Alla base di alcuni dei progetti più riusciti degli ultimi anni, come “Regardez Moi” e “Banzai” di Frah Quintale o anche come “Stanza Singola” di Franco126, c’è la firma di Ceri. Il producer di casa Undamento è una di quelle figure che negli ultimi anni è riuscita a dare forma ad un nuovo immaginario attorno alla canzone italiana. Il suo percorso solista l’ha portato ad esplorare mondi diversi e più personali, ricercando una sua dimensione personale ed inedita. In occasione dell’uscita del suo nuovo singolo, “Happysad” con Franco126, l’abbiamo raggiunto telefonicamente per parlare di questa nuova release, di solitudine e di it-pop.
Nelle foto del primo EP, “Solo”, c’erano molte immagini in montagna. Rispetto ad un immaginario cittadino molto presente nel mondo della musica urban – sia in termini di appartenenza sia di immaginario – come mai questa scelta? Qual è il tuo rapporto con natura e montagna – e in che modo entra eventualmente nella tua musica?
Essendo nato e cresciuto tra le montagne quando andai a vivere a Milano, nel 2009, l’impatto fu pazzesco. Milano a quel tempo era diversa da adesso: era molto più brutta. Prima di trasferirmi da Trento ero un amante delle metropoli poi, quando me ne sono andato e ho iniziato a viverci dentro, ho rimpianto le montagne e la natura. Tutta la mia infanzia ho fatto passeggiate in montagna con i miei genitori, era un obbligo quindi, le odiavo, mentre ora è un piacere: chi viene da quei luoghi, ce l’ha dentro il rapporto stretto con la natura. A Trento le montagne le vedi, le vedi sempre da qualsiasi parte ti giri. Quindi sicuramente questa cosa influenza il tuo modo di essere e, di conseguenza, anche il modo di fare musica.
(ecco com’era “Solo”; continua sotto)
Un’altra cosa che mi aveva colpito molto di quell’EP era proprio il titolo. Il discorso della solitudine durante questi mesi di lockdown ha acquisito un significato molto forte: che senso ha per te? E come hai vissuto/stai vivendo queste serrate?
Il primo lockdown l’ho vissuto malissimo. Avevo già fatto un anno in cui ero stato molto per i fatti miei, quando finalmente mi sono tirato fuori da quel periodo e ho sentito il bisogno di uscire sono però stato obbligato ad un nuovo isolamento. La solitudine imposta non è mai bella. Ma bisogna imparare stare da soli, anche per saper stare bene con gli altri. “Solo” era nato nel periodo proprio nel periodo autoisolamento, un momento in cui volevo stare in disparte ed anche per questo ho fatto tutto in autonomia: dalla copertina, alla produzione, fino alla voce. Le uniche cose di cui non mi sono occupato sono il mix (fatto da Gigi Barocco) e le foto (fatte da un mio amico, Karim). Esperienze come i vari lockdown minano la psiche delle persone, e i rapporti umani. In lockdown non sono stato per niente produttivo perché non avevo stimoli: ero solo, se parlavo lo facevo con chiamate o zoom. Ora invece sto lavorando di gruppo, ho fatto il nuovo singolo con Franco, prima un altro singolo con See Maw, la copertina del nuovo pezzo è stata fatta da una illustratrice inglese incredibilmente brava, eccetera. Provo a non perdere l’equilibrio, in bilico tra due opposti, come fosse una danza.
È molto interessante quello che dici: non si sente spesso parlare di progetti gestiti in completa autonomia. Se penso ai miei ascolti, l’unico artista che potenzialmente può fare tutto da solo (ma poi spesso non lo fa) è Tyler the Creator. Credi che poter gestire tutto da solo sia una marcia in più?
