazione che non debba più dimostrare niente a nessuno. Adesso si gioca davvero nel campionato dei grandi e confermarsi, si sa, è la cosa più difficile che possa capitare per un artista. Dan è al solito affabile e molto disponibile, mancano pochissime settimane alla pubblicazione di “Our Love” e lui continua a girare dal vivo come se il tour di “Swim” non si fosse ancora concluso (“Sai, quando hai finito di lavorare a un disco i mesi che ti separano dall’uscita diventano eterni, molto meglio tenersi impegnati”). Siamo nel camerino dell’Estragon di Bologna, per l’anteprima della nuova edizione di roBOt e mentre la band si prepara al soundcheck ne approfittiamo.
Questo disco arriva quasi quattro anni dopo “Swim” e conoscendo un po’ il modo in cui lavori possiamo immaginare che sia il frutto di un lunghissimo processo di scrittura e produzione. Quando hai capito che il nuovo materiale stava prendendo una direzione così precisa e definita? Come è nato “Our Love”?
Più o meno quando ci siamo beccati io e te per il concerto con i Radiohead, ricordi? Ecco in quel periodo avevo già accumulato un po’ di roba e stavo cominciando a tirare le fila del lavoro, ma fino a quando abbiamo fatto concerti, fine novembre 2012, non avevo mai avuto il tempo di entrarci davvero. È stato lì che ho detto: “OK, basta. Da adesso in poi si registra”. Ho messo in pausa la band, e ho pure smesso con i dj set e tutte le altre attività legate a Daphni. Per cui sì, avevo già parecchi pezzi e pure un’idea di come tutto doveva suonare, ma dove va a parare un disco è una cosa che capisci a poco a poco mentre ci lavori e in questo caso c’è voluto parecchio tempo. È stato all’inizio di quest’anno, a gennaio, che finalmente ho pensato: “Ci siamo! Possiamo finirlo”.
“Swim” era servito per spingere la tua musica verso una direzione nuova, molto più elettronica e per certi versi quasi dance, con “Our Love” sembri volere approfondire ancora di più un determinato tipo di sonorità. La sensazione che ho avuto, ascoltando l’album, è che tu stia cercando di creare un qualcosa che colpisca il pubblico a più livelli. Una musica in grado di parlare sia al corpo che alla mente, emotiva eppure al tempo stesso cerebrale e primitiva…
Sai una cosa? È cambiato proprio il mio approccio alla musica: fino a “Swim” avevo sempre fatto dischi pensando solo a me stesso, poi il modo in cui quell’album è stato recepito, l’impatto che quel disco ha avuto sulla mia vita ma anche sulla vita delle persone che lo hanno ascoltato, persone che sono venute a vedermi dal vivo, con cui è capitato anche di scambiare qualche parola, mi ha fatto capire che questo è quello che voglio fare adesso. Non voglio più tornare a fare musica solo per me, mi piace l’idea di potere creare qualcosa che abbia un valore anche nelle vite degli altri e che sia emotivamente coinvolgente per me, ma pure per chi l’ascolta. E il ballo, per esempio, è una delle reazioni più immediate che la musica è capace di scaturire…
Immagino però che non sia una cosa facile, ti sei sentito un po’ sotto pressione?
No, no! Per niente, perché in qualche modo era proprio già successo con “Swim”, non mi sono mai messo a pensare: “Ok, adesso devo fare un disco pop”, e ho semplicemente fatto le cose che mi venivano naturali. Mi ricordo che mentre lavoravo a “Swim” ero convinto che stesse venendo fuori un album parecchio strano, ricco di suoni e soluzioni eccentriche e molto lontane dal genere di cose che era lecito aspettarsi da me e il fatto che quel disco sia andato così bene mi ha dato la sicurezza di potere fare quello che voglio senza pensarci troppo. Ho capito che potevo essere più accessibile senza per forza diventare più facile.
Sbaglio se dico che questo disco è stato molto influenzato dalla tua attività parallela di dj e produttore? È un po’ come se Daphni e Caribou si siano finalmente riuniti e abbiano fatto un disco insieme. Tant’è che mi chiedo come fai a dividerti tra i due progetti. Quand’è che finisce Caribou e inizia Daphni?
