Per molti milanesi è già una non-notizia, perché il passaparola è circolato veloce veloce; per tutti gli altri, andiamo al punto: lo spazio occupato milanese Macao, almeno come luogo fisico e laboratorio culturale così come lo abbiamo conosciuto, non esiste più. Fine di tutto. Addio ad uno degli epicentri culturali più chiacchierati, più controversi ma anche più ammirati d’Italia. Non è stato però uno sgombero, non è stata un’azione violenta delle istituzioni. No, sono gli stessi occupanti dello spazio ad aver deciso di terminare l’esperienza. Questo è il post con cui annunciano la cosa:
“Poi però arriva la realtà a tirarti le sberle in faccia“, avevamo scritto poco più di un mese fa. E così è stato: non solo le sberle all’irruzione di ospiti indesiderati in un pomeriggio sbagliato, come si raccontava lì, ma proprio tutta una situazione che evidentemente si è fatta ed è insostenibile. Attorno all’edificio di Via Molise si è radunata una situazione esplosiva davvero difficile da gestire, una umanità borderline spesso davvero aggressiva e che troppo spesso conosce solo la legge della prevaricazione, come risposta alla difficoltà di sopravvivenza: e su questo la prima responsabilità va alle istituzioni. Che sia un calcolo cinico, un modo cioè per rendere così insostenibile lo stato delle cose fino ad ottenere uno sgombero violento integrale dell’area intera coram populi per poi andare di speculazione edilizia, che sia invece sciattezza amministrativa ed incapacità di controllare il territorio e di gestire situazioni estreme, beh, è una domanda che lasciamo aperta. La prima ipotesi è quella più cinica, machiavellica e complottista; la seconda, per certi versi è più semplice e sconfortante. Forse chissà – magari ha senso anche pensare ad un mix delle due.
Resta il fatto che Macao ha fatto dell’assenza di controlli e lacci legislativi o anche solo autoritari una delle sue bandiere, ha puntato insomma tutto sull’autogestione e sulle cose che si realizzano / si aggiustano da sé; ma questa strategia non ha pagato nel momento in cui si è trovato ad affrontare – non per colpa sua, ma diciamolo, facendo i conti proprio con la deregolamentazione e il non-controllo – un nucleo ostile che gli è cresciuto al fianco, come una escrescenza tumorale. Si pone così una questione politica (nel senso più ampio del termine) non da poco.
Ecco, c’è una cosa che ci dispiace. Che tutto questo problema alla fine non sia stato elaborato con una riflessiva collettiva, condivisa. Era stato promosso un confronto fisico tra Macao e quartiere, proprio per parlare della situazione sempre più insostenibile, ma poi proprio Macao si è tirato indietro, anche in modo discutibile. Un mese fa infatti era stato pubblicato questo:
Dieci giorni dopo, questo:
Da lì, il silenzio. Nessuna comunicazione ufficiale. Zero. Viene il dubbio che l’esperienza di Macao – un’esperienza difficile come qualsiasi esperienza di occupazione, un’esperienza bellissima sotto molti punti di vista – fosse semplicemente giunta al termine già allora, anzi, già prima, col lungo stop da pandemia. Sta di fatto che al momento di (re)iniziare a confrontarsi con l'”esterno”, non c’è stata la forza di farlo. In parte, forse, proprio perché non si era (più) allenati a farlo: negli anni infatti c’è stata una progressiva polarizzazione a livello di prese di posizione del direttivo, l’impressione troppe volte è stata che o si era con loro o si era contro di loro. Una polarizzazione che evidentemente ha fatto più male a Macao stesso (e a chi lo portava avanti) che alle persone che non lo amavano e non ne capivano il senso.
Di questi anni resta un intenso lavoro culturale, delle elaborazioni teoriche sociali molto interessanti e non convenzionali, una curiosità intellettuale vera nel ragionare su come ripensare il modo di vivere la contemporaneità; resta ovviamente una programmazione musicale nuova, fresca, tagliente (vedi alla voce Saturnalia, ma non solo), che è quella che più ha dato lustro, fama e sostentamento economico a tutta l’esperienza, al di là di ogni altro discorso ed ogni altra pratica; ma resta anche l’aver sopravvalutato in qualche caso le proprie forze e i propri meriti, resta l’aver condotto battaglie non sempre a fuoco contro chi perseguiva altre modalità ed altri obiettivi d’intrattenimento; resta forse l’aver sottovalutato la complessità della realtà, ed anche il ridurre troppo spesso a schemi binari certe dinamiche, buoni vs. cattivi. Con Macao sempre dalla parte dei “buoni”. E gli altri, inevitabilmente, coglioni. O disonesti. O ipocriti.
Se l’esperienza continuerà altrove – e speriamo davvero accada, come del resto annunciato dal post: ci sono teste di qualità che negli anni si sono radunate per un attimo o per anni attorno a questa esperienza – ci auguriamo che questa parte venga analizzata e soppesata, perché è parte del problema. Arrivare ad auto-sgomberarsi è indubbiamente una sconfitta; essere stati colti da tombale afasia proprio nel momento in cui si annunciava urbi et orbi un confronto con l’esterno è indubbiamente è una ferita; sgridare sprezzanti chi non combatte per l’utopia e la rivoluzione non riuscendo però nella realtà concreta delle cose nemmeno a mantenere la propria esistenza minima è, ecco, un limite.
Le persone più miopi sono quelle che ora esultano perché Macao non c’è più, in quanto è terminata una esperienza illegale ed antagonista, e in quanto tale – illegale ed antagonista – faceva da catalizzatore ed attrattore della peggior malavita: sono in tanti, a pensarla così. Sbagliano. Le legalità è un equilibrio sottile – per secoli è stato legale schiavizzare, uccidere, prevaricare, sfruttare, violentare – e l’antagonismo è comunque (anche) la voglia di una società migliore. Ma al di là di questi discorsi da massimi sistemi, Macao comunque con le sue attività era un presidio nel quartiere e – in più di un caso – un aiuto per persone in difficoltà. E questo è un fatto.
Le persone un po’ meno miopi, però sempre un po’ bisognose di un “ottico” migliore, sono quelle che rimpiangono Macao perché ora non ci sono più i festoni techno a 5 euro e l’industrial abrasiva in culo alla discoteche ed al clubbing fighetti; in generale, diciamo, perché non c’è più un posto “figo”, un posto che “…meglio di Berlino”. Era uno spazio occupato, non un club con direzione artistica illuminata ed eccentrica e la libertà di fare il cazzo che ti pare. Onori ed oneri. Eccheccazzo.
La visione giusta, secondo noi, è ammettere una sconfitta che è collettiva e condivisa: delle istituzioni perché hanno permesso si sviluppasse un’area senza controllo, di Macao perché quando il gioco si è fatto duro davvero ha dimostrato di essere in realtà molto meno duro dei proclami dispensati invece per anni ed anni. Molto più “fragile”, molto più volubile ed effimero, non così “sociale” insomma come si auto-rappresentava.
Da tutto questo, si può ripartire.
E’ stata comunque un’esperienza intensa, significativa.
Può nascerne, in realtà, una ancora migliore. Perché Milano comunque ha bisogno di sognare, sperimentare, sfidare. Altrimenti diventa tutto una gigantesca e collaudatissima Design Week o Fasion Week: in cui banchettano sempre i soliti, e si arricchiscono solo i già ricchi.