“Checcefrega der Cileno, noi c’avemo Tottigol… Tottigooo… Tottigoo…”: ai tifosi romanisti scenderà una lacrimuccia, ripensando a questo coro e a come lo si cantava a squarciagola ai tempi d’oro (quando cioè il campionato non lo vinceva una squadra sola per dieci anni di fila – che poi, complimenti a lei). Bene: per certi versi a molti della vecchia guardia dell’elettronica sarà scesa una lacrimuccia sapendo dell’uscita di “1995” di Kruder&Dorfmeister, e poi pure ascoltandolo. La storia, che hanno preso tutti per buona, è che nelle pulizie casalinghe da lockdown sia saltato fuori questo DAT di un disco registrato, appunto, nel 1995 e stampato poi in sole dieci copie, regalate a quattro amici in tutto. Ora, si sono decisi finalmente a donarlo al mondo urbi et orbi.
Ora. Magari è vero. Magari però no. Conoscendo un minimo i due (e avendo anzi avendo dovuto gestire Richard Dorfmeister in una intera serata che, per chi c’era, è ancora fonte di aneddoti…), il sospetto è infatti che tutta questa storiella del DAT ritrovato sia un divertente escamotage narrativo dei due, e non la vera verità. E’ un’impressione, sia chiaro; magari stiamo prendendo una cantonata, e queste quattordici tracce arrivano veramente dal passato remoto. Un passato così remoto da essere addirittura precedente al “Dj Kicks” per la !K7 (1996) e alle “K&D Sessions” (1998), giusto più o meno coeve di quel “G-Stoned”, l’EP che rivelò al mondo (non quello più mainstream, ma quello più attento: un tempo le cose erano rigidamente divise) l’incredibile immaginario in slow motion del duo austriaco.
Sarà vero? Forse no. Perché “1995” prima di tutto suona clamorosamente bene (ok, anche “G-Stoned” suonava bene, ma non così bene), ma quello magari è un aiuto che arriva dalle nuove tecnologie da studio anche nel ripulire e rinforzare materiale vecchio; e poi perché comunque è un disco davvero molto, molto maturo. Troppo, forse. Un disco dove l’estetica è indubitabilmente quella, non è che offra sorprese, è proprio Kruder & Dorfmeister così-come-sono-passati-alla-storia, ma dove è notevole il fatto che si eviti ogni luogo comune dell’epoca, perché comunque nel trip hop di luoghi comuni in filigrana ce n’erano. Oh, può anche essere: perché la grandezza di Peter e Richard ai loro esordi è stata proprio il fornire una grammatica interamente “loro” alla musica fumosa&sabbiosa che si stava sviluppando a Bristol e dalle parti della Mo’ Wax e poi, a macchia d’olio, tra i migliori producer d’Europa (ad esempio pure Bob Sinclar, ben prima che scoprisse quanto è bello fare l’amore con la Carrà in mutande griffate). Hanno fatto scuola, i due. Ci sta che la facessero già nel 1995. Però qualche dubbio resta.
(Giudicate voi; continua sotto)
Resta, perché questo è un disco che si può ascoltare tranquillamente nel 2020 ed ha, anzi, molte cose da dire attuali. Ad oggi tutte le recensioni uscite sull’album si concentrano sulla sua qualità da “time capsule” e ok, per certi versi ci può stare, davvero riporta a “quei” dischi e “quei” momenti sotto mille punti di vista, vero; ma lasciando perdere l’afflato nostalgico, “1995” fa all’hip hop esattamente quello che gli fa molta trap scura iper-contemporanea nel 2020: dona una profondità emotiva che la parte musicale del rap ha a lungo evitato (in favore dello stile, negli anni ’90, e poi progressivamente dei calcinculo al luna park che sbancano le classifiche nel millennio successivo, tutto questo mentre l’underground si dibatteva – e dibatte – tra citazionismo retrò e cervellotici meta-sarcasmi “avant”). Va bene, mancano gli hi hat nervosi e i tastieroni spianati, sostituiti da sample “elegantosi” e da un più sottile Fender Rhodes, ma le similitudini sono veramente ma veramente tante.
Ascoltatevi attentamente “One Break”, la traccia migliore del disco (oltre che la più lunga): in più di un caso affiora il dubbio sia stata fatta veramente venticinque anni fa, fosse anche solo per come è mixata. Insomma, vorremmo buttare lì il sospetto che semplicemente lo storytelling del DAT ritrovato dietro a “1995” sia solo una trovata per togliersi un po’ di pressione di dosso: liberarsi dei “Perché ci avete messo così tanto per fare un disco”, così come dei “Come mai non avete rinnovato il vostro suono in tutti questi anni”. Ma al di là di questo, e la verità forse non la sapremo mai, un torto che si può fare a questo album è davvero quello di infilarlo solo nel folderone della “meravigliosa nostalgia”: suona infatti rilevante ed attuale anche nel 2020, come LP di strumentali. Dispone bene gli spazi, disegna benissimo le atmosfere, racconta una sottile paranoia che c’era venticinque anni fa (con la scoperta del lato scuro&nero della notte, dopo l’euforia iniziale da acid house, e smantellando i luoghi comuni che ci volevano in superficie tutti felici, vincenti ed in espansione – Cool Britannia, Clinton e Berlusconi, ricordate?) e che ora è tornata, tale e quale, solo per altri motivi: le “magnifiche sorti e progressive” che il Sistema ci ha promesso in cambio dell’abdicazione agli ideali che portarono al G8 genovese, alla prova dei fatti, hanno mostrato di essere poco progressive, ed ancora meno magnifiche. E questo ancora prima della pandemia. E’ tornato il momento di “scurire” la musica urban. Come del resto la trap migliore aveva capito da anni a questa parte. E chi se ne frega del 1995, ci interessa quello che succede e quello che “sentiamo” ora.