Beh è chiaro che se lo chiedi a me ti dico che è naturale che i due mondi si tocchino fino a confondersi. Alla fine sono sempre io, no? Le differenze sono più intenzionali che reali, perché le cose che faccio a nome Daphni nascono subito per avere una funzione precisa: devono essere suonate nei club e devono fare ballare la gente. Non sono delle canzoni, non hanno quel tipo di struttura. Sono un’altra cosa. Hanno un altro fine. E anche il modo in cui lavoro alle singole tracce è totalmente diverso: perché le cose che faccio come Daphni sono pensate per potere “uscire” immediatamente dopo averle masterizzate. Perché nei club si viaggia a una velocità superiore rispetto a quella della discografia tradizionale, mentre Caribou è un progetto più pensato dove confluiscono tutte le sonorità che mi hanno influenzato, compresa la dance, ma finisce anche molto di quella che è la mia vita personale. Un po’ come se Daphni fosse solo una parte di me e tutto il resto è Caribou. Però hai ragione tu, capita spesso che le due cose si fondano. Diciamo che c’è un momento preciso in cui ogni canzone su cui sto lavorando potrebbe appartenere a uno o all’altro progetto, ma poi finisco sempre per compiere una scelta…
E se dovessi anche scegliere, una volta per tutte, se fare il dj e suonare dal vivo cosa sceglieresti? Suppongo che il tipo di relazione che si crea con il pubblico sia quasi opposta a quella che avviene quando suoni dal vivo…
Non sceglierei! Sono davvero contento e fortunato di potere fare entrambe le cose. Ne ho proprio bisogno. E sì, hai ragione tu, le due cose sono molto differenti: suonare dal vivo crea una connessione tra te, i musicisti con cui suoni e il pubblico che guarda il concerto, ma l’interazione ce l’hai di fatto solo con le persone che sono con te sul palco, anche perché quando suoni dal vivo sei concentrato e hai la sensazione che le cose potrebbe andare storte da un momento all’altro, mentre durante un dj set… oddio, con me le cose potrebbero andare storte anche durante un dj set (ride, ndi). No ma, scherzi a parte, so che volendo potrei fare in modo di rendere i miei dj set perfetti, ma a me piace potere sbagliare, mi piace non avere una scaletta e…
Beh, non mi sembri proprio il tipo a cui piace pre-registrarsi i set!
Per niente! Quello che stavo cercando di dirti è che dei dj set io amo proprio l’imprevedibilità. Soprattutto quando suono nei club più piccoli, mi piace l’idea di arrivare in consolle senza avere in mente neanche il brano con cui inizierò. Ogni sera è diversa da quella prima, non ci sono regole. Ti faccio un esempio: io sono perfettamente conscio che quando suono al Panorama Bar, il settanta per cento della gente che è lì a ballare non sa neanche chi ci sia dietro i piatti, non mi conosce e non conosce la mia musica. È semplicemente lì perché è il Panorama Bar e se vai in quel posto e non in un altro è perché vuoi ballare un certo tipo di musica e io che suono devo essere capace di creare un mood coinvolgente e adatto a quel posto e a quella serata e non è per niente facile. Non a caso, sono molto più teso quando faccio il dj che quando suono dal vivo. Quando suono dal vivo so che c’è la mia band, c’è la scaletta, e c’è il mio pubblico. Oddio, pure quando non è il mio pubblico è comunque un pubblico educato, abituato alla musica dal vivo. Certo magari in qualcuna delle date con i Radiohead è capitato di sentire qualche fischio, ma poca roba e comunque chi se ne frega, stai suonando e agli insulti non ci pensi. Mentre se sei in un club e senti dire: “Ma che cazzo ha messo questo coglione?”, ecco, ti giuro che fa un effetto completamente diverso!
A proposito dei Radiohead: a Roma avevo davanti due tizi che durante il tuo set gridavano: “Andate via, vogliamo il rock!” e io pensavo: “Volete il rock? Ma allora perché siete venuti qui?”. Che dici di quell’esperienza? Se ti proponessero un’altra cosa del genere, con un’altra band, accetteresti di nuovo?
Volevano il rock al concerto dei Radiohead? Incredibile! Forse avevano preso i biglietti dieci anni e mezzo prima? (scoppia a ridere, ndi). Scherzi a parte: è stata un’esperienza molto bella e istruttiva sotto un sacco di punti di vista. Far parte di una macchina organizzativa così enorme e perfetta è stato un onore. Così come potere interagire con loro, vedere il modo in cui affrontano un tour di quella portata, pensa che siamo stati in giro con loro per quasi un anno tra Europa e Stati Uniti. Non so però se lo rifarei, proposte per aprire grandi live nelle arene continuano ad arrivare, ma dopo che lo hai fatto per i Radiohead non ti viene più di farlo per nessun altro. Mi piace il loro approccio, ho sempre apprezzato la loro musica e il modo in cui riescono a essere una band molto esposta pur senza mai essere eticamente discutibili. Potremmo farlo per qualcuno ancora meglio dei Radiohead? Ma chi c’è meglio dei Radiohead?
