Qualche giorno fa ho fatto un esperimento sulla mia pagina Facebook personale: ho linkato una efficace e a modo suo roboante intervista uscita su Rolling Stone (con tanto di corredo fotografico pacchiano ed impegnativo) a Guè Pequeno, chiamando al commento – anche perché nella mia bolla personale di solito si è molto reattivi nell’impallinare chi è autore di sortite omofobe e razziste vere o verosimili o anche farlocche, e invece l’intervista pequeniana di RS di “esche” così ne conteneva più d’una, a partire dalle frecciate contro Ghali che che le anime più integre hanno subito interpretato come showcase di velato razzismo e conclamata omofobia, di reazioni in realtà non ne aveva suscitate troppe.
Il motivo? Di Guè Pequeno si fa fatica a parlare male. Cioè: per qualche motivo, che sarebbe forse davvero il caso di sviscerare (e qui ci si prova), per un sacco di tempo molte persone che erano inflessibili sulla gender equality, sull’essere socio-economicamente di sinistra “vera”, sul criticare le fondamenta del sistema capitalista, sul disprezzare il conformismo di massa, tirando fuori in questo argomentazioni anche molto intelligenti ed approfondite, con Guè Pequeno improvvisamente facevano/fanno calare il silenzio, se non addirittura si accodavano/accodano alle laudi, con plausi e pensose analisi di sofisticato approfondimento giustificazionista.
Di Guè Pequeno parlano male soprattutto gli hater, soprattutto quelli brufolosi sedicenni o giù di lì, che hanno trasformato ogni singola discussione sull’hip hop sui social in una gazzarra teenageriale di mezzi rincoglioniti, che sanno solo strillare il loro tifo da stadio per il proprio idolo di turno o, al contrario, contestano duramente questo o quello perché “non abbastanza autentico” (che un teenager pensi di poterti spiegare cosa sia l’autenticità, fa tenerezza… e ci siamo passati tutti, non ne faccio quindi nemmeno una colpa). Tutta questa cosa in realtà poteva essere un vantaggio: se il livello delle discussioni sull’hip hop era “ad altezza Backstreet Boys” sui social, i media un po’ più tradizionali avevano l’occasione d’oro per distinguersi, per far sentire il peso delle loro opinioni e della loro consapevolezza.
E non parliamo di chi è rimasto agli anni ’90 (bel posto, eh, ma piaccia o non piaccia sono passati ormai tre decenni), quelli per cui il rap è solo&unicamente rivoluzione, Public Enemy, “Avanzi” e le posse, impegno, lotta al sistema (…la caratteristica di queste persone è che, nei famosi anni ’90, non li si è mai visti dove l’hip hop stava “accadendo” davvero: nella scena, nelle jam). Parliamo invece della sofisticata, consapevole, informata classe critica giornalistica 20/30/40enne di chi invece è cresciuto col web e le sue dinamiche, ha uno sguardo fresco e contemporaneo sulla realtà, sa essere mentalmente elastico. Una classe critica giornalistica che, tra l’altro, spesso e volentieri pende comunque a sinistra, ma non a colpi di slogan d’antan ma flirtando con frange contemporanee più estreme e/o sofisticate (dall’accelerazionismo ad una conoscenza profonda, profondissima della scena intellettuale ed avant-pop statunitense e britannica).
Quando mai vi ha fatto paura, il pop mainstream? Quando mai avete avuto paura a sfotterlo un po’? Quando mai avete avuto paura vi potesse rovinare la vita? Quando mai l’avete preso troppo sul serio?
