E finalmente, è arrivato. Sì: quest’anno l’attesa per Alfa MiTo Club To Club è stata alta come non mai. Lo è stata non solo per la qualità della line up (sempre alta, ma fra qualche riga approfondiamo bene il discorso), o la bellezza delle edizioni precedenti, o la magia di un contesto come Torino (che si conferma città magica, una delle città più belle e sottovalutate d’Europa – a maggior ragione proprio in quel weekend lì, quando si svolge anche Artissima). Tutte queste cose sono verissime, e sono state un fattore forte. Ma l’attesa è stata molto alta anche per un motivi più sottile, uno di quei motivi che gli addetti ai lavori captano coscientemente ma che anche la gente normale percepisce in modo più o meno inconsapevole: stanno accadendo delle cose importanti nel panorama dell’intrattenimento notturno in Italia. I festival “di qualità” (a spanne: quelli che sono curati in modo pieno di gusto come scelte musicali, senza mai anteporre la mera profittabilità alla qualità) stanno balzando agli onori della cronaca, stanno vivendo il loro momento: in una nazione dove spesso e volentieri (e a ragione) si parla di crisi un po’ in tutti i campi, festival come Dancity, Spring Attitude e roBOt – e scusate se parliamo di quelli con cui Soundwall ha festeggiato quest’anno i suoi cinque anni – sono realtà in costante crescita. Quantitativa e qualitativa. Di più: il modello italiano, molto italiano, dei nomi supposti da cassetta che attirano pubblici foltissimi che però vengono trattati un po’ da “parco buoi” (aka “metto questo in line up così la gente viene di sicuro e pazienza se sarà gente di merda che viene per sballarsi e non per la musica”) sta mostrando dei primi scricchiolii.
Bene così. Bene se i paganti, gli investimenti, la capacità di spostare economie ed influire su una opinione pubblica diffusa si spostano anche su chi mette il discorso della qualità musicale ai primi posti. L’avventore occasionale resta avventore occasionale, sia chiaro: ma se per una volta sgancia gli euri per vedere Apparat e non Antonacci è una cosa che fa contenti tutti. Chi organizza e crede in Apparat da tempi non sospetti; chi lo apprezza da sempre e finalmente può condividere con più persone questa passione senza passare per eccentrico; lo stesso avventore occasionale che magari non distingue tanto fra Apparat e Guetta, ma scopre che pure con ‘sto tizio tedesco-di-Berlino che fa elettronica un po’ da intellettuali ci si può divertire parecchio, mica solo cantando in coro tutti i ritornelli di Antonacci. E’ che ormai ci siamo rassegnati al fatto che i grandi numeri e le grandi esposizioni mediatiche tocchino solo le commercialate, o i dinosauri della musica: nulla di più sbagliato. Il tempo è adesso: la musica che ascoltiamo noi, il divertimento così come lo concepiamo noi, sarà sempre più maggioritario – per banali motivi anagrafico-demografici – rispetto alla musica e al divertimento da Sanremo, da radio-che-fanno-solo-grandi-successi. I divetti di X Factor o di altri talent dopo i primi tre mesi non se li incula più nessuno; gli illustri sconosciuti (per le platee generaliste) che popolano gli slot da headliner dei festival elettronici “di qualità” continuano a fare sempre più gente. Ormai, in Italia, Jon Hopkins una Giusy Ferreri la straccia, e c’è di certo più attesa per un live di SBTRKT o Chet Faker che per quello di Marco Mengoni. Ehi, rendiamocene conto: possiamo sempre meno giocare a fare la nicchia. O meglio, possiamo continuare a farlo, ma poi non lamentiamoci se in Italia culturalmente va tutto male, almeno nella musica: è il nostro momento, e sta a noi coglierlo. Se non lo cogliamo per restare nei nostri scantinati – scelta rispettabilissima, con anche dei fondamenti per nulla stupidi – poi però non possiamo lamentarci di come vanno le cose lassù, nel mainstream, dove la cultura diventa professione e sistema e non solo passione dopolavoristica. Non possiamo. Non possiamo dire che il destino è cinico e baro, e che è e sarà tutto sempre merda qua in Italia, che ci puoi fare.