Per “Swim” mi avevi detto che avevi lavorato molto da solo, in casa, accumulando decine su decine di canzoni che poi sei andato a finalizzare in studio. Per “Our Love” invece hai collaborato con un bel po’ di gente, penso tra gli altri a Jessy Lanza e Owen Pallett. È una cosa che hai deciso a mente fredda o che è capitata?
Non avevo in mente un disco più collaborativo, ma ho deciso dall’inizio che avrei voluto fare delle cose proprio con le persone che anche tu hai citato. Jessy, per esempio, arriva dalla stessa città in cui sono cresciuto io, in Canada, e siamo stati messi in contatto da Jeremy Greenspan dei Junior Boys, che è un mio grande amico e che ha co-prodotto il suo disco. Per cui già un paio d’anni fa, quando ancora stavano lavorando, ho potuto ascoltare i suoi pezzi e sono rimasto colpito dal modo in cui Jessy scrive, il suo senso per la melodia, le armonie. Con Owen è andata diversamente, siamo amici da un sacco di tempo, ed è stato lui a dirmi: “Dan, voglio fare qualcosa nel prossimo Caribou”, come potevo dirgli di no? Ho coinvolto entrambi fin da subito, inviandogli il materiale quando era ancora molto grezzo in modo che loro potessero intervenire liberamente. Con Owen in particolare: ogni volta che gli mandavo un pezzo, lui me lo rimandava dopo avere preso una direzione che era assolutamente diversa da quella a cui avevo pensato io. E questo è proprio quello che cerco da una collaborazione, un coinvolgimento totale e libero. Un rapporto simile ce l’ho anche con Kieran (Four Tet). Lui è un po’ il collaboratore silenzioso di tutta la musica che faccio sia come Daphni che come Caribou. Non suona neanche una nota nel disco, però è lo stesso molto presente. Ogni parte, ogni pattern di batteria, è stata discussa con lui. Kieran è la persona a cui mi rivolgo ogni volta che ho qualche dubbio, e lui fa lo stesso con me. È come se fosse un “secondo Dan” e io un “secondo Kieran”, è per questo che non abbiamo mai davvero fatto un pezzo insieme. La pensiamo troppo allo stesso modo.
Se non sbaglio adesso sono più di dieci anni che vivi in Inghilterra e forse questo è il primo disco veramente inglese che hai realizzato…
Dici? Pensa che io ho sempre considerato “Swim” come il mio disco londinese proprio perché è nato grazie alla scoperta e alla frequentazione di tutta una scena elettronica che trovavo meravigliosa e affascinante. Penso proprio a Kieran, o Theo Parrish che anche se non è inglese in quel periodo suonava continuamente a Londra, a James Holden…
Però musicalmente c’erano ancora germi del Caribou “canadese”, mentre in “Our Love”, parlo proprio in termini di suoni, di produzione, ci sono molte cose che rimandano alla UK Garage, addirittura un paio di brani che mi hanno fatto pensare ai Disclosure e, ok, lo so che non c’è una connessione tra la loro musica e quello che fai tu, che siete molto diversi, ma mi viene da pensare che certe sonorità siano, più o meno, nell’aria e…
Ho capito cosa vuoi dire e in parte hai anche ragione, ma credo che l’origine di tutto sia più americana che inglese. Perché, e vale anche per me, tutto nasce dal recupero di alcuni suoni house classici e dall’esplosione di quello che voi giornalisti chiamate “contemporary r’n’b”. Penso alla canzone che ho fatto con Jessy, che appunto rientra perfettamente nella descrizione che hai appena fatto tu. Pensa che mentre stavo lavorando al pezzo c’era questa prima parte che era più tipicamente Caribou, mentre volevo che nella seconda succedesse qualcosa di diverso, allora ho preso un po’ a smanettare con la Juno 106 che avevo comprato proprio da Jessy ed è venuto fuori questo giro di basso che sembra davvero arrivare da un vecchio disco house. Mi sono pure posto il problema, come per altre parti del disco, che fosse un po’ “troppo”, però poi mi sono detto che uno dei grandi limiti quando fai musica da così tanto tempo è che cominci a ragionare eccessivamente su ogni scelta che compi. Come se dovessi provare in ogni canzone quanto sono intelligente e originale, perché quelli come Caribou, quelli come me, devono fare solo cose originali, quindi se quel giro di basso è troppo dritto e troppo house devo prenderlo e mandarlo in reverse. No, basta. Se una cosa mi piace e ci sta bene nella canzone, non la voglio più ritoccare. Anche se qualcuno dirà che è troppo semplice o banale.
