Leon, aka Ruggero Di Gianvito, cambia tutto. Sì. Per un decennio siamo stati abituati a vederlo non solo in giro per il mondo a mietere date da headliner, ma anche e soprattutto come fedele numero due dell’armata Music On, il moloch del clubbing ibizenco (e non solo…) capitanato da Marco Carola. Un’esperienza a cui Leon è grato, ma da cui sente l’esigenza di staccarsi. Ricominciando (quasi) da zero. Ecco allora una label, FUTURA, che ha l’obiettivo di diventare anche serata a Ibiza nel 2022, oltre a presentarsi in contesti come il Fabric o l’ADE. Le persone coinvolte sono importanti: Graham Sahara come label manager, Neil Evans (direttore dell’Amnesia di Ibiza) e Diego Lepora (manager di Seb Zito) per la parte legata al management, Andrei Donine per le grafiche. E’ già pronta una serie di release per i prossimi mesi, con nomi coinvolti che non sono “…sempre i soliti”. D’altro canto Leon si sta (ri)mettendo in gioco sul serio: lo si capisce bene da questa intervista, che è probabilmente in molti passaggi l’intervista più onesta e sincera che avrete mai letto da parte di qualcuno che ha conosciuto il mainstream della minimal e della tech-house, e che grazie ad esso è diventato famoso. Del resto Leon è una persona molto concreta: quando fa qualcosa, lo fa bene, lo fa senza sconti. E lo porta avanti fino in fondo. Ascoltando comunque i consigli di chi gli sta attorno, quando è il caso.
Quindi insomma, quando hai pensato di far esordire FUTURA con una release che non fosse tua e dove tu non comparissi ti è stato detto “Oh, non fare cazzate…”.
(ride, NdI) No, dai, diciamo che la frase è stata più sfumata: “Mah, ci sembra giusto che la prima release sia una cosa tua”. Alla fine, è andata poi effettivamente così. Io avevo questa release pronta più o meno già da un anno. Del resto, durante la pandemia e lo stop forzato mi sono buttato in studio a fare tanta, tantissima musica. Ne avevo proprio bisogno. Perché la verità è che prima del Covid ormai era parecchio tempo che non avevo mai il tempo di fare nulla – ero sempre in giro a suonare. Ad ogni modo: FUTURA nasce ufficialmente, e nasce quindi con una traccia molto house, melodica, dove ad un certo punto entrano in campo dei pad che proprio ti “trasportano”. Questo il primo atto. Fin dall’inizio avevo una idea chiara in testa: doveva essere accompagnata da due remix molto diversi fra loro. Da un lato quello di Frankel & Harper, che tocca i territori della drum’n’bass (d’altro canto loro hanno quel tipo di approccio lì ed hanno già suonato in eventi importanti come Dimensions e Junction), dall’altro invece quello di Koko, che per quanto sia giovanissimo – è tipo ancora ventenne – ha già in curriculum uscite su realtà come Fuse, Locus. Di talento ne ha parecchio.
Ecco: come ti trovi in questo ruolo di “saggio”, di “padre artistico”? Te lo chiedo perché per un sacco di temo eri tu la “giovane promessa”, quello emergente… Ora è finita: ora sei tu che devi aprire la strada ad altri. Sei in quella posizione lì: hai guadagnato quel tipo di ruolo e di autorevolezza, in certi settori del clubbing.