E’ successo un cortocircuito apparentemente strano: ‘sta classe critica giornalistica della nuova generazione (e in questi vanno inclusi anche gli opinion leader da Facebook, Twitter ed Instagram: sono praticamente “giornalisti” pure loro) ha iniziato a trattare coi guanti Guè Pequeno, e in generale tutto il fenomeno hip hop. O, almeno, ad adottare un doppio standard: quello che non avresti mai perdonato a Biagio Antonacci, a Gigi D’Alessio, a Claudio Baglioni, a Carlo Conti, a chi-volete-voi era assolutamente perdonato ai Pequeno, agli Sfera, ai trappusi, ai ragazzetti scooteroni, insomma a praticamente chiunque desse l’idea di essere vagamente “urban” (…sì, sappiamo che non si potrebbe usare, come termine, però scusate qui è troppo veloce, efficace e comodo).
Ha sbagliato a farlo?
…vi aspetterete che la risposta sia “E certo che ha sbagliato, doppio standard, ipocrisia, schifo, merda”; invece, no.
Ma una cosa sbagliata c’è. Ed è sbagliata di tanto.
In pochi della classe critica/opinionistica suddetta, si sono trovati a dire quella che, in fondo, era l’unica cosa da dire che conta: Guè Pequeno è commerciale, e come tale va trattato. La sua direzione e il suo sforzo sono questi, non altri. Nel senso: il suo obiettivo ormai è numerico, il suo obiettivo è essere famoso e avere i benefit delle persone famose, e questo è il “drive” di tutto quello che fa. C’è qualcosa di male in questo? No. E’ una scelta più che legittima. Una scelta che nell’hip hop americano peraltro, con buona pace dei publicenemysti di ogni età, razza e religione, è in voga praticamente fin dalle origini e, negli ultimi vent’anni, è praticamente regola (occhio, anche per quelli bravi ed impegnati, anche per i Kendrick Lamar di turno: che, appena possono, vanno a fare i featuring con le stelline del pop, ve ne siete accorti?).
E’ una scelta che, questa, che accomuna Guè a Baby K, ai Boomdabash, a Takagi&Ketra, ai Negramaro, ai Modà, alle boy band di un decennio e passa fa, al Baglioni più stantìo o al Venditti bollito pre-anni duemila, a Gigi D’Alessio, a… a… completate voi l’elenco, tanto avete capito che intendiamo, no? Ogni tentativo di analizzare “in profondità” il messaggio di Guè Pequeno (e degli ultimi Dogo) è un esercizio di stile, più che un “disvelamento della verità più profonda”: perché di profondo, in realtà, ormai c’è poco. Gran poco. Per lecita scelta.
(Ascoltare per credere, ecco il nuovo album di Guè Pequeno, “Mr. Fini”; continua sotto)
Allora. C’è un passo molto interessante (e vero) della intervista a Gué su Rolling Stone, ovvero quando dice:
Quindi si è meno liberi oggi di una volta?
Mah, la vicenda è abbastanza surreale perché da un lato c’è senza dubbio meno libertà e dall’altro i trapper, che sono quelli che parlano direttamente ai ragazzini, hanno testi pieni di riferimenti espliciti a droghe e delinquenza. Cioè tutte le cose per cui hanno rotto il cazzo a me adesso vanno bene. Per cui alla fine io ero un deficiente mentre questi ci stanno dentro. Pensa alla roba di Sfera. È successa la tragedia a Corinaldo e improvvisamente è diventato il pericolo pubblico numero uno solo perché si sono degnati di leggere i suoi testi. E io pensavo: “Cazzo, pensa se leggono i miei”. E pensa che in quel momento stavo andando in Rai a The Voice con Gigi D’Alessio che ha cantato un mio pezzo che dice “Nella mia tuta di felpa una bella panetta, e una punta perfetta e la coca in pipetta”. In Rai! Secondo me non hanno capito un cazzo. Intendiamoci: a me interessa fare dei passi nel mainstream, mi fa piacere che i pezzi girino eccetera, ma non mi interessa dover andare a parlare, a spiegare, a fare la bestia ammaestrata. Io non ho da opinare in pubblico, se vuoi usciamo a berci una birra e ti dico come la penso.
