La domanda è: fino a quando durerà questa allucinazione collettiva su Kanye West? La risposta, dopo “VULTURES 1”: beh, forse ancora non tanto. E questo non perché sia un bruttissimo album, non perché sia un contenitore vuoto di idee: no. Non lo è. Le idee ci sono, la personalità anche, un tocco particolare e personale pure. Cosa c’è che non va, quindi?
…c’è che francamente sono anni che Kanye West è drammaticamente sopravvalutato per motivi non strettamente musicali: sarà banale dirlo, ma evidentemente non è stato detto (e capito) ancora abbastanza. Aver fatto alcuni dischi solidi ed importanti (“College Dropout” su tutti, e diciamo in generale quasi tutto quello che c’è stato fino a “My Beatiful Dark Twisted Fantasy”) gli ha fatto prendere l’onda giusta. Perfetto. Onda che però si è cristallizzata, diventando marmo inscalfibile e continua esposizione mediatica, entrando nella grande gara del gossip mainstream globale grazie al matrimonio con Kim Kardashian. I matrimoni tra famosi, c’avete fatto caso, sono uno di quei rari casi in cui la somma è maggiore del totale: basti pensare ai Beckham, giusto per dare un altro esempio globale, con un calciatore medio-bravo e una cantante pop medio-inutile che diventano invece dei semidei in terra nei rispettivi campi.
Quanto questo sia sensato o meno, non ci interessa nemmeno discuterlo, il discorso sull’irrazionalità dei processi capitalisti in campo culturale è lungo e complesso; ciò che conta è il dato di fatto che quando entri in queste dinamiche, ad un certo punto qualsiasi cosa tu faccia viene attenzionata (e, inizialmente, magnificata…) dal pubblico più variegato e vasto possibile, anche quello che di musica ne consuma poca e/o in maniera distratta. Cosa che ti porta ad avere dei pesi numerici giganteschi. E una caratteristica dei pubblici e delle sfere invece più appassionate e specializzate, nel nuovo millennio, è di essere improvvisamente e perversamente affascinati dai meccanismi pop e dall’aura della fama, come mai prima. Boh: magari una reazione agli steccati anni ’90 e ’80 (…toccherà rimpiangerli, dopo averli combattuti a lungo? Chi l’avrebbe mai detto).
Risultato? Iniziando a fare dischi via via sempre peggiori, Kanye ha ricevuto sempre più attenzioni. Attenzioni ai limiti del feticismo e dell’isteria. Roba che “Kanye non si discute, si ama” (e in tal senso è filologicamente perfetto che Kanye si sia innamorato delle tifoserie da stadio italiane, fino ad arrivare a campionarle per questo album). E il fatto poi che in lui ci fossero crescenti segni di instabilità è stato, diciamolo chiaramente, ulteriore detonatore di questa morbosa ed onnipresente attenzione da parte del pubblico, generalista o specializzato che fosse: perché si sa, il personaggio pubblico dalla salute mentale e/o fisica borderline attira sempre parecchio. Un meccanismo vecchio come il cucco questo, non una novità recente, utilizzato infatti cinicamente dall’industria dello spettacolo già dal secondo dopoguerra, vedi i tanti ventisettenni fatti schiattare impietosamente sotto gli occhi di tutti (per poi piangere lacrime di coccodrillo).
A rendere il tutto più complicato, il fatto che Kanye non facesse dei dischi standard o preconfezionati. Proprio per i loro difetti, davano sempre l’impressione di poter essere interessanti, particolari, di rottura, coraggiosi; e per il modo in cui erano costruiti musicalmente, tramite le beat farm in cui vengono inscatolati decine di produttori da tutto il mondo per spremerne fuori frammenti interessanti poi da assemblare ad cazzum, pardon, ad Kanyem, parevano sempre non dei compitini ma dei gesti di multiforme creatività senza compromessi.