Sì. E’ il nostro momento. E appunto: festival come Dancity, Spring Attitude, roBOt (o, per aggiungerne uno notevole, Elita) sono in piena crescita in un contesto cultural-imprenditoriale dove tutto pare rotolare nella crisi, giusto come prova che il nostro ragionamento ha delle fondamenta. Di tutti questi festival, ora che non c’è più Dissonanze, Club To Club già da anni è l’indiscussa ammiraglia: per anzianità di servizio (quattordicesima edizione), per la capacità di crescere passo dopo passo, per la splendida lucidità nel costruirsi una forte e riconoscibile identità, per potersi (e volersi) permettere di intrecciare stretti rapporti coi media stranieri come nessun altro in Italia, per la grande sicurezza e competenza con cui si comunica in giro e infine perché… perché sì: perché Club To Club ha dimostrato negli ultimi anni questa sua supremazia sul campo. Coi fatti. Almeno nella sua categoria specifica.
E’ bello essere i migliori, i primi. Ma è anche una grossa responsabilità. Se miri in alto, poi devi mantenere quello che prometti; se ti comunichi come numero uno (e ne hai ben donde), la gente sarà comunque molto più esigente con te, molto ma molto. Questa lunghissima premessa, lunghissima ma necessaria, serve a inquadrare bene perché questa edizione di Club To Club pur avendo dato mille gioie e mille motivi di soddisfazione, ecco, non ha trionfato. Non è tanto o non è solo questione di chi ha suonato, e come; è questione che più o meno inconsciamente tutti avevamo attese stellari, perché sapevamo di essere “nel” posto, “nel” festival, lì dove tutti i sogni di noi che cerchiamo eventi di musica innovativa di qualità più hanno cittadinanza.
Ma questo mancato trionfo, pare strano, è in realtà una medaglia al merito. Club To Club poteva semplicemente limitarsi a ripetere il se stesso degli ultimi anni, andando sul sicuro, invece si è preso dei rischi. I rischi sono l’aver puntato con più decisione su live set anche complessi tecnicamente (Jungle, Caribou, SBTRKT: non una faccenda “da attacca i jack al computer e tutto a posto”). Anche Battiato, più che un’astuzia o una paraculata, è stato un rischio: chi poteva dire con sicurezza che il Maestro non sarebbe stato fischiato da una folla in attesa di cassa in quattro? Il Maestro non è stato fischiato, anzi!, per due motivi: il primo è perché il suo show comunque è stato gradevole, dignitosissimo, non ha strafatto in un senso (sperimentazione estrema) o nell’altro (solo grandi successi), è stato se stesso senza mascherarsi o fingersi pazzo alchimista digitale o turbogiovane, ha fatto un concerto forse un po’ troppo seduto nella prima metà – ma ci stava – e che piano piano è cresciuto fino ad arrivare ad una bella intensità emozionale collettiva finale. L’altro motivo è che Club To Club ha educato benissimo il suo pubblico. Ci diceva un tassista all’uscita del Lingotto, preso già quando iniziava ad albeggiare: “E’ incredibile, voialtri che uscite dal Club To Club siete tutti educatissimi, gentili, non vedo nessuno rovinato… e sì che ne sto caricando moltissimi… Di solito quando c’è un evento che dura tutta la notte di musica elettronica da una certa ora in poi in giro ci sono solo mostri o quasi, capito come? A Club To Club no, incredibile”. Ecco.
