Con Cristiano Crisci, in arte Clap! Clap!, è sempre bello fare delle conversazioni: lo dimostra ad esempio questa bellissima intervista di qualche anno fa fatta da Alessandro Montanaro, ma in generale chiunque lo abbia incontrato ha sperimentato direttamente la sua simpatia, la sua generosità, il suo entusiasmo. Di più: a chiunque lo abbia davvero ascoltato, anche in tempi in cui era misconosciuto e assumeva dei nomi d’arte un po’ bislacchi come Digi G’Alessio, sembrava sempre chiaro e lampante che avesse una marcia in più, che fosse davvero uno dei più geniali producer italiani, almeno in potenza. Spesso però questi geni restano dei best kept secreti, degli unsung heroes. Forse sarebbe successo anche a Clap! Clap!, non fossero arrivati dei riconoscimenti internazionali “di peso”: l’attenzione di Gilles Peterson e di tutto il giro Worldwide, la clamorosa collaborazione col leggendario Paul Simon (nata un po’ per caso), la firma per il publishing con la Warp. Lì, arrivi su un altro livello. Ad ogni modo: per un artista che ad inizio carriera sparava una release ogni cinque minuti (anche con progetti collaterali, come viene ricordato più sotto) far passare ben quattro anni dall’ultimo album è una cosa per lo meno strana. Questo ultimo album, a nome “Liquid Portraits”, è veramente bello, maturo, a fuoco; riprende e in qualche maniera ordina ed affina ulteriormente la strada iniziata nel 2014 con “Tayi Bebba”, il lavoro che ha iniziato a consacrare su scala globale Clap! Clap! non più come giocoliere di nicchia, ma producer di spessore serissimo. Cosa è successo in questi anni? Cosa sta succedendo adesso? Ci siamo concessi una lunga chiacchierata via video con Cristiano, in pieno lockdown, ma come dice lui “Guarda, io personalmente quasi non me ne sto accorgendo, tanto sono sempre murato in studio…”.
Passi davvero un sacco di tempo in studio? Ancora? Ma non ti sei stufato? Hai appena finito un disco…
Sono tutti i giorni in studio, è parte della mia vita! Non potrei fare altrimenti, è un prolungamento di me stesso…
Ma il materiale a cui stai lavorando è sulla stessa onda di “Liquid Portraits”, o sei già rivolto verso altre direzioni?
Mah, guarda, io faccio un sacco di cose contemporaneamente di solito: quelle su cui sto lavorando ora dovrei fartele sentire, più che spiegartele. Da un lato c’è una direzione molto percussiva, ho infatti una collaborazione intensa con Domenico Candellori e con altri percussionisti in giro per l’Italia, stiamo creando un ensemble per sole percussioni e, beh, potrebbe venire fuori qualcosa di davvero interessante; dall’altro, c’è il jazz… qualcosa da cui non riesco mai a staccarmi, praticamente non ho mai smesso di fare cose jazz. Non ho un criterio o un piano preciso, in tutto questo: dipende dalle giornate, dipende da come mi sveglio.
A proposito di percussioni: ho trovato “Liquid Portraits” un disco da un lato molto percussivo, ma dall’altro – paradossalmente – molto disteso, riflessivo, quasi meditativo. Che poi è strano, considerando che se uno pensa a te di solito ti associa prima di tutto all’intensità e all’energia che metti nelle cose, nella tua musica…
Guarda, se usi “disteso” e soprattutto “meditativo” come aggettivi io ti ringrazio davvero molto, soprattutto per il secondo. “Liquid Portraits” è un album con un concept molto forte, ma forte per me – non so quanto in realtà possa essere percepibile dagli altri. Come faccio a spiegartelo? Come faccio a spiegartelo in poche parole?
Ma anche tante, non ti preoccupare, non c’è fretta!
