Questo è esattamente il tipo di album che non t’aspetti. Non perché i Clockwork non siano artisti vali e prolifici – non c’è da confondere, infatti, il “misurare i propri passi” con la mancanza d’ispirazione – piuttosto perché certe sonorità deep-disco che spesso sono state associate alla loro discografia suonano stantie da diverso tempo. Ma quali sonorità? Sicuro? Esatto, sono questi i quesiti da porsi una volta preso in mano “B.O.A.T.S.”, nona release del catalogo di Life And Death e primo album della label col piccione decapitato. Chi s’era abituato ai vecchi lavori su Hot Creations, Get Physical e Souvenir, giusto per tirare in ballo un po’ di label che inquadrino quanto lo stato attuale delle cose sia cambiato rispetto al passato per il duo milanese, deve infatti prendere un bel cotton fioc, passarselo tra le orecchie e prepararsi al cambio di rotta di Federico Maccherone e Francesco Leali. Per chi se lo stesse chiedendo e per chi, scettico, guarda con diffidenza a questo long play: le sonorità deep-disco, questa volta, sono state lasciate fuori dalla porta.
Dietro questo repentino cambio di rotta, quanto può essere attribuito all’attitudine e al gusto proprio dei Clockwork e quanto invece può dipendere da una moda che sta cestinando la gomma in favore di beat più crudi e ruvidi? La risposta non è qui, non può esserci, perché sono ancora troppo poche le carte già scoperte dai Clockwork. Quello che so è che in qualsiasi ambito i due decidano di cimentarsi, loro riescono. Hanno fatto degli ottimi EP, degli ottimi remix ed ora hanno confezionato un album spiazzante per varietà di spunti e motivi di interesse/approfondimento. “B.O.A.T.S.” è bello, ha una sua identità ben precisa e riesce a creare un percorso magari non fluido, ma certamente coerente. Tredici pezzi che tracciano un solco chiaro e profondo, un punto di ri-partenza che allontana definitivamente Federico e Francesco da un passato (recentissimo, per carità di Dio) i cui richiami all’interno della raccolta rappresentano proprio i pezzi meno convincenti. I Clockwork hanno cambiato marcia, salutato e preso una strada che mai, vi giuro mai, mi sarei aspettato per la loro crescita artistica. Nulla di spiazzante e marziano, è chiaro, ma in “B.O.A.T.S.” è tangibile la qualità del loro prodotto: da “This World Is Not Designed For Us” (nata dalla collaborazione con Clarian) fino a “First Floor” e “Second Floor”, passando per le bellissime “Prism” e “False Matters”; qui è possibile identificare la varietà di colpi a disposizione dei Clockwork e la loro efficacia.
In fondo c’è sempre stato qualcosa nei loro pezzi che vibrava in modo differente rispetto ai lavori di colleghi spesso più illustri come i Tale Of Us, che nell’album danno il loro contributo in “Lost Keys”. In “One Way Ticket”, profetica traccia di chiusura dell’album, c’è proprio quella malinconia lì, quello stato d’animo di simil-sofferenza che m’ha sempre attirato e che ha reso ogni loro lavoro meritevole di più di un ascolto. Solo il tempo ci dirà se si tratta davvero di un biglietto di sola andata, intanto diamogli un otto pieno.