In questi giorni ci siamo tutti un po’ fatti distrarre – o indignare, a seconda del grado di cazzimma – dal vecchietto di KFC che, sotto forma di pupazzone, è andato a fare il dj all’Ultra per una manciata di minuti, e manco sul palco secondario. Vi diamo qua un trittico di reazioni, tanto per coprire l’intero arco costituzionale. Iniziamo dal padre del genere techno tutto, Derrick May:
Derrick decisamente non le manda a dire, chiosando con un “L’avidità ucciderà la musica dance”. Si è fatta sentire anche The Black Madonna, spostando il focus come spesso le accade sulla discriminazione di genere (e con ancora un’eco di quelle favolose, idiote uscite di Konstantin della Giegling):
HAHAHAHAHAHAHAHA COLONEL SANDERS DJ SET. REMEMBER WHEN YALL SAID WOMEN DJS DIDNT GET BOOKED BECAUSE DANCE MUSIC IS A MERITOCRACY AND WE JUST WERENT THAT INTERESTED OR TALENTED ENOUGH TO HEADLINE STAGES. GOOD ONE!
— THE BLACK MADONNA (@blackmadonnachi) 31 marzo 2019
Ma se Derrick May e The Black Madonna sono in qualche modo i “soliti noti”, perché per vari motivi portatori dell’integrità nel campo più “sociale” della club culture, pure chi è delle nuova generazione ed è abituato a solcare i mari dell’EDM non ci è rimasto proprio benino, ad esempio Alison Wonderland:
this made me feel so awkward watching :/// wtf is this cringe. Ur right. There are some of the most amazing up and coming artists who should be seen and who deserve to be seen. Yuk.
— ALISON WONDERLAND (@awonderland) 30 marzo 2019
In realtà la nostra attenzione non era stata scossa più di tanto dal (loffio, anche nella reazione del pubblico) set del Colonel Sanders; un altro post era molto più presente e in rilievo nel nostro angoletto degli appunti di queste settimane, ed è quello di Idriss Dib, dj, boss della Memento, nonché agente di livello (parla chiaro la pagina Facebook dell’agenzia) con comunque sempre attenzione agli artisti italiani in primis sul mercato italiano. Leggetevelo con attenzione, merita:
Continuiamo? Beh: potremmo ricordare la nostra analisi sulla recente video-intervista di DVS1, in cui dice tante cose e tanto importanti. E queste sono solo le prime cose che ci vengono in mente, anzi, volendo potremmo pure mettere la recente messa in onda del documentario sul tragicomico Fyre Festival, un argomento che vi ha davvero molto appassionato.
Stiamo mettendo troppa carne al fuoco? Stiamo parlando di cose diverse fra loro? In realtà, no. O almeno, a noi pare di vedere un unico e preciso filo rosso che mette insieme tutte queste cose. E che ci può spingere a fare un recap su come stiamo messi oggi, anno 2019, su certe faccende. Le nostre. Bisogna identificare alcuni cluster chiari, ovvero festival, soldi, avidità, ipocrisia più o meno involontaria, e legarli fra loro.
Se ci leggete, probabilmente l’avrete notato: noi come Soundwall da tempo – e ci verrebbe da dire: da tempi non sospetti – sottolineiamo l’importanza di un aggiustamento di rotta a favore dei dj di casa nostra, di quelli locali. Non per sovranismo, non perché i dj stranieri ci rubino i soldi, le donne, le droghe e il lavoro (tanto più che ormai sono sempre più tutti morigerati, quindi al massimo intascano il cachet e abbastanza saluti al resto… non c’è più il rock’n’roll di una volta); il punto è che nella corsa – necessaria, e lunga anni – per sprovincializzare il mondo del clubbing italiano e farlo uscire da quella dimensione “discotecara” dove magari sì c’erano i Master At Work strapagati in console ma le dinamiche erano proprio da strapaese, anche nelle scelte gestionali, abbiamo finito con lo spingere tantissimo negli anni passati il concetto di guest straniero come punto qualificante di un discorso complessivo: questo perché se iniziavi a scegliere i guest stranieri stando attento alle indicazioni migliori della club culture europea e mondiale allora dimostravi di essere attento, appassionato alla musica e non solo al fatturato, pronto a un discorso culturale più che a uno da comodo portafoglio localaro, e insomma, tante cose belle, da contrapporre all’icona del gestore mezzo pirata che non ne sa un cazzo di musica e chiama i soliti tre, quattro nomi unti&consunti più i “Dj Pullman” locali e voilà, serata è fatta.