Ecco, qui sta la chiave di tutto. Questa era la parte da citare e su cui arrovellarsi, molto più dei supposti razzismi ed omofobie verso Ghali (che in realtà non ci sono, ma non divaghiamo, magari ci si torna sopra). Questa cioè è la parte in cui Guè, con ammirevole precisione ed onestà, spiega se stesso. Ha capito che senza doversi particolarmente reinventare o ammorbidire, quindi senza troppi sbatti e senza dover perdere la faccia, il mainstream è ormai pronto a prenderlo a sé (e lui è pronto a prendere il mainstream). Come i veri act più commerciali, non sente minimamente il bisogno di stare lì a spiegare, approfondire, educare; e avendo molta più dignità e spessore artistico di un Achille Lauro (che non è male ma non è un genio, come sa chiunque lo segua dagli esordi), non ha nemmeno bisogno di un Alessandro Michele o di vellicare finti scandali da far detonare a Sanremo (come se Sanremo fosse ancora rilevante e career-changing…). Sta bene così. E funziona bene così.
Tutto questo è normale. Normalissimo. All’hip hop sta succedendo esattamente quello che era successo al rock decenni e decenni fa, quando è stato abbracciato dai meccanismi del “popular” (chiamatelo pop, se volete): ad un certo punto, per trovare nuova linfa e nuove linee di fatturazione, si iniziano a vericolare, spettacolarizzare e a rendere attraenti le brutture, distorsioni, i deragliamenti, le pacchianate. Funziona! David Bowie ha costruito il suo mito sugli eccessi (non è mica solo l’elegante signore degli ultimi anni, a Berlino era un paranoico pieno di bamba), i Beatles erano dei fattoni e manco lo nascondevano, i Rolling Stones ti chiedi come facciano ad essere ancora vivi, Kurt Cobain finiva dolorosamente in diretta unplugged on stage a mostrare quanto male faceva l’eroina, e se parliamo di eroina i Velvet Underground tendevano a nominarla un tot, mentre la cocaina era tranquillamente descritta dall’ex compagno di Lory Del Santo. E vogliamo parlare del versante degli Steven Tyler ed Ozzy Osbourne? Insomma: non è stato mica l’hip hop a portare la “vita cattiva” dentro il pop, santo cielo. C’è da decenni. Solo che ne dimentichiamo. E’ un meccanismo vecchio come il cucco.
Stessa cosa, l’ostentazione. E’ nell’iconografia delle più grandi stelle della musica dal dopoguerra ad oggi il fatto di sfasciare camere d’hotel, fare spese pazze, avere case da sogno (MTV ci faceva i programmi sopra…), pretendere hotel cinque stelle, spostarsi in limousine con l’autista (o in aereo privato); che, credete che i R.E.M. non pretendessero l’hotel a cinque stelle, quando arrivavano da qualche parte? Coi Sonic Youth potevi accontentarti di quattro, ok, ma ehi, dovevano essere almeno quattro. Capite?, non c’è manco bisogno di tirare in mezzo le mattane di Michael Jackson e Prince, in fatto di dimore sbalorditive ed ostentazioni viziate. Mo’ adesso improvvisamente non va bene l’hip hop che parla di catenoni, ville, piscine e club privé? E perché?