…è che sai cosa, è davvero una questione molto personale e soprattutto cerebrale. Negli ultimi anni mi è capitato di viaggiare molto suonando in giro, no? Robe tipo India, Giappone, eccetera. Ho conosciuto tante culture diverse, e in molti casi le ho proprio conosciute “dal di dentro”, non cioè da semplice turista. Ho ripensato parecchio mentre ero in studio a quanto acquisito. E non ti sto parlando di suoni: in realtà durante questi viaggi ho ascoltato pochissima musica. No, il punto è un altro. Ciò che mi hanno lasciato tutti questi viaggi sono stati prima di tutti ricordi, immagini, sapori, odori. E a ciascuno di questi lasciti, ho dato significati profondi e specifici: c’ho ragionato molto sopra, mi ci sono concentrato… magari pure esagerando talvolta in questo, ma io sono fatto così. In questo modo però ogni singolo ricordo o immagine o sapore o odore diventava, in qualche maniera, troppo ingombrante. Diventava un “blocco a sé”. Imparare a rendere liquido tutto ciò, facendolo scorrere tutto assieme, combinandolo, mi aiutava finalmente a trovare un nesso, un flusso. Ecco, questi sono i “Liquid Portraits”. Un ricordo singolo di per sé era un ricordo e basta; ma mettendolo in un flusso, potevo attivare un processo creativo. Un brano come “Kif In The Rif”, ad esempio, è nato combinando un ricordo di me steso davanti ad un camino e una chitarra indiana. Oddio, non so quanto sono riuscito a spiegarmi…
(Ecco “Liquid Portraits”; continua sotto)
Direi più che bene. Anzi, mi viene pure da aggiungere che questa combinazione di ricordi ed immagini che si intersecano fra di loro è tipica della fase in cui stiamo passando dal riposo, dal sonno leggero a quello pesante: parte sempre una libera associazione di immagini, di stimoli e di flash della memoria nella nostra testa.
Esatto! Con “Liquid Portraits” ho provato proprio a dare forma al flusso dei ricordi che mi colpiva mentre stavo in studio. Per quanto riguarda il lato percussivo, invece, forse rispetto ad alcuni miei lavori passati c’è meno ricerca; ma questo perché – come ti dicevo – sto trovando sfogo in un altro progetto che forse appunto a breve diventerà pubblico. Dai, un po’ sto imparando a canalizzare in modo sensato le energie e gli stimoli creativi (ride, NdI)… Di sicuro, in “Liquid Portraits” sono stato molto attento a rifinire bene il suono. Forse come mai in passato.
Si sente.
Poi chiaro, non è che mi sia disinteressato delle melodie. Anzi, credo che uno specifico tocco Clap! Clap! ci sia sempre: ad esempio il coro di bambini napoletani preso dall’etnomusicologo Diego Carpitella è proprio una classica roba “mia”. O prendi “Desert Stone”, il brano d’apertura: si intitola così anche perché è un omaggio allo scultore sardo Pinuccio Sciola e alle sue “pietre musicali”. Guarda, sono stato pure alla Fondazione a lui intitolata, per un progetto che avevamo fatto partire io e Khalab assieme a Santa Cecilia di indagina e catalogazione sul materiale tradizionale italiano, poi il progetto si è fermato.
Che poi, nei giorni precedenti in cui ci stavamo accordando per questo intervista, ci si faceva un po’ di battute sul fatto che nella mia rubrica sei ancora schedato come “Digi G’Alessio”. Se ripenso a quegli anni, a quando era quello il tuo nome d’arte principale, eri uno che tirava fuori un disco nuovo praticamente ogni trenta secondi: dischi assolutamente geniali in molti punti, si capiva subito che avevi una marcia in più, ma forse per la fretta di farli non c’era un sufficiente lavoro di rifinitura – almeno per me, per quel poco che conta la mia opinione. Vedere che ora ci metti addirittura quattro anni fra un disco e l’altro e quello che vieni fuori è rifinitissimo, beh, mi fa quasi paura. E’ un po’ la realizzazione di quello che ti suggerivo, in cuor mio… ma forse perfino eccessiva!
Ma sull’eccesso di iperprolificità di Digi G’Alessio avevi ragione! Che anni erano? 2007, 2008? Era la fotta, era lei – e scusa se uso un termine un po’ grezzo (risate, NdI)…
Ma ci sta!
Sai cosa, in quel periodo avevo un approccio diverso alla musica e soprattutto al campionamento e questo per un motivo ben preciso: essendo storicamente stato a lungo uno spiantato, internet per motivi strettamente economici è arrivato nella mia vita moooolto tardi. Insomma: mentre tutti già si informavano via web, scoprivano cose, ascoltavano, a getto continuo e senza fatica e accedendo a una grande mole di informazioni in tempo reale, io invece ero ancora lì con le fanzine cartacee (le poche volte che si riuscivano a trovare…). Capisci che quando finalmente è arrivato internet nella mia vita è stato come piazzare un bambino in un negozio di giocattoli e dirgli di prendere quello che voleva? Sbam! Con tutta quella musica ho fatto ottomila dischi in due anni, perché ho campionato tutto quello che trovavo anche solo lontanamente campionabile lavorandoci subito sopra con golosità! Ripensandoci, non è stato un approccio molto sano…
Ma non è vero, dai! Comunque è da lì, da quel periodo, che ti sei fatto conoscere e hai fatto vedere di avere delle qualità pazzesche.
