Una transizione importante. Una transizione poco vistosa, magari, ma questa edizione 2017 di Dancity Festival – dopo lo stop che ci si è auto-imposti l’anno scorso – ritorna e marca un passaggio, una transizione molto importante. Non nell’affluenza, che non ha registrato picchi significativi pur non registrando flessioni; non nell’importanza dei nomi, visto che non ci sono state super-guest o progetti faraonici; non nella qualità complessiva, perché quella sempre altissima è stata ed altissima si è confermata quest’anno. No. Il piccolo “shift”, che in realtà può diventare grandissimo ragionando ad ampio raggio, è stato quello sull’età media dei presenti. Mostri sacri come Manuel Göttsching (che dal vivo si è limitato a riproporre “E2:E4”, ma l’ha fatto bene) e Craig Leon (un po’ deludente, a nostro modo di vedere), ma anche artisti elettronici la cui grandezza è capita e percepita meglio da chi va verso verso gli –anta piuttosto che verso gli –enta (Uwe Schimdt / Atom TM / Senor Coconut su tutti) hanno fatto sì che si sono viste molte più facce mature in giro. D’altro canto anche i frequentatori storici del festival, un festival che ricordiamolo ha una storia più che decennale, iniziano ad essere adulti, ad essere padri di famiglia o giù di lì. Per fortuna diventarlo non significa archiviare tutto, e tapparsi in casa ascoltando Biagio Antonacci (o anche solo Keith Jarrett e Miles Davis). La curiosità intellettuale non ha età. Però è vero che con l’età si diventa un po’ più esigenti rispetto alla qualità della vita e/o si cercano esperienze più sfaccettate, meno monocolori, meno forzatamente giocate solo sul filo dell’euforia, della folla, dell’adrenalina, delle urla.
(Come da tradizione del festival palchi in contesti splendidi, in pieno centro; continua sotto)
Di qualità della vita, come sempre, a Dancity ce n’è una quantità incredibile. Uno dei “boutique festival” migliori d’Europa: l’Umbria resta sempre una terra incredibilmente accogliente (si mangia bene, si beve bene, i panorami e le architetture giustamente sono un patrimonio mondiale dell’umanità), Dancity di suo non smette di avere un tocco luminosissimo per quanto riguarda la formazione della line up, con nomi non scontati, sorprendenti, con ripescaggi illuminati, il tutto con un focus sullo stimolo intellettuale, perché gli act non sono dei semplici act da gustare ma spesso e volentieri si portano dietro storia, contesti, riferimenti significativi. C’era una strada per crescere su numeri e fatturati: puntare sul dancefloor, aumentare il numero degli act danzerecci (portano gente, portano incassi al bar, sono più economici come produzione perché a parte il cachet artistico devi spendere poco o nulla); lo si poteva fare anche mantenendo la linea qualitativa che contraddistingue il festival (puoi fare techno chiamando Robert Hood, per intenderci, o cose più morbide ma sempre molto clubbare chiamando Dixon: e in passato è stato fatto), invece quest’anno la puntata serale al Serendipity – il club che è in parte uno spin off del festival, in parte è semplicemente uno dei migliori club d’Italia al pari del Dude, Harmonized ed altri – è stata una sola e l’unica concessione al “mercato” classico della club culture è stato Blawan. Che ha fatto il suo. Ha menato. Nel modo acconcio. Ma l’highlight della serata è stato l’incredibile Bernardino Femminielli, col suo house-porno-cabaret, e belle cose sono arrivate anche dagli altri. La vera delusione è giunta proprio da chi non aveva capito la definitiva mutazione d’animo in atto di Dancity: uno legge Optimo e si aspetta un sano, divertente eclettismo, non si immagina che lo scozzesone arrivato lì a rappresentare la ditta tiri fuori un set da Cocoricò in salsa tech-house. E’ arrivato in un club, avrà sentito Blawan pestare duro, avrà constatato che per problemi organizzativi era stato spostato a fine serata, e avrà pensato “Vabbé, picchio”. Scelta sbagliata. A Dancity, nell’animo sempre più delineato di Dancity, scelta sbagliata.
Certo: ci fosse stata l’esplosione di pubblico, con migliaia di persone che prendono d’assalto i botteghini del festival, chiaro che la direzione più giusta sarebbe stata quella. Invece sempre più il pubblico di Dancity sta diventando un raffinatissimo (e comunque numeroso) club, con la gente che arriva preparata, che conosce benissimo storia e discorso artistico del festival, che ne segue con attenzione le traiettorie. Qualcosa di raro, fidatevi. Se ne è accorta anche Marie Davidson: messa a suonare nel retropalco dell’Auditorium San Domenico, a fine soundcheck era molto scettica per non dire seccata: “Già mi conoscono in pochi, non verrà nessuno a sentirmi qui, reclusa nel retro”. Sbagliato: le persone sono arrivate in gran numero a sentirla, e volevano sentire proprio lei, così come sanno che a Dancity quella parte di sala si sfrutta spesso e volentieri. Tant’è che la stessa Davidson si è scusata a metà set col direttore artistico del festival, al microfono, davanti a tutti: “Uh, avevi ragione, è super suonare qua!”. Si è scusata ancora meglio facendo un set simile a quello offerto al Sónar (electro + voce narrante) ma molto più denso, molto più convincente, molto più a fuoco.