All’hip hop sta succedendo esattamente quello che è successo al rock un po’ di generazioni fa
E’ che si limita a farlo in maniera più diretta, più circostanziata e più sguaiata rispetto al passato; per questo forse si nota di più, e dà più fastidio a prima vista. Ma per il resto, l’hip hop alla Guè Pequeno (o pure quello dei trappusi ebbasta emersi negli ultimi anni) è perfettamente addomesticato o addomesticabile rispetto al mainstream attuale, anzi, è esattamente quello che esso cerca: perché da un certo momento in avanti, il viaggio artistico di Guè Pequeno – ma lo dice lui stesso, in un sacco di interviste – è stato molto attento nello studiare quello che “funzionava” sul mercato, andandolo ad intercettare all’estero prima che arrivasse in Italia, e mettendo in questo impegno, fatica, attenzione, conoscenza e sì, pure talento (così come i suoi omologhi più giovani erano&sono più concentrati a contare le view su YouTube e le play su Spotify piuttosto che dirti quale scopo si davano&danno nel raccontare le cose in forma di rap, spiegare è roba da boomer o, peggio ancora, un ostacolo al successo, un fastidio per il mainstream). Ha concentrato i suoi sforzi su questo, Guè. Ha impoverito il suo flow apposta, quando ha capito che stava per arrivare la grande ondata del flow povero e schematico, delle rime chiuse un po’ sì un po’ no, degli incastri telefonati (ma efficaci). L’ha fatto prima, più e meglio di altri, certo: perché in lui il talento e l’applicazione sono veri. Ma questo ha fatto – è andato ad inseguire la “formula di successo”, stop. Né più né meno di quanto faceva, artigianalmente, la Media Records di Gianfranco Bortolotti quando era tutta concentrata a sfornare hit da discoteca un tanto al chilo, visto che la musica-da-discoteca stava esplodendo anche nei consumi pop e allora vai con la catena di montaggio.
L’hip hop alla Guè Pequeno o la trap alla DPG oggi è esattamente quello che erano i Toto per i “riccardoni” anni ’80 o Beatles e Rolling Stones per gli anni ’70, quando erano già “canone”: interessante e stimolante comfort music. Non qualcosa che ti spiazza, ma qualcosa che ti rassicura. Cioè, specifichiamo: ti può rassicurare un ragazzino (o un ragazzone) che parla di troie, di ostentazione, di marche, di stronzate? Sì, eccome se può. E’ la rassicurazione perfetta per una generazione diventata, grazie al web e alla comunicazione da web, diffusamente hipster: quindi molto interessata ed abituata ad una comunicazione sempre e comunque sofisticata e (meta)ironica. Molti progetti hip hop che hanno successo oggi sarebbero stati inseribili perfettamente, dieci anni fa, nella geniali raccolte di LOL-hip hop; e pure qualche grande maestro o solido talento si è trasformato un po’ di più in macchietta in questi anni, per essere meglio accolto dal mercato. Però ecco, la (meta)ironia è la panna, la fuffa, l’arazzo sghembo; il dato di fatto è che i “messaggi cattivi” sono sempre stati funzionali al pop mainstream, e in esso c’hanno sguazzato benissimo quando ci sono planati dentro, accolti alla grande e con scandalo solo finto, perché il pop mainstream – grazie a loro – guadagnava nuovo sangue.
Guè è fastidioso quando glorifica il consumismo e un certo tipo di machismo tamarro, fingendo solo di “descriverlo”? Lo è, è fastidioso, perché sai che è una persona intelligente che però, per quieto vivere e per aumentare i risultati togliendosi inutili zavorre, si è dimesso momentaneamente dalla propria intelligenza e dal senso critico (…mossa a sua volta non stupida né banale, quindi intelligente, acuta. Bel cortocircuito). O molto banalmente può pure essere che lui sia più felice e sereno così, stop: che senta cioè che la sua vera vocazione sia togliersi degli sfizi che quando era piccolo gli sembravano (e soprattutto gli erano spiegati) come assolutamente sconvenienti. Ci sta. Sia come sia – che sono anche un po’ affari suoi, volendo – il dato di fatto è che ciò che lui fa da un sacco di tempo a questa parte, lui e molti suoi colleghi, è nient’altro che pop di consumo. E’ tranquillo, efficace pop di consumo.
L’hip hop alla Guè Pequeno o la trap alla DPG oggi è esattamente quello che erano i Toto per i “riccardoni” anni ’80 o Beatles e Rolling Stones per gli anni ’70, quando erano già “canone”: interessante e stimolante comfort music
L’obiezione che in generale ‘sti ceffi (t)rappusi travino la gioventù, che siano diseducativi, che portino i ragazzini ad essere superficiali e desiderosi solo di beni materiali si può anche sollevare, ok, ma doveva essere sollevata anche decenni e decenni fa per personaggi punk-rock-alt-industrial oggi al di sopra di ogni sospetto e di ogni critica (magari solo perché fingevano di combattere il sistema, quando invece ne erano pasciuti e non si tiravano certo indietro quando finivano al Marriott e non in una bettola a due stelle). Sono le obiezioni che proferiva Tipper Gore. State con lei o Frank Zappa?