Pazzesche, non lo so. Poi boh, che dire, era il periodo in cui stava emergendo questa scena Beats, la scena dei beatmakers, no? Eravamo una nicchia; ma all’inizio eravamo molto stilisticamente coesi, lavoravamo in modo simile sui campionamenti, li spezzavamo e decostruivamo in maniera acrobatica, chi si azzardava a fare qualcosa di troppo dritto era guardato male (risate, NdI)…
Il fatto che tu sia cambiato come approccio alla produzione e come metodologia di lavoro nasce da un cambio semplicemente di prospettiva musicale, da un’evoluzione in tal senso, o anche invece da un cambio di te come persona?
Eh, di cambiamenti personali ce ne sono stati tantissimi. Anche solo il fatto di essere diventato padre. Ma non credo riguardi solo me, no? Quella fase in cui passi dai 30 ai 40 anni penso sia un momento di grandi cambiamenti per tutti; e sì, ovviamente questi cambiamenti influiscono sul modo in cui fai musica. Oddio, non so se qualcuno si sia mai preso la briga di ascoltare il mio materiale in successione cronologica, per capire in che modo è cambiato il mio approccio col passare degli anni; io di sicuro lo faccio, soprattutto nel jazz, soprattutto coi sassofonisti. E’ molto divertente sai, perché ti accorgi davvero di come cambi il suono di specifici artisti: di come si evolva, soprattutto in presenza di cesure forti come era stato l’avvento del free. Ad ogni modo: sì, sono cambiato molto. Certe mie cose passate se le riascolto oggi mi piacciono ancora tantissimo, ma ce ne sono altre che.. insomma… mi vergogno un po’. Ma è normale no? Capita a tutti. Figurati se non capita a chi come me ha fatto quaranta album! (risate, NdI)
Ecco, dovendo aiutare qualcuno ad orientarsi nella tua discografia, nella sua prima parte, che consiglio daresti?
Le cose a nome Clap! Clap!…?
Non necessariamente.
Forse ti direi “The Rain Book”, EP uscito ancora un sacco di anni fa – era il 2008? – ancora a nome Digi G’Alessio, anche se il suono era già molto “alla Clap! Clap!”. Oh, era una fase veramente “ignorante”: andavo su YouTube e scaricavo a manetta, usando poi tutto, senza poi nemmeno pormi il problema di cosa stavo scaricando e soprattutto di dare i giusti credits. Ero bello grezzo! Poi, per fortuna, mi sono reso conto che non era corretto fare così. Ecco: una cosa buona di questo passaggio dai 30 verso i 40 è stato anche capire che era doveroso, davvero doveroso essere molto più sensibili e consapevoli verso certe dinamiche, rispettandole in modo attento.
(Curiosi? Eccolo, “The Rain Book”; continua sotto)
Un’altra cosa direi buona è che ora sei un nome ormai decisamente consolidato all’estero, hai un profilo molto forte. Cosa cambia l’avere una notorietà internazionale? Quanto ti modifica la vita? O è qualcosa di cui manco te ne accorgi, quando ci sei in mezzo e ti accade?
Mah, guarda, io fin dall’inizio degli anni 2000 vuoi col Trio Cane, vuoi con A Smile For Timbuctu, quando ancora c’era MySpace, riuscivo già a fare date in giro per l’Europa, anche se a livello di fama eravamo prossimi allo zero. Funzionava però che la net label di, boh?, Stoccolma ti scopriva, e subito ti invitava a suonare. Forse sono un caso atipico in questo, di sicuro mi sento molto fortunato ad aver potuto iniziare a suonare all’estero già dall’inizio, ci sono arrivato subito. E anzi, quando per vari motivi ho iniziato a farlo di meno, la cosa ha preso a mancarmi molto! Ora spero di poter continuare a farlo sempre, anche perché, come ti dicevo ad inizio chiacchierata per la mia ispirazione è un passaggio fondamentale. Perché non è solo questione di portare la tua musica e prendere il tuo cachet a fine serata, no; in realtà l’interscambio è molto più ricco, soprattutto quando finisci nelle mani del promoter giusto o del tour manager giusto. Lì, quando accade, ricevi molto di più della semplice fee per l’esibizione. Ma anche se sei da solo, se un minimo ti organizzi puoi vivere delle esperienze “locali” molto, molto intense che mai avresti vissuto se non fossi arrivato lì grazie alla tua musica. Che ne so, mi viene in mente l’India: è stata la mia musica a permettermi di scoprirne certi luoghi diventati per me molto importanti!
