A volte è solo una questione di definizioni. E le definizioni, come propugnano i detrattori della critica musicale in giro per il mondo, sono la cosa meno importante. Opinione legittima, su cui possiamo anche essere d’accordo. Solo che dietro le definizioni, dietro i ‘tag’, ci sta la musica e uno spirito comune che crea connessioni forti con gli ascoltatori di un genere invece che di un altro. E così accade che, quando i termini vengono usati alla leggera, magari unendo capre e cavoli sotto il contenitore-cappello che fa comodo in quel momento, qualcuno si incazza. Come ha fatto Mixmag l’anno scorso, sbottato improvvisamente con un “smettetela di chiamarla deep house!” (le parole sono importanti!), dopo che quel termine è stato usato e abusato un po’ troppo negli ultimi anni. E beh, hanno ragione anche loro. Perché se il sacro web scopre di andar matto per la deep house solo dopo il successo dei Disclosure, la pelle d’oca viene un po’ anche a noi e iniziamo a chiederci dove esattamente le tracce della vera deep house si sono perse per strada. Dico, ve lo ricordate Ce Ce Rogers? Chez Damier & Ron Trent? Il sempre sia lodato Frankie Knuckles?
No, non è un discorso nostalgico. La domanda resta perfettamente legittima anche chiamando in causa i nomi e le produzioni recenti che sanno ancora ben interpretare il vero spirito deep house. Come l’Axel Boman di “Purple Drank” (che per inciso, resta uno dei pezzi deep più belli di sempre, anno 2010, altro che nostalgia). Come il sempreverde Robert Owens, che a parte quanto fatto nel periodo d’oro della classic house, negli anni 2000 è diventato un vero e proprio faro della vecchia guardia che mantiene alto il livello della deep moderna. Come l’onda al femminile delle varie Steffi, Deniz Kurtel, Maya Jane Coles. Perché la deep house ha un contesto ben preciso. Parla all’anima. Comunica a livello emotivo. Se non ha soul, non è deep house. Se non ti si avvolge intorno al cuore come un velluto caldo e sensuale, non è deep house. È un’altra cosa. E capita che la maggior parte dei pezzi diventati “deep house anthems” dei tempi recenti, deep house non lo sono. Noi non vorremmo darvi una delusione, ma “Jack” di Breach, come dovrebbe lasciarvi intuire lo stesso titolo, non è deep house.
“Need U” di Duke Dumont non è deep house. “My Intention Is War” dei Disclosure, che ormai sembra essere diventata la capostipite della nuova onda deep house… beh, no, sorry, non è deep house. Sono tutti pezzi che rappresentano al meglio lo spirito house dei nostri tempi, così bravi a trovare la combinazione perfetta di tutte le sfumature che vanno di moda oggi. E andrebbero collezionati come simboli del miglior profilo fancy della house recente, il genere che più di tutti ha saputo diventare pop con eleganza, agganciando il pubblico più ampio possibile. Ma li chiamano deep house solo perché, per pura sfortuna, la moda adesso è definirsi in questo modo. L’ha sancito Beatport, ufficializzando il fatto che negli ultimi due anni la deep house è il genere top-selling, scavalcando electro, techno e trance. Roba mai successa prima. Roba da far drizzare le antenne a tutti. Compresi quelli che pensano subito in termini di successo e vendite. Compreso Steve Aoki, che sai che c’è? Si mette a fare deep house anche lui. E compresi tutti quelli che, visto che è moda, tirano fuori valanghe di mix col tag deep house in bella vista. Ce ne sono alcuni di alto livello sia chiaro. Come quello rilasciato ad inizio 2014 dalla Azuli Records, sempre ben sul pezzo riguardo ai migliori suoni recenti e storici in ambito house. “Deep House Anthems” l’hanno chiamato, quattro ore di selezione house di lusso con nomi e pezzi da urlo, in alcuni casi veri e propri esemplari da sfoggiare per dimostrare l’apice house di questi anni. Vedi il remix dei Dusky su Justin Martin. O Dennis Ferrer su Nick Curly. Materiale che può stare in loop per giorni nel lettore. Ma definirlo deep house resta comunque una bella forzatura.
https://soundcloud.com/dennis-ferrer/underground
Il punto è che a volte, nella storia evolutiva delle musiche che seguiamo, accadono delle anomalie che cambiano le carte in tavola. E lo schema è sempre lo stesso: fase uno, un genere va avanti per la sua strada perfezionando anno dopo anno le sue forme; fase due, un produttore astuto ha l’intuizione che gli altri non avevano avuto, fa esplodere il lato più fruibile del genere e diventa un fenomeno di massa; fase tre, il pubblico generalista “scopre” il genere tramite il produttore di cui sopra, da quel momento identificherà quel tag col suono che conosce; fase quattro (opzionale, eppure puntualmente presente), gli appassionati del genere si lanciano nella missione di catechizzare i nuovi arrivati al sound puro e ahimé, vengono tacciati come boriosi conservatori. E siccome sono una minoranza rispetto al resto del mondo, va a finire che ci si trasformano veramente, per rigetto. Se ci pensate bene questo schema l’hanno seguito più o meno tutti i generi. Per la deep house, lo spartiacque è stato l’esplosione Disclosure. Per il dubstep fu Skrillex (ricordate le battaglie perse di chi andava postando pezzi di Distance in ogni blog, cercando di spiegare che il vero dubstep era quello e non la nuova giostra di drops?). Per la trap fu l’harlem shake. I Prodigy e l’hardcore. Gli Artful Dodgers e la garage. I Daft Punk e il “french touch” (questa era brutta ma andò così, e a tenere fermo Serge Gainsbourg dobbiamo pensarci noi). Che poi i francesi di house ne hanno sempre capito abbastanza, non avevano bisogno di misunderstanding e anche di fronte alla nuova deep house avrebbero un paio di nomi da segnalare. Giusto perché siamo tutti boriosi conservatori.
Sia chiaro, per noi il problema non sussiste. Come succede sempre in questi casi, ora il 99% della base di ascoltatori dirà che “Ready For Your Love” è uno dei pezzi deep house più belli del 2014, e chi dirà che la deep house è ben altra sarà solo un’inascoltata minoranza. E se lo dicono tutti, alla fine il sottile cambiamento di definizioni diventa operativo e da quel momento, ci spiace, ma per deep house si intenderà proprio Gorgon City e compagnia. Un po’ come quando ad un certo punto a fine novanta, il big beat divenne i Groove Armada di “I See You Baby“. A noi la cosa non crea problemi. Anzi, ci fa piacere che un pubblico sempre più ampio prenda confidenza con generi che una volta erano nicchie per cultori. A noi premerà solo ricordare che accanto alla nuova-chiamiamola-così-deep-house esiste un'”altra” deep house che suona molto diversa, ha toccato apici stilistici assoluti e continua ancora a influenzare la musica di oggi. Noi rispettiamo la vostra visione, apprezziamo Julio Bashmore esattamente quanto voi e seguiamo quest’onda di fermento generale con gli stessi vostri entusiasmi. Ma voi capiteci. Saremo anche dei noiosi nostalgici, ma ci son cose che non smetteremo mai di far presenti. Perché il punto non è convincere gli altri, ma allargare le passioni. Nostre, vostre, di tutti. E se la moda oggi è la deep house, di materiale con cui allargarsi ce n’è a volontà per i prossimi due anni minimo. L’unica cosa che vogliamo è che la vera, gloriosa deep house non venga lasciata all’angolo e dimenticata tra i sound “vecchia scuola” solo per una questione di definizioni e mode. Tutto qua.