Insieme a Giorgio Moroder e Nile Rodgers è icona e simbolo vivente dei “favolosi anni ’70” della disco, e non a caso il suo nome è tornato d’attualità allo stesso modo, in questi anni che vedono la riscoperta sempre più profonda di quello stile e di quell’era. All’indomani dell’uscita della compilation celebrativa “The Best Of Cerrone Productions” e a un anno dall’interessante intervista rilasciata a Soundwall, il 63enne Marc Cerrone pubblica un EP che testimonia ancora una volta della sua virtuosità tecnica in quanto batterista, ma soprattutto della sua lucidità e dell’attualità sonora di uno stile la cui influenza è stata più profonda di quanto non si ritenga comunemente. Oltre ai paladini della nu-disco, c’è tutta una generazione di musicisti dance francesi (un paio di decenni fa andava di moda catalogarli sotto l’etichetta “french touch”) che sono più o meno esplicitamente debitori all’influenza del batterista italo-francese e all’eco suscitata dalle sue produzioni. Inoltre Cerrone è colui che ha perfezionato il concetto di “cassa in quattro”: è grazie a lui che, sin dal debutto solista con “Love In C Minor”, la kick drum è salita in primo piano in un design sonoro che si rivelò fin da subito assolutamente irresistibile sul dancefloor.
Caratteristiche che si applicano alla perfezione alle collaborazioni messe in pista in questo “Afro EP”, che esce il 12 febbraio 2016 per la Because.
Ad aprire la scaletta, il groove morbido ma dinamico di “2nd Chance”, che a una chitarra wah-wah reminescente dell’Isaac Hayes di “Theme From Shaft” e ad altre rifiniture anni ’70 (nella versione “extended” appare un flauto deliziosamente vintage, oltre a quegli archi tipicamente “da Cerrone”…) aggiunge le percussioni di Tony Allen, batterista e direttore musicale degli Africa 70 di Fela Kuti, e più di recente collaboratore di artisti come Damon Albarn, Air e Sebastien Tellier.
Insomma un’altra leggenda vivente, esattamente come Manu Dibango. E qui la storia si fa ancor più avvincente: nel 1973 il sassofonista e vibrafonista camerunese aveva conquistato le classifiche internazionali con l’irresistibile prototipo afrofunk “Soul Makossa“, pubblicato nell’anno precedente ma divenuto un hit a sorpresa grazie alla reazione a catena scatenata da dj come il newyorkese David Mancuso, che ne farà un tormentone dei suoi party al Loft.
Un paio d’anni dopo, i Kongas -in cui un giovanissimo Cerrone suona la batteria- pubblicano un travolgente brano intitolato “Kongas Fun”, evidentemente ispirato allo stile del musicista africano.
Il brano, campionato da Todd Terry e poi divenuto un hit da club nel remix dei Masters At Work ma senza accreditarne la fonte (l’intera vicenda è ricostruita qui, porterà Cerrone a una collaborazione con Louie Vega intotolata “Love & Dance Ritual” che a sua volta ha ispirato questa “Funk Makossa”.
Molto interessanti anche i due remix che completano, insieme all’inedito in proprio “Body Talk”, la scaletta dell’EP: Mind Enterprises (ovvero Andrea Tirone, torinese a Londra ed ex-componente dei Did, con un album in uscita in questi giorni) aggiunge rifiniture sintetiche a “2nd Chance” senza stravolgerne l’impianto, mentre Todd Edwards si occupa di “Funk Makossa” giocando di dub vocali su una base house tipicamente sofisticata.
La carriera di Cerrone, che conoscerà le sue massime fortune commerciali nella seconda metà degli anni ’70, comincia all’inizio di quel decennio: ecco dieci dei suoi momenti più significativi.
[title subtitle=”Kongas “Anikana-o” (1973)”][/title]
Marc Cerrone muove i primi passi inizia come batterista dei Kongas, band che lascerà dopo quattro anni, il tempo di un paio d’album e dei discreti riscontri ottenuti da questo brano (fra gli autori, il futuro collaboratore Alec R. Costandinos e un certo Piero Cassano…vedi Matia Bazar), che nel 1978 fu oggetto di un più esteso re-edit ad opera del leggendario Tom Moulton. “Anikana-o” diverrà un classico delle serate “afro”, al pari della loro cover di “Gimme Some Lovin'” dello Spencer Davis Group.