Vero. (pausa, NdI) …vero, sì. Quando me ne sono reso conto la prima volta, in effetti sono rimasto un po’ spaventato – e forse lo spavento non è che sia scomparso del tutto (sorride, NdI). Però che dire: ormai sono quasi vent’anni che io sono dentro a questa storia qui del clubbing, della musica elettronica. La conosco. Bene. Ho un’esperienza. Ne ho talmente tanta da essere anche stufo di alcune dinamiche. Magari finirà che ne parliamo…
Togli il “magari” e trasformalo in “certamente”… Cosa credi…
(ride, NdI) Sì, immagino, tutti si aspettano una intervista con delle rivelazioni e degli sfoghi, no? Ad ogni modo, tornando a FUTURA ed al mio ruolo: ad un certo punto mi sono detto “Sì, lo voglio fare. Non sarà semplice e facile, ma lo voglio fare”. D’altro canto a me è sempre piaciuto mettermi alla prova, reinventarmi, intraprendere nuovi percorsi; e nel farlo non ho mai perso l’abitudine a guardarmi in giro in cerca di nuovi artisti, nuovi talenti, quello anzi l’ho sempre fatto anche prima. L’ho fatto ad esempio anche con Marco (Carola, NdI) per Music On, quando ci scambiavamo tracce ed opinioni per capire chi era il caso di invitare. Consigli in tal senso mi sono sempre stati chiesti infatti – e io ero felicissimo di poterli dare, perché condividere informazioni di questo tipo è sempre stata parte integrante della mia vita artistica. In più c’è da dire una cosa a chiare lettere: i giovani hanno una marcia in più.
Dici?
Assolutamente. Bisogna essere obiettivi: i giovani hanno una marcia in più, punto. E’ sempre stato così. Io posso metterci l’esperienza, la professionalità, ma come creatività i giovani hanno una marcia in più, c’è poco da fare. Quelli bravi, ovviamente. Però quello che mi ha fatto tantissimo piacere è che gli artisti che ho contattato per FUTURA che sono più giovani di me, qualcuno anche molto più giovane, tutti mi hanno detto che per loro sono stato in qualche modo una fonte d’ispirazione: e questa è una soddisfazione incredibile, credimi. Forse la più grande. Sì, davvero. Hai di fronte a te dei ragazzi che sai saranno il futuro di questa scena, e ti senti dire “Per me sei stato un esempio davvero importante”. Wow. Non ha prezzo.
Il luogo comune vuole che i giovani siano tutti presi dal digitale, dal successo veloce, dalla voglia di sfondare, che non stiano più attenti alle vere radici di questa faccenda… Ok; però poi magari anche tu e i tuoi colleghi della stessa età, quando eravate ventenni, eravate tutti rivolti al presente e al futuro, all’arrivare al più presto al successo, e delle cose passate ve ne importava il giusto.
Ti sembrerà strano, ma io fra i ventenni di oggi sto notando invece dei comportamenti davvero belli.
Tipo?
Sì, ok, i social ci sono, loro ne sono consapevoli perché ci sono proprio nati in mezzo, ma comunque quello che gli interessa prima di tutto è: il deejaying, la musica, le produzioni fatte a modo. Parliamoci chiaro, dieci anni fa non era così. Come riferimento prendiamo più o meno l’inizio di Music On, tanto per intenderci, ma è in realtà un discorso globale: quando c’è stato il boom definitivo della tech-house (che io io ho cavalcato e che mi ha portato in alto, e questo è stato un bene ed un male al tempo stesso) arrivò un’ondata di nuovi artisti, di newcomer della scena, ma questi nuovi artisti per la musica avevano molta meno cura ed attenzione di quella che ci può essere fra chi adesso invece si affaccia alla scena. Quelli di adesso hanno una consapevolezza molto molto maggiore del fatto che produrre e fare il dj significa – prima di tutto e più di tutto – concentrarsi sulla musica, non sul resto. Ti faccio un esempio molto concreto: oggi quando spiego che sto aprendo una etichetta ai ragazzi che contatto e che mi piacerebbe portare a bordo, una delle prime domande è sempre “Ma farai anche vinili, vero?”. Ogni volta che lo dicono, io dentro di me godo! Quando dieci anni fa io mi facevo largo e con me tanti altri nella scena, e parlo anche di contesti importanti come Defected, Desolat, Cocoon (contesti in cui sono finito in prima persona), questo problema proprio non ce lo si poneva. L’importante era uscire, “esserci”. Non lo so: mi pare che negli ultimi tempi si respiri qualcosa che è retrò da un lato ma al tempo stesso modernissimo, molto molto attuale. Le nuove generazioni hanno riscoperto il gusto di fare le cose in un certo modo, con più profondità. Io per il futuro sono molto ottimista.