…ma attenzione, un’ultima cosa, visto che una questione posta ad inizio articolo è rimasta aperta, non è che vogliamo sorvolare: come mai Gué Pequeno è stato criticato così poco e lisciato così tanto dalla nuova generazione di opinion leader “di sinistra 2.0”, dagli hipster più consapevoli, politically aware, eccetera eccetera? In teoria, doveva essere minimo minimo impallinato (con argomentazioni più sensate di quelle della Gore). In pratica, quello che non è chiaro è che questa “nuova generazione” si sta finalmente rendendo conto che dovrebbe “prendere il comando” e scalzare i cinquantenni imbullonati alle leve della cultura e dei posti-che-contano; avrebbe già dovuto farlo da un tot, non l’ha fatto finora (l’Italia è un paese sclerotizzato, il ricambio è lento e stantìo), ora piano piano qualcosa sta provando a fare – vedi ad esempio la nuova ondata it-pop se parliamo di musica, adesso finalmente non sono (più solo) Antonacci, Baglioni, Ramazzotti a riempire i Forum ma sono gli Stato Sociale, gli Ultimo, i Calcutta.
E quindi? Quindi, a questa generazione di opinion leader “di sinistra 2.0” (ma anche alle generazioni più giovani, che in quanto tali nel nostro paese non contano proprio un cazzo e possono aspettarsi solo un futuro di stenti, debito pubblico e macerie) Guè e pure i trappusi del new deal hanno offerto il più classico meccanismo pop: la sublimazione dei propri desideri più nascosti, e reali, e brucianti, ed inconfessabili. Avere potere. Avere influenza. Comandare. Fare il cazzo che ti pare. Imporre le cose, non essere sempre vicari rispetto alle ugge dei cinquantenni/sessantenni/settentenni di turno che ancora tracciano i perimetri sia della politica che della cultura che della società. Mille giravolte verbali, mille analisi pensose, mille giustificazioni sulla “realness”, sulla mimetica, su quello che volete voi, ok: ma da una certa classe anagrafica in giù la sclerotizzazione dell’Italia ha fatto sì che certe generazioni sembrino proprio escluse dalle leve di comando, anche in prospettiva, e quindi esse “curano” la propria ansia inseguendo i simboli più schietti, gretti ed immediati del successo. C’è chi lo fa senza tante pugnette mentali, c’è chi mette in ballo l’accelerazionismo e i cultural studies per darsi un tono e una giustificazione: ma alla fine della fiera è solo il grande circo dell’intrattenimento pop mainstream e del suo macinar profitti, con le sue facili esche emotive più o meno subliminali che curano, rassicurano. E in fondo, meglio farlo con Guè e la trap piuttosto con chi, nel 2020, continua a fare Battisti (se va bene) o gli 883 (se va male).
Mi appello sempre all’articolo quinto / ovvero chi c’ha i soldi ha vinto
(da “L’amico degli amici”, traccia d’apertura di “Mr. Fini)
Insomma, Guè, Ghali e la trap sono – pure loro – il pop mainstream di questi anni. Quando mai vi ha fatto paura, il pop mainstream? Quando mai avete avuto paura a sfotterlo un po’? Quando mai avete avuto paura vi potesse rovinare la vita? Quando mai l’avete preso troppo sul serio? Appassionarsi poi alla supposta omofobia e al razzismo dei dissing lanciati via Rolling Stone, beh, è un po’ come prendere sul serio “Uomini e Donne”. Fate voi.
ps. Se volete un punto di vista alternativo a questo, consigliata la lettura di questo pezzo di Tommaso Naccari