[title subtitle=”Love In C Minor (1976)”][/title]
E’ il primo disco firmato semplicemente come Cerrone: “Love In C Minor” è la traccia che intitola un LP che farà epoca per vari motivi, oltre che per la prima di una serie di copertine “osé”. Intanto -sulla scia del “Love To Love You Baby” pubblicato da Donna Summer alcuni mesi prima- è un album il cui intero lato A è occupato da un brano-suite di sedici minuti circa, in cui le elaborate orchestrazioni sottolineavano l’estro compositivo dei due. E poi Cerrone inaugura in quest’occasione, da pioniere dell’indipendenza discografica, la Malligator, sua personale etichetta che darà occasionale spazio ad artisti da lui prodotti (Revelacion, Don Ray e gli stessi Kongas) ma sarà soprattutto il marchio di tutta la sua discografia solista.
[title subtitle=”Cerrone’s Paradise (1977)”][/title]”
Dopo il botto nelle classifiche di mezzo mondo (Italia inclusa), il bis non si fa attendere, e ancora una volta la title-track occupa un intero lato del nuovo LP, con un andamento più funky -suona tuttora contagiosa la bassline- ma senza rinunciare all’elemento melodico e agli svolazzi d’archi.
[title subtitle=”Supernature (1973)”][/title]
Passano pochi mesi, e il batterista-producer estrae dal proverbiale cilindro quello che diverrà il suo capolavoro universalmente riconosciuto, una sorta di concept album che in un futuro distopico immaginava la ribellione di creature mutanti, ideate da scienziati per combattere la carestia, contro gli esseri umani.
I synth che appaiono in “Supernature” suggeriscono l’influenza tratta dal Moroder elettronico di quei mesi (“I Feel Love” di Donna Summer usciva nell’estate 1977 e qui eravamo appena in autunno…) ma l’originale ispirazione e le evoluzioni attraversate dal brano nei suoi dieci minuti ne faranno un vero e proprio classico, riconosciuto come tale dai maestri della techno e house d’Oltreoceano, da Kevin Saunderson in poi.
Curiosità: Lene Lovich, futura star new wave, sarebbe l’autrice (non accreditata) del testo.
[title subtitle=”Give Me Love (1977)”][/title]
Un altro fra i brani di punta di “Supernature”, sara l’ennesimo hit anche come singolo, e riprende i temi melodici dei precedenti lavori, con un intrigante botta-e-risposta fra archi e basso.
[title subtitle=”Je Suis Music (1978)”][/title]
Da “Cerrone IV – The Golden Touch” (la numerazione romana progressiva avrebbe accompagnato anche i suoi cinque successivi album), un altro classico per gli anni a venire (recentemente riproposto in un travolgente remix anche da Armand Van Helden) con un testo “conscious” che nel ritornello recita “We all feel the pain, is it necessary? / When we feel the pain, better stick together / Music is the way to relieve the pressure / Music on the way, do you get the message?”
[title subtitle=”Rocket In The Pocket (1978)”][/title]
Ancora da “The Golden Touch”, un esempio magistrale di come Cerrone in quegli anni sapeva giostrarsi fra disco, funk, afro e persino qualche accento rock.
[title subtitle=”Look For Love (1978)”][/title]
Un altro classico disco dal gusto molto americano, in cui Cerrone non manca di inserire un buon minuto di assolo di batteria.
[title subtitle=”You Are The One (1980)”][/title]
Da “Cerrone VII – You Are The One”, in cui appare alla voce Jocelyn Brown, allora voce di innumerevoli produzioni Salsoul oltre che per Chic, Change, Musique. Negli anni ’90 verrà riscoperta da Masters At Work, Todd Terry e Incognito.
[title subtitle=”Freak Connection (1983)”][/title]
Con l’album dell’83 “Where Are You Now?”, il francese cita l’italo-disco allora particolarmente in voga. Ad assisterlo, l’inglese Ian Levine, allora produttore di una star hi-nrg come Miquel Brown (“So Many Men, So Little Time”) e qualche anno dopo al lavoro con Pet Shop Boys, Bronski Beat e…Take That!