Poi oh, se vogliamo continuare a dare del genio a Kanye facciamo pure, fate pure; ma qui ci si prende la soddisfazione di scrivere nero su bianco “No, cazzo, per noi è tutto una allucinazione collettiva, da almeno un decennio”
Però dopo dieci anni, anche basta. Per favore. Qualcuno deve pur dire che il Kanye dell’ultimo decennio circa è un rapper non particolarmente bravo (anzi, ogni tanto proprio scarso forte); qualcuno deve pur dire che i vari elementi sonori dei suoi ultimi album, pure se ogni interessanti singolarmente, sono sempre assemblati alla cazzo di cane; qualcuno deve pur dire che anche se le tracce di Kanye hanno il merito di non essere delle paraculate che inseguono supinamente il suono del momento ma cercano invece soluzioni particolari, e va bene, lo fanno però in modo così approssimativo da diventare solo e soltanto un gesto di presunzione. Cioè, specifichiamo: ci provasse qualcuno che non ha un nome sarebbe un gesto di presunzione, sarebbe un passo pateticamente più lungo della gamba; nel momento in cui tuttavia ci prova Kanye, allora ecco che (segue diapositiva animata):
“VULTURES 1”, appunto, non è un disco orribile. Cioè, si fa anche ascoltare. Ha idee carine, infatti; ha una capacità di creare spazi ed atmosfere sopra la media, dei dischi pop/urban contemporanei; ma nella sua esecuzione finale è fastidiosamente legnoso, goffo, scarno ed approssimativo. Come fosse un grande demo, ancora tutto da lavorare. Possibile che si abbia così tanta paura a dirlo? Possibile che a Kanye si perdoni quello che ad altri non si perdona? Possibile che nel suo caso basti l’”idea” – o l’attenzione mediatica, generata anche dalle sue mattane – per elevarlo ad autore eccezionale, quando invece nel 99% dei casi (ed è una approssimazione per difetto) dagli altri musicisti di questa terra si pretende invece che le cose siano fatte bene per davvero, o comunque con un minimo standard qualitativo? Sono anni che il signor West ci rifila dei provini carucci e un po’ caotici spacciati per dischi fatti e finiti, e nessuno – o quasi – che gli dica “Bro, hai anche rotto un po’ il cazzo, sai?”. Al massimo qualche mezza critica imbarazzata, per poi dire che comunque resta uno degli artisti musicalmente più rilevanti del pianeta.
La soluzione migliore sarebbe ignorarlo, non dargli troppo peso. Come del resto si fa coi tantissimi dischi che escono quotidianamente che hanno anche delle idee carine ma mancano di quel quid in più, un quid che – come tutti gli addetti al settore sanno – viene dato essenzialmente dal molto lavoro invisibile dietro le quinte di rilavorazione, di limatura, di mixaggio. Insomma: sporcarsi le mani e spendere sudore, non solo galleggiare sull’onda dell’ego (personale) e dell’ecco (mediatica), e pensare che basti l’imposizione delle proprie mani o delle proprie intuizioni per creare il CAPOLAVORO, caps intenzionali.
In un mondo normale, Kanye West andrebbe semi-ignorato, come succede nei progetti di nicchia riusciti a metà. Nel mondo attuale, che si basa sulla forza del denaro e della capacità di generare engagement sui media e sui social, Kanye è una madonna pellegrina
“VULTURES 1”, nonostante le persone di talento che si annidano nei credits e di cui ogni tanto si riconosce pure il tocco (vedi James Blake in “Talking”) e nonostante un Ty Dolla $ign che prova encomiabilmente a tappare i (tanti!) buchi che crea l’attuale imbarazzante scarsitudine al rap di Kanye (…e nemmeno entriamo nello specifico di quanto siano sconclusionate alcune frasi ed invettive), ecco, dicevamo, “VULTURES 1” nonostante tutto questo sembra il disco di un gruppo hip hop svedese o ungherese o lituano un po’ presuntuoso e nel concreto irrilevante. Uno di quelli che vuole fare un po’ rap un po’ sperimentazione, sulla base più di teorizzazioni asettiche e altezzose sensazioni “di pancia” che di duro lavoro in studio e dedizione autentica alla musica. Qualcuno insomma che si sente più intelligente e bravo di (quasi) tutti gli altri, senza in realtà esserlo.