Un altro aspetto che mi ha molto colpito del disco è il modo in cui è mixata la tua voce, molto più nuda rispetto al passato, come se volessi esporti di più anche come cantante e ho trovato questa scelta coerente coi temi dell’album che sono molto privati, personali…
È così, ci hai preso! L’ho dovuto fare perché se parti con l’idea di realizzare un album che parli al pubblico in maniera più diretta non puoi nasconderti dietro i soliti trucchetti, e la voce, la melodia, i testi, sono la prima cosa che arriva e che crea un legame tra chi fa musica e chi l’ascolta. Con questo album volevo mettermi più in discussione come cantante e volevo provare a scrivere testi più personali e anche più sinceri. Anche perché io sto scoprendo la mia voce piano piano, “Swim” è il primo disco in cui ho provato seriamente a cantare anche se poi c’erano sempre troppi bszbsbzzz. Se ci pensi io ho fatto tutto il percorso: ho cominciato che i miei pezzi erano solo strumentali, poi ho provato a cantare, poi ho cantato sempre di più e ho cominciato a scrivere i testi e poi la voce è diventata via via sempre più importante. Ho acquisito maggiore sicurezza, so che non sarò mai un vero cantante, ma ho cominciato ad accettare il modo in cui la mia voce suona. C’è questa canzone, “All I Ever Need”, in cui canto come in passato non avrei mai avuto il coraggio di fare. Mi ricordo che mentre ci stavo lavorando chiesi proprio a Jessy di darmi una mano, in pratica l’ho scritta con lei, perché mi sembrava troppo soul e non mi sentivo in grado di affrontare un brano del genere. Lei si è rifiutata, mi ha assistito in tutto ma non ha voluto cantarlo, per lei andava benissimo così. E anche Kieran ha insistito e siamo arrivati al punto in cui io sembro un cantante r’n’b ma senza la voce di un cantante r’n’b”.
Le canzoni di “Our Love” sembrano più o meno ruotare tutte intorno alle relazioni interpersonali, come se si trattasse di un concept sull’amore “adulto”. Si parla di stabilità, crescita e di quei piccoli compromessi che magari non sono tanto idealizzati ma che sono il sale dei nostri rapporti con le altre persone. Immagino ci sia molto di te in questa visione dei sentimenti…
È un discorso molto personale. Diciamo che c’è differenza tra scrivere una canzone d’amore quando hai vent’anni, e per amore non intendo un brano che parla del tuo partner, ma anche della tua famiglia, dei tuoi amici, del tuo modo di rapportarti alla vita, e fare la stessa cosa mentre sei nel pieno dei tuoi trenta. Credo che alla fine abbia molto a che fare con l’invecchiare e con l’energia che questo tipo di rapporti riesce a trasmetterti. Tutti i rapporti sono complicati, richiedono compromessi, cambiano continuamente e questa è la ragione che li rende meravigliosi perché sono ricchi, variegati, in continua evoluzione. Non è che t’innamori e poi tutto resta sempre uguale, no? Non parlo di quel tipo di amore lì, dell’ideale platonico di amore, ma della realtà e di come la realtà ti costringa a metterti in gioco ogni volta in un modo nuovo.
In questi giorni si sta parlando moltissimo, come è giusto e naturale, del ritorno sulle scene di Aphex Twin e della follia collettiva scatenata anche dal modo in cui il disco è stato promosso. La sensazione, ma magari mi sbaglio, è che il marketing stia sempre di più offuscando la musica, come se il vero obiettivo fosse “promuovere la promozione”, non so se riesco a spiegarmi. Mi chiedevo se era una cosa che anche tu, da musicista, avevi avvertito o se si tratta solo dell’idea sbagliata di un giornalista musicale?
Certo che l’ho avvertito, hai perfettamente ragione! Mi sembra che sempre più spesso le etichette discografiche passino il tempo a elaborare grandi piani marketing, ma a me non interessa molto. Cioè, io voglio essere generoso col mio pubblico, non voglio che la gente che mi ascolta si senta al centro di una strategia promozionale, non mi piace che il pubblico si senta usato. Una cosa che ho chiarito subito alla mia etichetta è che non volevo circolassero versioni diverse dell’album, non me ne frega un cazzo di fare il costosissimo box super design con quattro LP, poi l’edizione limitata in CD doppio, quella normale, quel genere di cose lì. È chiaro che anche io voglio che il mio vinile suoni benissimo, che sia un bell’oggetto da conservare, ma non mi va giù l’idea che siccome ormai sempre meno gente compra i dischi bisogna fare in modo che quella stessa gente ricompri più volte lo stesso album. Così come non sopporto quelle campagne web in cui sei obbligato a cliccare su una pubblicità per potere ascoltare una canzone, mi sembra tutta una presa in giro e io voglio proprio evitare le prese in giro.