(L’esordio di FUTURA; continua sotto)
Ti faccio una domanda cattiva però, e so che sei una persona a cui la posso fare e che mi può rispondere sinceramente: ma c’è questo ritorno al passato ed alla “profondità” perché ci credono davvero, o invece sta succedendo solo perché ora la torta è un po’ meno ricca di dieci anni fa (anche solo perché troppo affollata) e non ci sono più le stesse possibilità di “successo immediato”?
Tutt’e due? (sorride, NdI) Di una cosa però sono abbastanza convinto: dei social, se ne sta giovando molto chi ha una mentalità più underground, perché grazie ai social ha una possibilità di farsi sentire e notare che prima non avrebbe avuto mai. Oggi è più facile restare puri, restare se stessi, ed al tempo stesso non essere “invisibili” o confinati in una nicchia. Anzi: questo comporta che possono affermare con maggiore sicurezza rispetto ad un tempo “Guardate che i veri fighi, alla fine della fiera, siamo noi”. Quindi va bene gli eventi grandi, va bene i cachet molto alti, che è una dimensione a cui ad un certo punto sono appartenuto pure io; però tante volte a questi eventi grandi ci vai e non ti rimane come emozione quasi niente, se invece vai in un posto piccolo ma “autentico” la differenza la senti, la senti subito, e ti riempie il cuore. Perché è proprio quella differenza che dà senso a quello che fai. E che sarà sempre la prima scintilla di quello che è e di quello che sarà.
Che poi boh, a me pare ci sia un corto circuito ormai conclamato nell’uso della parola “underground”, visto che viene tirata in mezzo anche per eventi con che fanno cinquemila, diecimila, trentamila paganti – e tutti sappiamo che quando i numeri diventano quelli, entri nelle logiche e nelle dinamiche dell’industria dell’intrattenimento mainstream. Che infatti, non a caso, sull’elettronica negli ultimi anni ci si è buttata ormai senza remore, facendo proprio shopping.
Ottima osservazione. La verità è che “underground” è un termine che fa comodo a tutti, piace a tutti. Ovvero, piace – e tanto! – anche avere un milione di follower, cachet a cinque cifre; ma a chi fa parte di questa categoria io vorrei chiedere sempre “Alla fine di tutto questo cosa ti rimane? Cos’è che ti spinge veramente a fare quello fai?”. Perché anche quelli che prendono 50.000 euro a data stai sicuro che ad un certo punto, se possono, vanno a sentirsi Zip al Panorama Bar o in qualche posto assurdo: perché loro comunque un certo tipo di qualità e di spirito lo riconoscono, lo amano, è quello che li ha fatti iniziare, che gli ha dato la scintilla originaria. Il risultato di tutto questo? Che “underground” è diventato un termine pericolosamente cool. Un trend. Un qualcosa da sfoggiare. Diventa conveniente mettere in mezzo quell’ambiguità per cui ciò che fai è sempre e comunque “underground”, anche se suoni in contesti che sono completamente l’opposto della logica e delle dinamiche underground. Vogliamo trovare una definizione che metta d’accordo tutti? Allora facciamo che “undeground” è l’aggettivo adatto per tutto ciò che viene fatto non solo per soldi e per massimizzare il guadagno, ma per passione. Scegliamo questa definizione diplomatica.
Te lo chiedo direttamente, so che con te posso farlo: ma ad un certo punto anche tu eri caduto nell’ipocrisia dello stare nel circuito “grandi numeri”, ma sbandierarti sempre e comunque come “fieramente underground”?