(Le Cantine Arnaldo Caprai, la strepitosa location della domenica pomeriggio; continua sotto)
Altri highlight? Di sicuro tutta la giornata di domenica: dalla gita pomeridiana fra le vigne di Montefalco (con un gran dj set “divertentista” di Harmonized Soundsystem e Franco B, oltre a un bel live in solitaria del batterista Tommaso Cappellato) fino al palco serale “benedetto” dalla Red Bull Music Academy in cui Hieroglyphic Being e Dan Kinzelman hanno dato vita ad un duetto strepitoso di beat techno/electro, striature acid, sax, tappeti riverberati, sembrava fossero in duo da anni ed anni quando invece era la prima volta che suonavano assieme, e Senor Coconut dal canto suo con la full band ha dato sorrisi per tutti con le versioni salsa di pezzi dei Daft Punk, Kraftwerk, Doors, eccetera, il solito show assurdo che però non si vedeva in giro da un pezzo e, soprattutto, che è in grado di conquistare tutto e tutti, dalla casalinga di Voghera al techno-nerd più ingrugnito. A chiudere il tutto, Hunee. Insomma: immaginatevi che giornata splendida è stata.
Ma pure il venerdì e il sabato non è che siamo stati male. Anzi. Highlight assoluto per noi Uwe Schmidt: coi panni di Atom TM (“diventava” Senor Coconut il giorno dopo) ha fatto un set techno assolutamente fantastico, tanto colto quanto trascinante, facendoci capire esattamente fino a che punto la lezione dell’Hawtin migliore sia ancora attuale: sì, se Richie oggi facesse la musica che Atom TM ha fatto in souplesse a Dancity, senza troppi fronzoli e squilli di tromba e produzioni gigantesche, sarebbe mille volte meglio di quello che è attualmente, artisticamente parlando. Ecco, Uwe Schmidt: uno dei “grandi dimenticati” per motivi anagrafici, è un eroe come dicevamo per chi ha superato i trent’anni ma poi non si è mai sbattuto per rendersi “sexy” e appetibile dal punto di vista del mercato per le generazioni successive. Non se ne cura. Per lui la musica e in generale la vita sono molto più dell’avere successo e dello strappare cachet enormi e sbocciare bottiglioni di pregio. La lecture che abbiamo fatto con lui, uno dei due #ExtraContent costruiti assieme a Molinari, è stata avvero emozionante, densissima. Quella con Manuel Göttsching è stata altrettanto bella, più “tranquilla” magari, anche se non sono mancati momenti frizzanti (tipo le stoccate tirate a tutto il giro Basic Channel, che non si era preoccupato troppo di avvertirlo al momento di “rubarne” la musica via campionamento, o le facce buffe ed astute fatte per rispondere, o non rispondere, alla domanda “Ok, ma “Sueno Latino” alla fine ti piace o no?”). In generale, anche questa cosa delle lecture è stata perfettamente rappresentativa dello spirito posato, adulto, raffinato ormai definitivamente acquisito dal festival. Siamo contenti di averne fatto parte e anzi di aver dato un contributo decisivo per realizzare il tutto.
(Un momento dell’intenso #ExtraContent Molinari con Manuel Göttsching; continua sotto)
Ci hanno raccontato grandi cose del set di Demdike Stare ma purtroppo ce li siamo persi, dobbiamo solo fare mea culpa. Molto bene l’esplosione afro-beat di Ndagga Rhythm Force, con Mark Ernestus a benedire a distanza e non dal palco, benissimo pure i redivivi A Certain Ratio che temevamo sgonfi simulacri di se stessi (ehi, è gente che ha letteralmente aperto l’Haçienda a Manchester, mlle vite fa) invece hanno offerto un live set scoppiettante e coinvolgente, bene anche Fabrizio Rat con la sua techno-per-pianoforte (meno sofisticato ma molto, molto, molto più incisivo del Tristano d’antan), bene anche quanto abbiamo sentito del dj set di Call Super, che ha avuto dei momenti un po’ “vuoti” ma poi si è ripreso dimostrandosi effettivamente un talento da seguire. Altre menzioni? Sicuramente per Palmbomen e Lamusa, incisivo ognuno a modo suo, e alla fine pollice assolutamente su anche per Gaussian Curve (il progetto con Young Marco, Jonny Nash e Gigi Masin alleati), molto gradevole e raffinato nella scrittura, un po’ scolastico nell’esecuzione.
Al di là dei singoli nomi e dei singoli set, è stata proprio la sensazione da “evento adulto” a colpire: adulto ma sorridente, adulto ma non rinchiuso in ottuse roccaforti, adulto ma aperto al mondo. In italia c’è ancora, strisciante, questa opinione per cui fino ai venti, trent’anni fai il supergiovane e balli sui tavoli, poi dai quarant’anni in su metti su famiglia e chiami i vigili quando ci sono degli schiamazzi per strada dopo le dieci e mezza di sera (…e la musica è il “peggiore” degli schiamazzi, no?). Bene: per fortuna a Foligno abbiamo visto esattamente un’altra Italia. Così come abbiamo visto che per essere appassionato di musica elettronica e/o di musiche “avanzate” (prendiamo in prestito la definizione sonariana) non devi essere per forza un esagitato che va avanti solo a forza di vodke lemon, tatuaggi, canottiere e bagni occupati; ogni tanto si finisce col dimenticarlo. E questa dimenticanza diventa il comodo alibi per le istituzioni, che hanno buon gioco a dirottare i fondi verso il solito concerto in piazza di Radio Italia o di qualche annaspante gloria sanremese. Spezziamolo, questo circolo vizioso.
Insomma, anche quest’anno, anche tornando dopo una pausa forzata, anche radunando al massimo un paio di migliaia di spettatori a sera e non invece folle sterminate a perdita d’occhio, Dancity è riuscito ad essere uno degli eventi più importanti, forti e decisivi nel nostro panorama musicale. Un’autentica eccellenza italiana.