Dicevamo dei rischi: più live, anche una presenza più pervasiva del fattore indie-chic (Chet Faker, Kele dei Bloc Party) senza limitarsi ai soli elettronici danzerecci. Pure uno dei momento meno convincenti del festival, la urban supposto nero-futurista di Future Brown piazzata sul main stage, un po’ stantia, petulante e stiracchiata, è stata comunque il segno della voglia di scardinare liturgie (troppo) collaudate nei festival di elettronica. Se Future Brown sul palco ci hanno francamente annoiato, abbiamo comunque apprezzato l’idea, l’intenzione. Bella poi e non scontata anche la programmazione del Red Bull Music Academy Stage, dove abbiamo visto cose molto diverse fra loro come Kelela (ha del potenziale, è affascinante, ma deve ancora crescere), il casino scomposto dei Ninos Du Brasil (non fanno un cazzo o quasi sul palco come musicisti, ma il live è una gran bella botta), i toni soffusi di Jessy Lanza (gradevoli), la disco anni ’80 re-editata di Tiger & Woods (perfetti e coinvolgenti), l’appropriata urbanità contemporanea di Visionist (bravo, anche se senza picchi). Se a questo aggiungiamo nomi più tradizionalmente da Club To Club (Vessel, che nonostante o anche per l’esibizione sfrontatamente a torso nudo si è rivelato la cosa migliore live che oggi la Tri Angle possa offrire; o Millie & Andrea, bravi nel loro revivalismo hardcore primi anni ’90 con un “twist” strano) e infiliamo pure una succosissima anteprima, quella del back to back tra Ben UFO e Ron Morelli (partendo da posizioni quasi opposte sul come declinare la techno, i due riescono non si sa come a trovare un efficace incontro a metà strada), quello che abbiamo è uno spaccato molto ma molto interessante. Non monocorde, non monocolore, non prevedibile, fatto insomma per persone curiose. Gran roba. Un contesto in cui artisti come Lorenzo Senni e Vaghe Stelle danno il meglio di sé, perché sono in un luogo dove sperimentazione ed intelligenza sono ben accette ma dove comunque si vuole prima di tutto ballare facendosi percorrere dalle frequenze basse. E si è ballato, nello stage dell’Academy, ballato con soddisfazione, ad esempio lo si è fatto molto con Jacques Greene (furbo ma bravo) e Fatima Al Qadiri (a noi continua a sembrare un bluff, fa set che potresti sentire in qualche locale modaiolo milanese che gioca a fare il tamarro, giusto con un tocco di esotismo in più).
Si è ballato. Ma si è anche sudato. Si sa, quella sala lì – originariamente la Sala Rossa – si è guadagnata negli anni il soprannome ufficioso di Sauna Rossa non a caso. Un caldo furibondo. Ci crediamo che Vessel si è denudato, sembrando non uno ieratico producer intellettuale ma un ultrà del Southampton in trasferta. Un caldo furibondo che magari perdoni perché è il prezzo da pagare ad un’acustica, lì, che resta sopraffina, il modo in cui quelle pareti circolari rosse di acciaio assorbono i suoni rende l’esperienza dell’ascolto e del ballo qualcosa di fenomenale, però ecco, visto che Club To Club è il numero uno, e visto che la qualità complessiva degli eventi cresce, vorresti a questo punto un passo in più. Tu non sai se è tecnicamente impossibile o economicamente insostenibile, diciamo che il problema non te lo poni, ma insomma vorresti che la Sauna Rossa diventasse un posto non solo dalla musica variegata e interessante ma anche dalla temperatura perfetta. Vorresti anche che in generale tutto suonasse un po’ meglio: ok che amplificare il Padiglione del Lingotto che ospita il tutto è una cosa di difficoltà estrema, ma girando per l’Europa abbiamo visto strutture simili dove, con accorgimenti di un certo tipo e investendo in impianti di qualità superiore, il problema del rimbombo è stato assorbito, senza tirare per il collo l’impianto stesso. A Torino è stato tirato talmente per il collo (ad esempio da un fonico di SBTRKT con, visti i volumi, una sensibilità da fabbro) che quando Dettmann è salito sul palco per chiudere da par suo il festival, cioè bombardando allegramente in quattro quarti, ciò che si sentiva da fuori era più lo spernacchìo dell’impianto che gracchia che la proverbiale botta ostgutiana. Ahia. Anche Caribou, come esperienza d’ascolto, è stato un po’ così: coi volumi non ben bilanciati tra loro (segno della difficoltà di trovare il giusto equilibrio per dare una resa sonora complessiva decente al pubblico).