Assolutamente sì. L’ho attraversata in pieno, questa cosa. Del resto, quando ho iniziato come dj e producer a livello proprio professionale, almeno per un decennio – dal 2000 al 2010 – ho suonato quasi esclusivamente in contesti underground: quello è il mio contesto di provenienza, quelle le mie radici. Poi è arrivata l’ondata di Ibiza, è arrivato Music On. Ho indossato quel vestito e, lo dico senza problemi, mi ci sono trovato benissimo: mi ha calzato bene addosso, mi ha riscaldato, mi ha dato notorietà, mi ha dato una stabilità economica prima inimmaginabile – e di conseguenza mi ha permesso anche di mettere su famiglia, che è una cosa bellissima ed incredibilmente importante. Se io fossi rimasto confinato all’underground, sarei riuscito ad avere tutto questo? Bisogna essere onesti con se stessi: probabilmente, no. Con FUTURA però sto cercando di fare non un passo indietro rispetto a tutto questo, ma proprio cinque o sei… anche perché un passo solo non basterebbe. Sono infatti perfettamente cosciente che per molti osservatori della scena io sono quello “da Ibiza”, “da grandi eventi”; ma è anche vero che chi mi conosce bene e magari da un po’ di tempo, sa che mi sono sempre comportato con professionalità e cura; e quindi, se mi imbarco in un progetto, se lo faccio seriamente, qualcosa di concreto dovrebbe venire fuori. Ma davvero, io non mi nascondo: Marco, Music On ed Ibiza mi hanno dato tantissimo. A Ibiza ci voglio tornare, ma ora voglio farlo con FUTURA. Facendo qualcosa di diverso. E’ uno dei miei obiettivi. Ibiza in fondo è come la cioccolata: la mangi, è buonissima, ti viene voglia di mangiarla sempre di più, anche se sai che se ne mangi troppa poi rischia di farti seriamente male; ed allora, se sei bravo ed un minimo coscienzioso, ti organizzi per continuare a mangiarla sì, ma con giudizio. Questo è il modo in cui io ho provato ad approcciare il mainstream – visto che nel mainstream del clubbing ad un certo punto ci sono finito dentro. Di cazzate però ne ho fatte, eh.
Sì?
Certo che sì. Che so, per farti un esempio: certe release “facili” che mi potevo anche risparmiare, ma che erano necessarie per come era costruito il meccanismo del tutto. Sai qual è stata la mia fortuna? Proprio essere stato dietro a Marco. Per due motivi: perché da un lato lui comunque piaccia o non piaccia il rispetto e l’amore di alcuni pionieri ce l’ha e ce l’avrà giustamente sempre, perché conoscono la sua storia e la sua qualità, quindi stando con lui di riflesso pure io ero investito da questo riflesso; dall’altro, visto che il mio ruolo era sempre quello di suonare prima di lui io dovevo sforzarmi di suonare sì minimal, ma facendo qualcosa di non scontato, di ricercato, qualcosa che fosse di qualità ed al tempo stesso non “bruciasse” il terreno per quello che sarebbe stato il suo set dopo, con scelte troppo facili e paracule che conquistassero il pubblico troppo presto e troppo facilmente. Questo sono sempre stato bravo a farlo, credo: ed è per questo che sono durato dieci anni lì, che sono tanti.
(Scene da un Music On: Leon in azione; continua sotto)
Quindi un tuo set cambia parecchio, se sei headliner o se sei in apertura ad un evento tipo Music On?
Il mio slot ideale è quello di chi mette i dischi dall’inizio alla fine, dall’apertura del locale fino alla sua chiusura, creando un percorso; nel momento in cui questo non è possibile, perché ci sono altri ospiti in console, le prime due ore iniziali se sei uno che veramente ama il mestiere di dj, beh, sono una sfida bellissima. Lì ti giochi tutto. Peccato che ci sia ancora chi non lo capisca. Magari per qualcuno è anche difficile, eh, perché metti che sia ormai abituato da anni a fare da headliner e lì diventa difficile riconvertirsi e tornare ad un altro ruolo, ci riescono veramente in pochi, solo quello che veramente vivono per la musica, in modo viscerale. Sai, è comunque un più facile stupire la gente nel peak time, o anche nella mezz’ora finale quando ti puoi permettere un po’ di tutto; la cosa veramente difficile è stupirla in realtà all’inizio, nelle prime due ore, senza rovinare il terreno a chi viene dopo di te. Ecco, io sono fiero di essere riuscito a fare molto bene questa cosa qua per almeno un decennio… ne sono davvero fiero.
Devi essere bravo e fantasioso, ma non devi oscurare chi arriva dopo: è una ricerca di equilibrio quasi zen.