Che poi questo modo di promuovere la musica ha un’altro grande effetto collaterale: si parla dei dischi sempre più nel giorno dell’uscita e poi si lasciano morire pian piano. Come se il vero obiettivo fosse diventato far sì che in un giorno tutti, parlo dei siti web, le condivisioni su Facebook, quelle su Twitter, si concentrino sulla stessa cosa per poi passare a un’altra il giorno seguente. Sembra che tutto debba andare sempre di fretta, che conti solo arrivare prima degli altri…
Bravo! Hai detto una cosa giustissima, anche perché è un argomento che mi sta molto a cuore: se ci pensi bene io sono la prova vivente che non esiste una regola giusta e una sbagliata. “Swim” uscì molto in sordina per poi crescere piano piano. È un album che ha impiegato mesi a fare breccia sul pubblico e poi, grazie al passa parola, ha coinvolto un numero sempre maggiore di persone. Se avessimo cercato “il botto” probabilmente avremmo ottenuto una grande attenzione nell’immediato, ma poi “Swim” sarebbe finito negli scaffali come l’ennesimo disco “importante per una settimana” e basta. Quello che mi è successo, invece, mi ha fatto acquisire una maggiore consapevolezza: ho capito che è importante sapere dire di no, e fare sempre e solo quello che ritieni giusto per te. Perché non tutto funziona allo stesso modo per tutti, ci sono delle cose che per altri vanno bene ma che per me sono terribili. Io ho voluto fortemente che le anteprime del nuovo album venissero pubblicate su SoundCloud perché volevo non ci fosse nessuna pubblicità del cazzo, volevo che la gente interessata alle mie canzoni dovesse cliccare solo sul player e non su una fottuta pubblicità dell’Adidas. Perché oramai funziona così, ci sono marchi ovunque. Adidas, Ray-Ban… lo so che sarebbe facile farsi dare dalla Ray-Ban trentamila dollari solo per indossare un paio d’occhiali in un videoclip, ma non fa proprio per me. Capiamoci: io lo so che le etichette discografiche sono chiamate ad assolvere un compito sempre più difficile, che in un mondo che viaggia a questa velocità diventa sempre più complicato ottenere visibilità, non sono un talebano. Ma credo che alla fine al centro di tutto ci sia sempre la gente, quelli che comprano i dischi, che vanno ai concerti, e quella gente va sostenuta, non sfruttata.
Nei quattro anni che hanno separato “Swim” da “Our Love” abbiamo visto esplodere il fenomeno EDM e la musica da ballo è diventata un po’ lo stadium rock dei nostri tempi. Tu che idea ti sei fatto? Immagino che ti sia anche capitato di dividere serate con producer e dj del genere…
Beh, oddio, di solito chiedo di non prendere date con gente come Tiësto o Steve Aoki, ma non per snobismo, ma proprio perché non credo che la mia musica sia adatta a contesti del genere. È capitato però di suonare in qualche festival con qualcuno di questi act e di osservare da vicino soprattutto l’impatto pazzesco che hanno sulla folla. Credo che il fenomeno stia diventando sempre più enorme, negli Stati Uniti poi sembra non si possa proprio parlare di musica elettronica senza finire a discutere di EDM. Io non ho una posizione ideologica in merito, non penso sia il male assoluto, è semplicemente la colonna sonora dei teenager di oggi. Musica buona per stare insieme, divertirsi, assumere droghe. Per certi versi si porta dietro quella carica ribelle che aveva il rock’n’roll degli inizi: è musica che gli adulti non possono capire e quindi per i ragazzi è automaticamente più attraente. È chiaro che non fa per me: non mi piace il fatto che i pezzi sembrano tutti assomigliarsi l’uno con l’altro, con gli stessi crescendo, gli stessi suoni, la stessa identica impostazione però non ne faccio una malattia. Non credo che il successo dell’EDM faccia male alla dance o impedisca alle cose buone di emergere, è solo che la storia della musica è sempre stata segnata da fasi e quel suono racconta il momento che stiamo vivendo adesso più di altri suoni. L’EDM è il nuovo mainstream, ma nell’underground gira altrettanta musica di merda, per cui non capisco l’accanimento.