Ok, ok, il titolo è fatto un po’ per cazzeggio, immaginatevelo recitato sulla cantilena de “Che ce frega der cileno, noi c’abbiamo Tottigo’…”: è quel vintage curvaiolo che non muore mai. Ma tolta la parentesi del divertentismo calciaiolo, c’è davvero un dato di fatto da sottolineare: Indian Wells ha raggiunto un livello qualitativo semplicemente eccezionale. E no, non stiamo spingendo un “eroe locale” o un amico de noantri, non stiamo provando a magnificare il prodotto nazionale. E’ che molto semplicemente la maturità e il controllo a cui Pietro Iannuzzi è arrivato parla semplicemente di una cosa: di vertice assoluto. Difficile fare meglio di così. Col risultato che, davvero, tirare in ballo Jon Hopkins – e dire che Indian Wells può sostituirlo, o anche solo semplicemente affiancarlo – non è una forzatura giornalistica per arare qualche clic in più nella nicchia col titolo ad effetto, ma una asciutta constatazione.
Un potenziale difetto, questo suo nuovo “No One Really Listen To Oscillators”, ce l’ha: il fatto che le reference sono abbastanza ovvie e sì, sono un po’ le “solite”. Hopkins appunto, e non solo. Se nei dischi precedenti magari ti scappava da pensare più spesso un “Ehi, sembra un po’ Gold Panda”, qui invece associ subito molti passaggi ai Radiohead (non tutti – ora ci arriviamo) così come ad Apparat (nella sua fase “Orchestra Of Bubbles”, soprattutto), oltre che al già citatissimo Hopkins. La tentazione sarebbe di dire: bella paraculata, grazie al cazzo – sono i riferimenti più ovvi e furbi da tirare in campo in questo momento, se vuoi fare bella figura (…ah no, manca Four Tet: ma la strada intrapresa da Indian Wells si è consolidata come più geometrica ed imponente, rispetto alle miniature in cui spesso di diletta Kieran Hebden).
Te lo appunti, questo dubbio, in sede di riascolto su riascolto per tirare fuori la recensione finale. Te lo appunti; ma poi vieni fuori con una convinzione molto semplice: non è Indian Wells che copia, è che un certo tipo di musica elettronica – evoluta, debitrice di certe lune cosmiche, spaziali, kraut e prog ma al tempo stesso sintonizzata sul presente – ha dei passaggi obbligati. E se questi passaggi sono fatti bene, beh, portano a percorrere sentieri simili, con panorami simili, accomunabili. Insomma – Indian Wells ricorda Radiohead, Apparat e Jon Hopkins semplicemente perché ormai fa le cose in maniera così appropriata che sì, “sembra” uno di loro (…dicevamo di una postilla dei Radiohead: lui ruota soprattutto attorno a quelli di “Amnesiac”, più che ancora che “Kid A” o altro). Questa è la verità a cui approdi, dopo vari ascolti in cui cerchi il pelo nell’uovo. O il derivativo nel bello. Non c’è frode. Non c’è inganno. Non c’è astuto parassitismo creativo.
…perché davvero, con che coraggio si può sminuire un gioiello come “Against Numbers” dicendo che è troppo hopkinsiano (con una spolverata di Bodzin, va’, esageriamo)? Non puoi: perché il lavoro di “espansione” del pezzo nella parte pre-finale, ma anche il modo in cui è trattato l’hi hat in levare che entra a metà è, semplicemente, sublime; ed è solo perché sei settato nella modalità “Ora gli rompo il cazzo” che puoi avere qualcosa di ridire sull’ingresso in coda di una batteria alla Dj Shadow di “Endtroducing”, bella idea sì ma nel risultato reale un po’ ingombrante, ad increspare una traccia che invece di suo è perfezione&classe vera. Così come perfezione&classe vera, senza increspature finali, sono poi “Four Walls” (anzi, qui la batteria che entra è perfetta, è superlativa) oppure “Habitat”, ma ti sentiresti colpevole a non citare anche “Calabrian Woods” (dei Goblin trascinati nel nuovo millennio e fatti soggiacere alle regole di un dancefloor colto e sofisticato) oppure la title track.
(continua sotto)
Ecco, il titolo dell’album è importante. E’ la classica ironia self-deprecating di Iannuzzi, ma in realtà è anche una verità reale: tolte appunto le bodzinate che chissà per quale motivo (…anzi, lo sappiamo: il motivo sono i Tale Of Us) paiono diventate clamorosamente popolari, c’è veramente poca attenzione per la potenza espressiva di un synth trattato in maniera analogica (poi che sia realmente analogico o un plug-in è una discussione che può infiammare più i feticisti che gli ascoltatori normali), riprendendo cioè un po’ di lezioni cosmiche e krautiane anni ’70 ma riportandole, appunto, nel presente. “No One Really Listens To Oscillators” è un atto d’amore verso una musica elettronica che sappia (tornare a…?) guardare verso il futuro ed al tempo stesso pure verso il grandioso, senza cioè rifugiarsi nel piccolo cabotaggio, nel loop droghereccio, o nella miniatura indie-hipster.
Non a caso a seguire questa via, Bodzin a parte, lo ha fatto un autentico outsider della scena come Jon Hopkins, uno che nasce da una preparazione musicale e non da un business plan per farlo diventare in cinque, sei anni un resident ad Ibiza con billboard di venti metri per dieci. Ora: dubitiamo che Iannuzzi potrà mai raggiungere i livelli di popolarità ed esposizione di Jon però, ecco, in tutta sincerità – li meriterebbe. Con un disco come questo, li meriterebbe. Ascoltate per credere (e un signore di nome Max Cooper ci crede, visto che ha voluto il tutto sulla sua label). E a tal proposito, ultima notazione: va benissimo ascoltarlo anche sulle “solite” piattaforme, ma nel momento in cui lo abbiamo potuto ascoltare in alta qualità grazie a Qobuz – vedi link qui sotto – davvero la differenza l’abbiamo sentita. La musica acquista ancora più dimensione, ancora più spazio, ancora più profondità.
ASCOLTA E SCARICA IN ALTA QUALITÀ CON QOBUZ “NO ONE REALLY LISTENS TO OSCILLATORS”