Esattamente così. Quell’incrocio tra house ed electro o quel che è, che da un po’ va per la maggiore, ovvero quello che fanno benissimo dj come Nicolas Lutz, Francesco Del Garda, Rhadoo, Raresh nel peak time, io lo facevo in apertura e non da headliner già da un po’. Ero una scelta inevitabile: perché poi in console saliva Marco o uno dei main guest, e il livello di intensità saliva di parecchio. Ma io, appunto, riuscivo a ritagliami uno spazio musicalmente molto interessante. Ecco perché credo di essere stato sempre abbastanza rispettato.
Allora. A sentire alcuni nomi e in generale a ragionare in un certo modo, io te la butto lì: molti pensano che il regno della minimal e della tech-house abbia sancito la parte più bassa della parabola artistica della musica da club. Da persona direttamente informata dei fatti quale sei, ti chiedo: vero? Falso?
Sostanzialmente vero. Da un certo momento in poi, la tech-house e la minimal hanno impoverito la musica elettronica in generale. Sono arrivate nel momento in cui la IDM e la techno stavano scendendo decisamente, e lì è successo che tanti artisti tech-house di media fama sono invece saliti tantissimo e, per restare al top, hanno iniziato a produrre tantissimo, troppo, e quello che producevano era sempre fatto spudoratamente solo per il dancefloor – solo insomma per quei trenta secondi di rullata e “Su le mani!”. Questo ha rappresentato la morte artistica della tech-house e della minimal. In realtà di buona ce n’è ancora. Però è mancata una cosa: molti di questi artisti di cui sopra non hanno avuto il coraggio di fare un passo indietro – quello che sto provando a fare io ora – ma hanno invece continuato testardamente per la loro strada, buttandosi completamente nella banalità. E tenendo in considerazione solo i business, i soldi, il cavalcare il “momento”.
Il che tuttavia è umanamente comprensibile.
Umanamente comprensibile di sicuro. Però visto che sto in questo gioco, ti assicuro una cosa: la ruota gira. E al tempo stesso, dinamiche di questo tipo sempre ci sono state e sempre ci saranno.
Quali sono gli artisti del circuito mainstream di techno e house che trovi comunque interessanti e stimolanti? Non ti sto chiedendo “Chi sono i tuoi preferiti”, attenzione, ma chi riesce a restare significativo anche stando nella parte più “massificata” della ruota…
Ce ne sono. Per fortuna, ce ne sono. Io continuo ad essere molto legato a Marco e pure a Steve Lawler, per quanto quest’ultimo abbia una certa età. Io credo che nei prossimi anni emergeranno molto nel mainstream nomi come Dr. Rubinstein, Ben UFO, Floating Points, Shanti Celeste, ma anche Sonja Moonear o Nicolas Lutz. Punterei su di loro.
Arrivare al mainstream, al “gioco dei grandi”, e restare musicalmente significativi è una questione tutt’altro che semplice…
Sì. Non è da tutti. Sai cosa? E’ bello e fa veramente la differenza quando hai raggiunto uno status da headliner di festival, ma continui a suonare in club di riferimento, come il Berghain o il Bassiani. Dixon ad esempio è uno di questi. Anche Solomun: se ci pensi, con tutto quello che ha raggiunto potrebbe mandare affanculo tutto e tutti ma la sua data al Robert Johnson continua a farla, così come quella al Fabric. Marco ha diminuito questa cosa, Lawler ha forse proprio smesso: è un peccato. E’ bello restare fedeli a determinate situazioni. Ti ricorda meglio che la musica non è solo business.
Da un certo momento in poi, la tech-house e la minimal hanno impoverito la musica elettronica in generale. Sono arrivate nel momento in cui la IDM e la techno stavano scendendo decisamente, e lì è successo che tanti artisti tech-house di media fama sono invece saliti tantissimo e, per restare al top, hanno iniziato a produrre tantissimo, troppo, e quello che producevano era sempre fatto spudoratamente solo per il dancefloor – solo insomma per quei trenta secondi di rullata e “Su le mani!”
Hai mai avuto momenti in cui eri stufo di tutto?