Comunque essere entrati in un “salotto buono” come quello di Worldwide e di Gilles Peterson un po’ conta e un po’ sposta, no?
Ti dirò: la vera differenza c’è stata e l’ho sentita quando sono stato firmato dalla Warp per il publishing. Lì sì che mi sono proprio accorto della differenza: richieste di lavoro che si moltiplicano. Comunque, il fatto che tu stia salendo di livello lo percepisci bene soprattutto dai concerti che fai: come Clap! Clap! ho iniziato prima suonando in piccoli club, poi in club più grandi, poi sono iniziati ad arrivare i festival… Ecco, in quel momento ti accorgi che entri in una specie di famiglia allargata su scala globale, perché sono tantissimi i musicisti che incontri regolarmente nei festival – lì e solo lì – e con cui diventi amico. Comunque ecco, la cosa che vorrei sottolineare è che quando ci sono crescite di questo tipo di sicuro contano talento, idee, originalità (soprattutto l’originalità, ci tengo a dirlo), questa è una fetta della torta; ma l’altra fetta, altrettanto grossa, è la fortuna.
Tra l’altro, con questa risposta mi confermi che il publishing è diventato una parte essenziale: un tempo, nelle case discografiche, era l’ultima ruota del carro.
Un tempo era solo questione di spot pubblicitari, e già finirci sopra era in realtà redditizio. Ma ora il mercato si è moltiplicato: social, piattaforme stream, film, gaming… In effetti ho visto davvero molti iniziare a lavorare seriamente sulle edizioni. Anche in questo, è importante lavorare con persone che abbiano un’etica, che lavorino in una maniera ben precisa: che non siano cioè lì a venderti un tanto al chilo ma che sappiano bene dove piazzarti, cosa proporti. Anche in questo devo dire che sono stato finora molto fortunato. E’ importante, sai. Quando vedi che la tua musica finisce nei posti giusti, sei anche più motivato e più portato a lavorare bene.
Ci sono mediamente delle differenze tra essere intervistati in Italia ed essere intervistati all’estero?
Non credo. Dipende, come sempre, dalle persone. A maggior ragione adesso, che le informazioni circolano ovunque in tempo reale e dovunque possono essere accessibili. Ancora più di prima, la differenza la fa la persona: chi è curioso e preparato, e chi no.
Quando vedi che la tua musica finisce nei posti giusti, sei anche più motivato e più portato a lavorare bene
Questa in realtà era una domanda-preambolo per introdurre la “solita” questione che vi accompagna da sempre, quella dell’essere “scena”…
Ma io purtroppo sono l’ultimo che dovrebbe rispondere! Sono un po’ uno che sta su un altro pianeta: perché sto poco sui social. Quindi, se c’è del dibattito, io me lo perdo. Sento spesso molta gente al telefono, quello sì: Raffaele (Khalab, NdI), Andrea (Populous, NdI), Giulio (Go Dugong, NdI), Lorenzo (Godblesscomputers, NdI)… ma perché sono miei amici.
Eh, guarda che già così sono tanti.
E’ successo che con qualcuno di loro, per un certo periodo, ci fosse anche una vicinanza musicale, penso ad esempio a Populous al tempo del suo “Night Safari”. Ma guarda ora: adesso credo che la nostra musica sia molto diversa l’una dall’altra. Tornando quindi al concetto di “scena”: siamo gente che si conosce da una vita; siamo colleghi, ma siamo anche un po’ più di colleghi: siamo amici. Poi per qualcuno è diventato lavoro, per altri un po’ meno, ma ci sta. Penso però di poter dire che l’amicizia è rimasta, la stima e il rispetto pure, in maniera forte. Prima magari eravamo più “vicini” artisticamente, suonavamo in maniera simile, ci si influenzava a vicenda, ora ognuno ha sviluppato un proprio stile personale: ma questo per me è un fattore positivo. Non credi? Poi boh, in realtà come ti dicevo non stando sui social magari mi sto perdendo qualcosa…
Ma no guarda, non penso.
Ah, perfetto!
A proposito però di “musica che diventa un lavoro”, è vero che più cresci come profilo più ti metti addosso pressione ed aumentano le tue aspettative? Anche perché in effetti ora, col tuo profilo che è appunto sempre più consolidato, attorno ad una tua release c’è una attesa seria, reale. Quindi che tu lo voglia o no, un po’ di pressione in più c’è per forza.