Quel modo di lavorare era una necessità del momento e, in un certo senso, ho fatto di necessità virtù. Detto questo, se anche sei uno super talentoso come Tyler the Creator confrontarsi con gli altri è fondamentale, più che altro per non chiuderti nei tuoi schemi. Adesso sono più interessato a delegare e a lavorare con gli altri. È semplicemente meglio: ti apre a nuove possibilità che non avevi considerato e ti forza ad uscire dalla tua zona di confort. L’esperienza del fare tutto in autonomia l’ho fatta, e sinceramente non so se la rifarò.
Tu hai prodotto “Buio di Giorno”, il pezzo che ho preferito del disco di Frah Quintale, e hai fatto un uscire un tuo singolo che si chiama “Buio Sereno”. Mi viene da chiederti se sono canzoni gemelle.
No, in realtà è stato solo un caso, “Buio Sereno” ce l’avevo da prima e Frah non lo sapeva. Poi se vedi parlano di cose diverse: “Buio Sereno” è la rappresentazione di un momento, di un colore quasi, è quello che in fotografia si chiamerebbe “magic hour”, quando non c’è più il sole ma c’è ancora bel tempo. Quello è il periodo che preferisco della giornata, soprattutto d’estate. La somiglianza dei titoli è puramente casuale.
Entrando più direttamente nella tua musica: tu sei uno di quei produttori che ha dato forma al suono dell’it-pop lavorando con Coez, Frah e Franco, poi però quando ascolto la tua produzione solista c’è poco di quel mondo. Ti ritrovi in quello che dico? E che differenza c’è nel produrre per te e nel farlo invece per gli altri?
Secondo me it-pop è una definizione comoda per definire un pubblico, o al massimo un momento storico, ma non so quanto questo discorso possa valere a livello sonoro. Se facessi ascoltare “Mainstream” di Calcutta, “Polaroid” di Carl Brave & Franco126 e “Regardez Moi” di Frah Quintale a una persona che si è svegliata oggi, non credo li assocerebbe mai allo stesso genere musicale. Per me it-pop o indie è più un movimento di pubblico: non parlerei tanto di suoni, magari poi si possono trovare alcuni personaggi che si sono infilati nella faccenda e hanno creato degli stilemi cavalcando il tutto, però faccio fatica a dare un’identità sonora univoca al tutto. La musica non si può chiudere in un genere specifico, io non lavoro così e non affronto le cose con questa impostazione mentale, se domani producessi un pezzo gabber che alle mie orecchie funziona lo porterei avanti indipendentemente da quello che abbiamo fatto fino ad ora. Personalmente, cerco di non fermarmi mai ad un pattern unico. Forse è più facile produrre per altri. Quando stai lavorando sul progetto di un artista hai uno scambio di vedute e, dialogando, arrivi prima a definire la direzione da prendere mentre da solo invece rischi di perderti e di girare a vuoto o seguire false piste, rimaneggiando cose che magari sono già a posto così o, viceversa, non lavori abbastanza su progetti che invece hanno bisogno di essere approfonditi. Quello è più complesso. Facendo tutto in autonomia ci ho messo molto per esempio a capire la cose che volevo fare davvero; è la sensazione di trovarsi di fronte ad un foglio bianco da riempire. Ecco perché sono anche così lento a far uscire le mie cose, mi servirebbe un produttore, che non è solo quello che fa i beat ma è anche un “facilitatore”, uno che ti toglie delle paranoie e che semplifica il lavoro. Noi abbiamo figure del genere all’interno dell’etichetta, per fortuna, altrimenti le mie cose sarebbero ancora in lavorazione: “Bimba Mia” ci ho messo due anni a terminarla. Questo non vuol dire che lavorare per altri sia facile, eh, sia chiaro.
Quando produci hai una linea guida? Dei riferimenti specifici che ti porti dietro?