Questa settimana, dici? (risate, NdI)
Guarda, ti permetto anche di allargare il recinto temporale…
Sì, sì. Tante volte. Tante volte mi sono detto “Ma basta, ma chi me lo fa fare”. Sai anche perché? Io ho sempre cercato di essere tranquillo e disponibile con tutti, mi è sempre piaciuto fare da mediatore fra i vari interessi contrapposti: qualche volta comportarsi così è stato uno sbaglio.
Ah sì? Come mai?
Perché arrivi al momento decisivo delle cose con uno stress addosso incredibile. Stress che anche ultimamente, non lo nego, è stato pesante, pure se per altri motivi: quando infatti decidi di cambiare strada, di reinventarti, di fare dei passi indietro perché pensi sia la cosa giusta da fare, sono tanti che iniziano a guardarti strano ed a trattarti con sospetto, con perplessità, lì dove invece quando prima giocavi secondo le regole del gioco era tutto un “Ma vai tranquillo, sei Leon, tanto tu spacchi sempre, non farti problemi!”… Ma poi ti rendi conto che in questa nuova strada ti senti bene, anzi, ti senti molto meglio, ti senti rinato. Ti ritrovi addosso l’entusiasmo di vent’anni fa, quando andavi a fare le prime feste in giro, ed eri semplicemente entusiasta di suonare. Ti faccio un esempio molto pratico: ultimamente mi ha capitato rarissimamente di discutere di soldi, non mi sono cioè mai impuntato su questioni che invece solo fino a poco fa mi sembravano fondamentali. Ora come ora il mio primo obiettivo è suonare e far stare bene la gente; e, lo dico senza falsa modestia, è una cosa che so fare da vent’anni. Comunque sì: ci sono stati momenti difficili. E poi c’è stato pure il Covid, che mi ha impoverito non solo come economie ma in un primo momento anche come stimoli. Grazie a FUTURA, ho ripreso di nuovo a sognare. Vada come vada, già questo è un risultato bellissimo.
Senti, non so se sono un problema o una percezione solo miei, ma mentalmente io ti ho sempre incasellato fra i dj stranieri. E questo prima ancora della residenza a Music On, eh. Quindi anche in un periodo in cui essere visto come un artista dalla dimensione internazionale era, per l’Italia, una caratteristica di pochi – e un sogno di molti.
Effettivamente sono esploso prima all’estero. Quando sono “arrivato” all’Italia, quando cioè hanno iniziato ad arrivare le prime richieste per suonare, potevo già permettermi di avere delle pretese importanti, sia come fee che come qualità del club. Questo perché ero già un nome consolidato a livello internazionale.
Esatto. E come ci sei riuscito?
Attraverso le produzioni. Io originariamente avevo un mio piccolo giro in Italia, tra slot al Cocoricò, alle Folies De Pigalle, Juice Of Juice: c’ero io, c’era Francesco Del Garda, poi c’erano i grandi come Ralf, come il compianto Claudio Coccoluto – tutte persone che mi hanno dato veramente tanto. Però sai, l’Italia di quegli anni non era come l’Italia di adesso; era un’Italia in cui c’erano sempre i soliti dieci, e lavoravano sempre e solo quelli. Prendi me e Francesco: sì, avevamo il nostro spazio, ma finiva lì, era palese che non ci fosse possibilità di crescita. Insomma, dovevo cambiare qualcosa. Dovevo svoltare. Come farlo? Risposta: con le produzioni. Che è una risposta per me innaturale, perché io nasco come dj, la mia vocazione è quella. Mi sono messo però a produrre e devo dire che mi è piaciuto anche più del previsto. Anche perché ho avuto la fortuna di uscire subito su etichette importanti come come Cocoon o Desolat, e avere sopra di sé l’ombra benevolente di gente come Sven o Dice all’epoca ti cambiava la vita. Lì hanno iniziato ad intervistarmi Dj Mag, Mixmag, Resident Advisor, è stato proprio un vortice. I miei primi EP sono andati veramente alla grande, erano suonati da tutti, anche da un Ricardo per dire. Come sono “ritornato” in Italia? Tramite Elliot, che tu conoscerai.
Certo.