Per lo stesso identico motivo siamo sempre stati molto dalla parte dei festival, storicamente: quelli all’estero, perché in Italia non c’erano (a parte rare eccezioni, vedi Kappa FuturFestival / Movement e Club To Club, o un tempo Dissonanze); quelli di casa nostra, perché crescevano in un contesto che per mille motivi è veramente arcigno per far crescere un festival e perché comunque ci era sembrato che si fosse trovata una chiave sostenibile per fare discorsi di grande qualità (…e quindi ecco i Dancity, Jazz:Re:Found, Fat Fat Fat, Spring Attitude, Ortigia Sound System, tutti con la caratteristica di un attento discorso curatoriale e di una dimensione medio-piccola, senza inutili grandeur che difficilmente si confanno in modo diffuso alle risorse e alle condizioni di casa nostra).
Beh, sapete che c’è? In questo battaglia che ovviamente non è stata solo nostra ma di molti, moltissimi fra gli addetti ai lavori più avveduti, siamo andati gran bene. Siamo andati benissimo. Siamo andati, anzi, troppo bene. A furia di insistere sulla necessità di far crescere una scena tarata su ciò che è più fresco a Londra o Berlino (e non nella nostra provincia pappona), a furia di supportare tantissimo i festival, ci siamo accorti che si è via via formata una generazione di pubblico che ormai non le considera nemmeno, le serate in cui il “solito” guest straniero (quello diciamo “da Resident Advisor”, tanto per capirci, ed è un doveroso riconoscimento all’influenza RA) non è presente e viene invece rimpiazzato in cartellone da qualcuno semi-conosciuto e magari pure di casa nostra; così come subisce oggi molto ma molto di più il fascino dei festival, dell’andare ad un festival – finalmente!, quanto tempo ci abbiamo messo per convincere la gente che festival è bello – che quello, diverso ma altrettanto importante, del “costruire una comunità” frequentando regolarmente uno o più club durante la stagione indoor invernale, settimana dopo settimana.
Risultato? Il fee degli ospiti stranieri con un minimo di peso e “residentadvisorismo” è decollato fino a livelli quasi sconcertanti, e i festival vanno benino se non bene – e sono anche abbastanza attenzionati da sponsor e finanziatori – ma i club al contrario soffrono le pene dell’inferno e, sempre più spesso, chiudono, chiudono male. Le due cose sono collegate. Strettamente collegate. Perché se uno ci pensa bene, rientra tutto nella grande sfera del “WOW effect”: qualcosa che non c’è solo nel dorato mondo della dance commerciale di questi anni col suo taglio EDM “spettacolarista”, dove la cosa è esplicita ed ostentata, ma si è incuneato pure sotto mentite spoglie nell’apparentemente più rigoroso ed arcigno mondo techno e house.