Sì e no, i miei riferimento musicali sono parecchi e, con il tempo e la musica che ascolto, variano. Quando produco però cerco di non limitarmi. Difficilmente guardo in anticipo a qualcosa di specifico; spesso accade che mentre produco il pezzo “chiami” una strada e io cerco di seguirla. Non parto con un’idea precisa di cosa andrò a creare, inizio e non so dove finisco. Se ti devo dire però una cosa, a me piace il suono sporco, quindi cerco sempre di non avere mai pezzi super puliti. Però questo non esclude che, nel caso ci fosse bisogno, io possa fare un brano che suona cristallino.
Attualmente ti senti più un produttore o un “cantante”?
Adesso senza dubbio mi sento più un produttore, è la cosa che faccio tutti i giorni e che sento più vicina, ma è fondamentale per me mantenere aperte entrambe le strade. Non voglio rimanere fermo: quindi ho bisogno di incontrare altre persone e cercare nuovi stimoli che poi ti ricaricano per le tue cose soliste. Al contrario, quando stai da solo raccogli energie e spunti per poi lavorare con altri. È sempre una questione di bilanciamenti, la danza di cui parlavamo prima, che per me è la base di tutto.
Se penso alle declinazioni della tristezza da un punto di vista musicale nell’ultimo periodo, penso a due cose (per quelli che sono i miei ascolti): da una parte mi viene in mente il filone autodistruttivo dell’emo-trap, dall’altra una musica quasi contemplativa alla James Blake. Mi chiedo quindi per te cosa significa essere “Happysad”?
La musica che mi piace di più è quella malinconica – che è un modo più bello per dire “Happysad”. Una cosa solo triste è banale, così come una cosa solo allegra. I contrasti sono la base di ciò che mi piace: e quando riesci a trovare un bilanciamento tra tutto, allora sei nella direzione giusta.
(“Happysad”; continua sotto)
La grafica del nuovo singolo mi sembra una bella evoluzione rispetto al tuo solito stile. Me ne parleresti?
Io vedo molto la musica attraverso colori e forme. Per me questo brano era rappresentato da quei colori e da quella forma. La cover, come ti dicevo, è stata fatta da una inglese illustratrice bravissima che si chiama Ella Webb; la seguivo da un sacco di tempo, e ci volevo collaborare da parecchio. Alla fine ho deciso di scriverle e abbiamo iniziato a lavorare assieme. Il cambio a livello stilistico è stato dettato proprio dalla sua presenza: stavo cercando qualcuno che potesse rappresentare il mio immaginario nel modo migliore, e mi sono trovato molto nello stile e nei riferimenti di Ella.
Nel 2017 avevi ripreso “Figli delle Stelle”, e con il nuovo singolo citi “Attenti al Lupo” di Lucio Dalla: che senso ha per te attingere dalla tradizione Italiana? È una scelta consapevole quella di prendere da questo patrimonio musicale?
Consapevole fino ad un certo punto. “Figli delle Stelle” era venuta fuori per gioco con Giordano (Tatum Rush, NdI), per divertici, è stato un esperimento che abbiamo fatto uscire. Quello che invece faccio ora è un mix: la tradizione italiana, inserita in un contesto più elettronico. Non mi sono messo a tavolino a pensare “Ok adesso faccio questo”. È nata in modo spontaneo perché è nelle mie corde, è la musica che ascoltavano i miei genitori che ho assimilato. Questo pezzo è stato fatto in modo molto spontaneo, avevo la strumentale che chiamava le melodie di “Attenti al Lupo”, però l’avevo rielaborata aggiungendoci una batteria più contemporanea. Da lì la necessità di appoggiarci sopra un cantato molto italiano che andasse a contrasto. Franco126 in questo senso era perfetto; poi ho la fortuna di lavorarci assieme, quindi è stato automatico proporglielo.
Prossimi progetti in vista?
Sono al lavoro sul secondo lato del disco di Frah Quintale, e al nuovo disco di Franco126. Tra l’altro li sto seguendo in contemporanea ed è abbastanza provante, perché ho la necessità di dividermi tra un mondo e un altro. In più lavoro sulle mie cose, quindi sono molto impegnato.
Foto di Karim Andreotti