Fu lui il primo a dire “Ma tu che cazzo ci fai lì solo in giro, tu hai bisogno di un manager”. E così mi sono ritrovato nella stessa scuderia di Jamie Jones, Seth Troxler, Martinez Brothers, perché lui era in fase di forte espansione. E nel mercato italiano essere parte della scuderia di Elliot era un modo perfetto per finire subito in situazioni importanti, avendo subito così un ruolo da protagonista.
La tua è stata più bravura o fortuna?
Siccome di gente solo ed unicamente fortunata ne ho conosciuta parecchia, ti posso dire: sono stato soprattutto bravo, sì. Tutto quello che ho raggiunto, l’ho raggiunto grazie al sacrificio. Ti dico anche come sono andate le cose dopo aver rotto con Elliot, perché sì, ad un certo punto ci fu una rottura perché io volevo suonare al Circoloco e lui invece continuava a dirmi “No, devi aspettare”… poi un giorno mi sono semplicemente rotto di aspettare e l’ho lasciato, restando così di nuovo senza agenzia. In Italia in quel momento di grossi c’era Luca Piccolo, con Orbeat. Gli mando un messaggio privato via Facebook con un mio mixato. Dopo una settimana, mi squilla il telefono: numero privato, non volevo manco rispondere. Però alle fine rispondo, e sento “Ciao, sono Luca Piccolo”, risposta mia “Seh, vabbé”, metto giù, pensando ad uno scherzo di qualche mio amico. Per fortuna mi richiama: “Sono io davvero. Non fare lo scemo. Senti, vieni giù a Napoli, ci sono progetti importanti, abbiamo bisogno di te”. Quando arrivai a Napoli mi svelarono in parte di che si trattava: “Vogliamo metterti dietro a Marco Carola nella residenza di una serata, stiamo cercando di fare qualcosa di veramente molto, molto, molto grosso”. Però subito dopo Luca aggiunse: “Ma sappi che te la devi giocare bene te. Io non vado da Marco ad imporre la tua presenza. Ecco perché faremo prima una data di prova”. La data era al Rex di Parigi – capisci l’importanza e il prestigio? – e prima di salire in console il tour manager di Marco mi diede una pacca sulla spalla dicendo “Stasera ti giochi tutto, vedi di suonare bene”.
Rassicurante.
Io quasi mi misi a piangere. La pressione era altissima. Marco mi venne a sentire, arrivando al club un’ora prima del suo slot – e chi lo conosce sa che questa cosa lui non la fa quasi mai. Mi ascoltò con attenzione. Prova superata. Insomma, tutto per questo per dire: sono stato fortunato ad avere delle occasioni, certo, ma poi me le sono giocate bene. Non ho insomma avuto aiuti o spintarelle in questo. E sappiamo bene che non per tutti è stato così, no?
Quanto sei cambiato, negli ultimi dieci anni? Abbiamo appena fatto una intervista di sincerità davvero tagliente: e di solito le interviste se le giocano così solo i dj che sono molto sicuri e consapevoli di sé, quelli che sono arrivati alla piena maturità. Sbaglio se dico che, in caso questa chiacchierata fosse avvenuta nel 2011 invece che nel 2021, sarebbe stato meno diretta e sincera, meno sostanziosa?
Non sbagli. Sicuramente sono cambiato, rispetto a dieci anni fa: e sai qual è stato il motivo principale? Mio figlio. La sua nascita mi ha reso un uomo. Mi sono reso conto di avere addosso una responsabilità enorme, la responsabilità più grande che uno possa avere nella sua vita. Quando fai un figlio, e sei consapevole di cosa questo comporti, ti guardi allo specchio e ti dici: “Io sono un dj. La mia professione è questa. Ok. Ora non posso fare cazzate”. Dall’arrivo di mio figlio, e ormai sono sette anni, sono stato sempre più attento a non fare più sbagli, in primis a livello umano. Così come anche dopo l’incontro con Alice e la sua bellissima figlia Sofia, che per me sono stati fondamentali per ritrovare benessere ed equilibrio. Penso di essere migliorato, come persona. Almeno un po’, dai.