Negli anni progressivamente la club culture in chiave techno e house è diventata sempre più una questione di “vantarsi”, piuttosto che di “vivere” le cose
All’EDM vogliono i fuochi d’artificio, le luci da aeroporto impazzito, le braccia sempre al cielo, il ritornello continuo, il drop ogni centottanta secondi? Beh, noi della techno e dell’house vogliamo il nome fighetto, quello che se lo citi e lo pronunci dai a vedere di saperla lunga, quello che è validato da tutti i principali media internazionali di settore, quello insomma che ti fa distinguere da quei poveri cristi pezzenti che non rientrano nella tua aristocratica scena: abbiamo preso il concetto di clubbing, e l’abbiamo virato in questo modo. L’abbiamo virato male: abbiamo esagerato. Il clubbing è effettivamente creare una comunità coesa e dalle regole particolari, diverse dalla “normalità” da casalinga di Voghera o da David Guetta, ma alla fine abbiamo perso di vista il “creare una comunità” col malcelato desiderio di “diventare casta”. Negli anni progressivamente la club culture è diventata sempre più una questione di “vantarsi”, piuttosto che di “vivere” le cose: ti vanti che sei nel privé, ti vanti che sei in console, ti vanti che ti fai dieci serate in sette giorni ad Ibiza, ti vanti che sei al Berghain, ti vanti che puoi imbucarti alla Boiler Room, ti vanti che sai vita morte e miracoli di Arca o Demdike Stare visto che ormai Sven Väth è da sfigati. Insomma: ti vanti, ti vanti, ti vanti. Completatela voi la lista, con altri esempi. Ve ne potrebbero venire in mente parecchi, no?
In questo modo, tolta l’allegra brigata ventenne che usa house e techno per sballarsi e agli eventi ci va comunque perché sa che lì può farsi felicione la giornata a pupille dilatate, abbiamo perso parecchio la capacità di relazionarci col mondo “normale”, di quelli a cui non frega granché di potersi vantare all’interno della comunità del clubbing. Non è solo questione che “mancano le hit”, come ci diceva tempo fa Lele Sacchi in una bellissima intervista (anche se questo è un fattore); è che proprio al momento di creare un ricambio generazionale ci siamo resi via via più snob e antipatici, noi trentenni e quarantenni che abbiamo tirato su il clubbing 2.0 in Italia, quello post-localaro, col risultato che le nuove generazioni senza pretese di fare gli esperti di stocazzo sono sciamate non poco negli accoglienti mari dell’EDM, dove (soprattutto all’inizio) era più importante divertirsi & stare bene che dimostrare di essere un espertone che la sa lunghissima.
Attenzione: non rinneghiamo nulla della battaglia contro la barbarie EDM, contro i lati più vuoti, superficiali e consumisti di ciò che propone, perché abbiamo visto in tanti saltare su quel carrozzone annusando l’affare e, beh, quasi tutti ora ne stanno scendendo alla chetichetta, con l’aria di dire “Io? A me l’EDM non è mai piaciuta!”, ma invece ci ricordiamo bene di quanto perculavano il nostro essere attaccati a certi valori tradizionali del clubbing, visti come perdenti e superati (…ne elenchiamo un po’? L’arte della pazienza, l’arte nel voler far diventare la serata un flusso elaborato ed espressivo non una raccolta di hit liofilizzate, l’arte di saper cogliere la bravura di un dj e il senso delle sue scelte, l’arte di non farsi troppo attrarre solo dai getti di co2, luci e coriandoli). Come dettoci tempo fa da Dave Clarke un pomeriggio ad Amsterdam: “Quelli che spingono l’EDM e un certo tipo di idea della dance facciano pure, non c’è problema, ma quando la bolla gli si sgonfierà in mano fanno meglio a non farsi più rivedere davanti a me, davanti a noi, perché basta, hanno fatto la loro scelta, non è che ora possono tornare indietro facendo finta di nulla. Li prendiamo a schiaffi”.
Non rinneghiamo nulla. Ma dobbiamo fare autocritica. Su certe cose, abbiamo sbagliato. Su certi snobismi, abbiamo esagerato.