Io la pressione la sento sempre. Tra l’altro: la musica è la mia unica fonte di guadagno. Basterebbe quella come pressione, no? Ma è vero, quando la tua passione diventa anche il tuo lavoro la faccenda si fa piuttosto delicata. Di solito la passione è quella che ti serve per sfogarti: “Giornata di merda, ma ora finalmente suono, ora finalmente ascolto”. Ma quando passi tutta la giornata in studio, per lavoro? Come ti rilassi? E’ un paradosso. Quindi sì, a maggior ragione la pressione c’è, quando la musica è diventata proprio il tuo lavoro. Ma lì bisogna fare come con tutte le cose: saper assecondare. La pressione, poi, è soprattutto paura. Tipo: e se faccio una cosa che non piace a nessuno? Se il viaggione che mi sono fatto risulta incomprensibile? Se va tutto male come faccio? Alla mia età? Senza saper fare nient’altro? …poi però, quando ci pensi meglio, capisci che sono paure che hanno tutte le persone, tutte!, qualsiasi lavoro facciano. Devi saperci convivere, devi saperle gestire.
Quanto sono importanti per te i pareri delle persone che stimi? Fai sentire il tuo materiale mentre è in fase di lavorazione, o lo fai solo quando le sessioni sono già chiuse e blindate?
No no no, c’è molta condivisione! Tra noi musicisti, ma non solo tra musicisti! C’è comunque un gruppo di persone che ritengo ottimi ascoltatori, di cui mi piacciono i gusti musicali, e a loro mi rivolgo sempre.
E ti è mai capitato di buttare a mare delle cose già incise dopo un feedback particolarmente negativo da parte di questo “gruppo d’ascolto”?
No, buttarlo mai, ma questo non significa che i feedback – anche quelli negativi – non siano utili. Anzi. Se il feedback è particolarmente negativo, sul materiale “incriminato” ci torno sempre sopra; non lo butto, quello no, ma di sicuro ci torno sopra. Però poi bisogna sempre ricordarsi che è capitato mi arrivassero dei parere piuttosto negativi su cose che invece hanno funzionato alla grande, e pure viceversa. Io comunque di mio sono veramente aperto: mi piace moltissimo scambiare materiali con gli altri. Mi piace il loro parere su quello che faccio, mi fa molto piacere dare il mio su quello che fanno loro, quando me lo chiedono.
La lavorazione di “Liquid Portraits” è stata una traiettoria dritta e continua, o ci sono stati molti stop&go?
Sono successe tante cose; ma proprio perché sono successe cose nella mia vita, ecco, non parlo solo di intoppi da studio. Se c’ho messo tanto a completarlo, come album, è per questo motivo. Situazioni complicate da superare, da gestire. Parecchi casini. Cose che, come uno tsunami, ad un certo punto mi hanno trascinato via un po’ da tutto e, quindi, anche dalla musica. Quindi sì, con la lavorazione di “Liquid Portraits” sono partito e ripartito più volte. E’ stata questione di resilienza, uno cerca di adattarsi, di superare i momenti negativi, di soffrire meno, anche se magari il rischio in questo modo è che vai giù, in picchiata, piano piano, e manco te ne accorgi. Più volte è successo che con la lavorazione dell’album prendessi il giusto ritmo, ma arrivavano poi dei fattori interni od esterni a bloccarmi completamente, in maniera drastica, traumatica. E’ stata un po’ una guerra insomma. Questo fino a quando tutta una serie di questioni si sono felicemente stabilizzate. Da lì in avanti, completare il disco è stato un processo molto veloce, davvero un pugno di mesi. Mettiamola così: gli anni dei casini, gli anni dei problemi sono stati un allenamento – per rendermi più forte.
Ma infatti ne sei uscito vincitore!
Oh sì, alla grande. Sai, nella mia vita precedente, quando facevo il rapper, il mio street name era Eloto. Il riferimento era al fiore di loto. Il loto, nel buddismo, è un fiore fondamentale dal punto di vista simbolico: perché nasce con le radici nello stagno, nella melma, e quindi più è legato in profondità alla melma più è bello il fiore che genera. Bello, vero? Già mi ci ritrovavo allora… ma oggi mi ci ritrovo ancora di più.
Tutto torna, insomma. Anche se non si hanno più vent’anni, e si va verso i quaranta.
Tutto torna!
(Immagine a cura di Ruffmercy)