Sarà anche banale dirlo, sarà anche prevedibile, sarà anche da manualetto dell’hater yeezusiano, per carità; ma se ‘sto “VULTURES” fosse stato fatto uscire da qualcuno che non fosse Kanye, sarebbe stato accolto con un’alzata di spalle da quasi tutti gli esseri viventi dell’orbe terracqueo, arruolando tra i sostenitori solo qualche fissato dell’hip hop più “bianco”, cervellotico ed irregolare che si nasconde magari dietro la foglia di fico della barre – belle, per carità – di Freddie Gibbs in “Back To Me”, come a dire “Eh ma vedi, c’è del vero hip hop qui, quello più autentico e coinvolgente”, o di qualche citazione nostalgista ben assestata.
Ma proprio “Back To Me”, guarda un po’, è una cartina di tornasole perfetta di questo disco: c’è in esso una citazione più o meno nascosta di “Runnin’” dei Pharcyde, e tanto quanto l’originale è un affusolato e sensuale lavoro di genio (nella base di Dilla, nel rappato dei quattro californiani) altrettanto la versione kanyana è di una rigidità quasi dilettantesca che, alla fine, comunica un decimo di quello che vorrebbe (e dovrebbe) comunicare. Per non parlare di “Do It” (che sembra una trap fatta da un tredicenne dai ed ascolti pop), o “Carnival” (che se l’avessero incisa gli Scooter negli anni ’90 saremmo ancora qua a percularli: una “Hyper Hyper” loffia sfornata svogliatamente durante un pomeriggio poco ispirato in studio).
Poi oh, se vogliamo continuare a dare del genio a Kanye facciamo pure, fate pure; ma qui ci si prende la soddisfazione di scrivere nero su bianco “No, cazzo, per noi è tutto una allucinazione collettiva, da almeno un decennio”. Una allucinazione collettiva che nasce dalla forza inerziale della fama, per giunta di una fama twisted come la sua (quel tipo di fama che appunto rende parecchio, nel morboso mercato globale dell’attenzione). Dire che Kanye è una persona senza idee, senza stile e senza originalità è magari disonesto, è magari eccessivo; ma altrettanto disonesto è non evidenziarne con forza i difetti ed i limiti, tenendolo invece sulla cresta dell’onda delle rilevanza essenzialmente per puro tornaconto personale e/o fame di fama e/o per la voglia di “giocare” comunque con un personaggio pubblico così irregolare, così glamouroso e così sul filo del rasoio, poi oh, se si schianta cazzi suoi, come Amy, come Jimi, come Janis.
In un mondo normale Kanye West andrebbe semi-ignorato, come succede nei progetti di nicchia riusciti a metà o meno di metà, quelli armati più di presunzione che di bravura. Nel mondo attuale invece, che si basa sulla forza del denaro e della capacità di generare engagement sui media e sui social, Kanye è una madonna pellegrina. Anche perché ti garantisce sempre attenzione se ne parli, se ci entri in contatto, se ne sfiori l’aura.
Bella merda. E ci stiamo cascando anche noi con questa recensione, eh, lo sappiamo: di Kanye ne stiamo giustappunto parlando, e sappiamo che saranno righe discretamente lette proprio perché di lui si parla, non di DayKoda o Surgeon (gente in questo momento eoni più brava ed accurata di lui, nel fare musica, e citiamo due nomi a caso fra i nostri dischi dell’anno 2023). Tant’è che eravamo molto indecisi se scriverla, ‘sta recensione/invettiva su “VULTURES” e su Kanye.
Però ecco: almeno la soddisfazione di dare un parere senza filtri su un disco di cui quasi tutti diranno “Hai dei limiti, ma anche diversi lampi di genio” quello sì, quella ce la prendiamo. Visto che secondo noi il giudizio corretto per “VULTURES 1” sarebbe invece: “Nonostante lampi interessanti, questo lavoro – come quelli che l’hanno preceduto – ha dei limiti difficili da mandare giù. Limiti che lo rendono complessivamente una release trascurabile. Passiamo oltre”.
Ah, post scriptum: non sappiamo se sia un problema di simpatia verso determinate piattaforme ed antipatia verso altre (o qualche accordo commerciale), visto che inizialmente “VULTURES” è uscito solo su Apple e sulla piattaforma personale di Kanye: ma su Spotify il disco suona veramente male, male, male, male. Come se il mixaggio fosse stato fatto da Gigi & Andrea mentre tentavano di vendere Junior ad Oronzo Canà ed alla sua Longoborda.