Non solo. Ci siamo ritrovati a vantarci di essere “diversi” dalle derive più commerciali (sia come forma di fruizione, sia come circuito professional-lavorativo), ma mentre ce lo ripetevamo non ci siamo lamentati più di tanto quando abbiamo iniziato ad accorgerci che ormai ogni dj cerca di farsi prendere da un’agenzia (anche perché sennò non prende date, e siamo “noi” che non gliele facciamo fare: oggi metter su una serata electro, techno, house chiamando un nome che non abbia una struttura un minimo professionale dietro di sé è l’ipoteca perfetta per fare un buco da tredici persone che si guardano in faccia); o che ogni agenzia tenta di portare verso l’alto il fee (per aumentare il proprio guadagno) e richiede sempre più benefit per i propri assistiti (per giustificare il suo lavoro agli occhi degli artisti); o che ogni artista è sempre più attento a come si comunica piuttosto che a come suona (The Black Madonna dice tante cose bellissime, ma se devi intervistarla devi passare da un ufficio stampa che è lo stesso di Gianluca Vacchi, ed è un ufficio stampa della madonna, scusate il gioco di parole). Allo stesso modo, come già raccontato DVS1 dice delle cose bellissime sul riscoprire l’essenza delle cose nella techno e sfanculare i contesti massificati, ok, poi però se c’è da suonare in un certo tipo di festival che un po’ massificanti lo sono se l’offerta alla sua agenzia è giusta e le condizioni del contratto sono rispettate, lui a suonare ci va. E sempre allo stesso modo, il grido di dolore – e di richiamo alla realtà – di Idriss Dib nel suo post è accorato e ben articolato, ma come gli è stato fatto notare anche nei commenti poi però lui è il primo che quando c’è di mezzo il topliner del suo roster, beh, certe condizioni a quattro o cinque stelle vanno rispettate.
Ma non stiamo criticando DVS1 e Idriss Dib. Anzi: loro intanto hanno parlato, c’hanno messo la faccia, hanno sollevato l’argomento. Bravi. Bravi davvero. Siamo noi tutti, inteso come comunità del clubbing, che dobbiamo farci carico dei problemi di assestamento che stiamo vivendo oggi. Non è che se chiedi che ci sia meno attenzione alla cazzate, meno sete di guadagno, meno voglia di vivere fra lussi e agi inutili&decadenti, allora intanto o fai fin da subito te e solo te vita francescana, o la tua parola non conta un cazzo. In realtà abbiamo davvero un problema di ipocrisia di fondo – che nasce da questa dinamica del “vantarsi”, che è pervasiva a tutti i livelli – e dobbiamo farcene carico tutti assieme (perché tutti assieme ci riguarda), sapendo che la rotta non si può aggiustare in cinque secondi, ma serve una lunga, progressiva, complessa presa di coscienza. Che riguarda tutti, appunto. Riguarda gli artisti; riguarda il carrozzone che sempre più gira attorno agli artisti; riguarda il pubblico.
Pubblico che, se vuole fare una cosa intelligente, deve riprendere a privilegiare l’idea di clubbing così come è nata: una comunità, che ama ritrovarsi con buona frequenza, che conosce anche personalmente chi è in console (o comunque lo sente “vicino”, alla pari), che crea delle pratiche che sono “altre” rispetto al mainstream pop e al normale quotidiano.
Solo facendo così potremo diventare realmente indifferenti se l’Ultra vuole fare un mezzo omicidio della propria credibilità mettendo il nonnetto di KFC a fare il pagliaccio in console; perché se al momento la cosa ci tocca, ehi, è forse perché siamo troppo attaccati – inconsciamente o meno – all’idea di far parte della torta-Ultra anche noi, non solo perché vogliamo difendere la dignità culturale di tutto ciò che è deejaying. Anche perché la nostra dignità culturale al momento la stiamo dando un po’ troppo in prestito al discreto fascino del vantarsi, del tirarsela, del sentirsi in qualche modo vincenti&arrivati.
E allora, il rischio è che alla lunga ci stia quasi più simpatico il Colonel Sanders, quando fa il pupazzone in console.
.@KFC bought Colonel Sanders a slot on the @Ultra main stage, and this happened. 🐔🥚😂 | 📹: @1001TLtv pic.twitter.com/8qZfUZ7G4K
— Festive Owl (@TheFestiveOwl) 29 marzo 2019