Musicalmente Caribou ha fatto il suo, né più né meno, deve ancora rodare bene i pezzi nuovi (ma con “Sun” lunga dieci minuti messa alla fine, al solito vince facile). SBTRKT è stato da un lato interessante (non male la pasta sonora, saporita e non scontata) dall’altro irritante (ok che non puoi girare in tour con tutti gli ospiti dell’album, tuttavia quelle tracce vocali lanciate pari-pari facevano una tristezza da karaoke all’incontrario), ma almeno ha dimostrato di aver molto aggiustato il suo live set dopo le rovinose esperienze di quest’estate, vedi al Primavera. Non abbiamo sentito l’esibizione dei Jungle funestata da problemi tecnici (ma ce li ricordavamo un po’ insipidi, visti a settembre all’Unknown), abbiamo sentito Pantha Du Prince che è stato al solito elegante e ben rifinito, abbiamo sentito Apparat che è stato solido ed efficace (continua ad essere più un producer che un dj, e si vede, ma quando ci si mette d’impegno è uno che coinvolge bene anche quando mixa), abbiamo sentito Recondite che è stato molto bravo ed anche insospettabilmente forzuto, ma aveva uno degli slot di chiusura quindi questa era la cosa da fare. Forzutissimi, anche ben più del previsto, Axel Boman e John Talabot: un “forzismo” che in qualche modo non ha per niente penalizzato una certa prospettiva “cosmica” del loro set. Nota positivissima anche per loro, così come per Clark, anche lui momentaneamente evolutosi – come del resto accade nel suo ultimo LP – verso architetture techno poderose e quadrate.
Cosa resterà, allora, di questo Club To Club 2014? Resterà che il raddoppio delle notti al Lingotto si è dimostrato sostenibile, anche se forse aver diviso le forze così ha penalizzato il risultato complessivo, o meglio: la percezione di quanto l’evento sia andato bene (resta più nella memoria una serata trionfale che due buone). Resterà che Club To Club si conferma il numero uno per personalità, fra i festival elettronici “di qualità”, perché quando poteva affondare a colpo sicuro si è preso comunque i suoi rischi, come dicevamo, e ha tentato di rinnovarsi, evolversi: ottimo. Resterà che il rapporto con la città nel suo complesso è sempre vivo, organico, multiforme (vedi la giornata finale a San Salvario, che emozione e che suggestione le vibrazioni Basic Channel all’aperto sotto la pioggia in Piazza Madama Cristina, ma anche la scelta e l’allestimento dell’headquarters di quest’anno, all’AC Hotel). Resterà che questo primato sarà un po’ sub judice, finché non si riuscirà ad allestire meglio – tecnicamente e come portata scenografica – gli ambienti: l’Hiroshima Mon Amour è quello che è (e non si fa molto per cambiarlo), l’Astoria angusto (Morphosis ha regalato un set bellissimo e avventuroso, ma molti son rimasti fuori), il Teatro Carignano è effettivamente una meraviglia, il Padiglione del Lingotto è grande ma è allestito in modo troppo minimalista (leggi: non c’è quasi nulla, se non le proiezioni degli sponsor alle pareti, almeno quest’anno l’impianto luci sul palco era di prim’ordine) così come un po’ minimalista è l’attenzione nel tentare di dare un’amplificazione al top. Come detto da più parti, se per avere un’esperienza d’audio migliore si deve togliere uno o due nomi in line up, è un gioco che può valere la candela. Ormai la gente sa che da Club To Club come scelte artistiche avrà sempre la qualità (e Club To Club è bravissimo a comunicarla, a raccontarla): non è ormai un nome in più o in meno che cambierà questa percezione, è arrivato il momento di investire anche su altro. Non stiamo chiedendo di diventare un carrozzone fuoco, luci e fiamme “pour épater le tamarr”, assolutamente no, ma un po’ più di cura al lato estetico e tecnico del festival nei suoi luoghi incomincia a diventare ineludibile. Per restare, ancora a lungo, il numero uno. Perché sì, anche quest’anno comunque – pur con tutte le piccole perplessità, pur col fatto che altrove magari quest’anno ci siamo divertiti di più – resta la percezione che Club To Club è ancora al top.