Spesso per la leggenda del Plastic si va, giustamente, ad interrogare quel genio di Nicola Guiducci (qui una bellissima intervista/ritratto di Zero), uno dei più grandi e non convenzionali dj abbia mai attraversato il clubbing italiano; ma un’architrave assoluta da molto a tempo a questa parte della magia di quello che è uno dei club più carismatici d’Europa (continua ad essere tale, anche dopo il trasferimento dal semi-centro alla periferia sud di Milano) è Club Domani, la evoluzione di House Of Bordello, uno dei “cuori” della serata del sabato (e della storia del locale in generale). I suoi due artefici principali, Sergio Tavelli ed Andrea Ratti, hanno fatto uscire in queste settimane un EP che racconta un po’ lo spirito e la “vibrazione” sonora della serata (con tanto di ospiti famosi e/o fondamentali per la storia e lo spirito di Club Domani: Gea Politi, Syria – che canta un testo scritto da Dariella degli Amari, interessante cortocircuito – e poi ancora Stephanie Glitter, Vivelips e La Persia). Ne abbiamo approfittato per fare una lunga chiacchierata con Sergio ed Andrea: ormai un’istituzione il primo (anche se spesso il più giovane e dissacrante dei due…), ancora relativamente un newcomer il secondo (…anche se con la calma e la saggezza del veterano). Ne è venuta fuori una conversazione molto, molto interessante che tocca parecchi temi cruciali, anche nel (ri)pensare il club e il clubbing quando, finalmente, le cose ripartiranno. Molto interessante e, umanamente, veramente gradevole e divertente.
Vabbé, insomma: avete fatto la cosa giusta al momento sbagliato, no? Ovvero uscire con un EP di taglio dance, strettamente legato a ciò che è la serata Club Domani, esattamente quando è mesi che per cause di pandemia maggiore la serata non c’è e il disco non può “vivere” in pista…
Sergio: Esattamente. Ma era pronto, che ti devo dire…
Andrea: Pronto da poco.
Sergio: Abbiamo lavorato a distanza per finirlo, io e Andrea, stando chiusi in casa durante il lockdown.
Andrea: Però attenzione, in realtà questo EP era in cantiere già da un po’.
Sergio: Se ne parlava da tempo, vero.
Andrea: Non avendo altro da fare, a Plastic e tutto il resto chiuso, ci siamo messi lì… e l’abbiamo finito.
Al che vi siete detti “Massì, ma al diavolo, facciamolo uscire”…
Sergio: “My Business” era già pronta da un bel po’, e volevamo farla uscire per il Pride milanese: sarebbe stato un brano perfetto come colonna sonora. Ovviamente è saltato tutto. Però ecco, a tenerla ferma lì tipo per mesi e mesi probabilmente ad un certo punto la traccia avrebbe iniziato a non piacerci più…
Andrea: E poi c’era l’idea che sì, non possiamo forse fare la nostra serata, ma siamo “vivi” – e ci tenevamo a farlo sapere.
Sergio: Sempre che a qualcuno interessasse, eh… (risate, NdI)
Beh, Club Domani è una serata molto sentita e, sotto molti punti di vista, “intima”. C’è infatti davvero un senso di comunità, fra chi la frequenta storicamente. Nel momento in cui questa serata si è fermata, la “comunità” si è fatta comunque sentire? L’avete sentita vicina e presente?
Sergio: Sì, sì. Si è fatta sentire così tanto che l’impressione, oggi, è come se fossimo chiusi da un paio di settimane, e non da mesi. Soprattutto durante il primo lockdown i messaggi sono stati veramente tanti, sui social e non solo, ma anche adesso continuano ad arrivare.
Ve l’aspettavate?
Sergio: Di restare chiusi per mesi? (ride, NdI)
Dai, ci siamo capiti…
Andrea: Beh, un po’ sì.
Sergio: L’affetto lo sentiamo sempre, anche quando la serata va avanti regolarmente ogni sette giorni; e anche quando restiamo chiusi d’estate, per un paio di mesi. Lì è un affetto “piacevole”, ecco: perché sai che è solo una pausa temporanea, che tutto è pronto a riprendere. Ora è un po’ diverso. Però sinceramente non è che voglia cavalcare molto questa cosa. Oggi questa cosa della “nostalgia”, del rimpianto, qualunque forma assuma. Se anche per assurdo Club Domani dovesse finire ora, amen, succede, cose che succedono. Non è colpa nostra. Non è colpa di nessuno. O forse, colpa di tutti. Chissà. Ma inutile stare lì a piangere e lamentarsi.
Andrea: Infatti nei social legati alla serata ci siamo astenuti dal metterci lì a postare ricordi.
Sergio: Sai cosa? Il club è una cosa che va vissuta, sul posto, fisicamente. Non è qualcosa che va guardato, o ascoltato, né tantomeno visto dietro uno schermo. Soprattutto in una serata come la nostra, che sì, effettivamente è molto “intima”: la gente viene proprio per stare insieme, per salutarsi, abbracciarsi, parlarsi. E’ una serata di amici, ecco. Magari non amici quotidianamente, ma per quel sabato sera di sicuro sì. In fondo, ti incontri al Plastic esattamente come ti puoi incontrare al bar sotto casa. E’ inutile cercare dei succedanei, che sia sul web o non so come: il nostro clubbing, è questo.
Se prima avevi vent’anni e ora ne hai cinquanta, che senso ha mettersi a fare dei paragoni?
Che poi è interessante questo rifiuto della nostalgia – che mi piace molto, eh – lì dove però nell’EP che è uscito si guarda molto ad un immaginario “storico” del clubbing milanese, dalla “Milano da bere” alla stagione dell’electroclash… Qual è il giusto rapporto da avere con la “nostalgia”, quindi?
Andrea: A noi non piace indulgere troppo in quello che era la storia del Plastic, ma preferiamo pensare a quello che avverrà domani. E questo tra l’altro proprio perché la storia del Plastic è, effettivamente, importantissima. Un motivo in più per non sfruttarla passivamente. Però per quanto riguarda l’EP abbiamo lasciato carta bianca ai nostri ospiti: Gea Politi ha parlato della “Milano da bere” perché le sembrava giusto così, e a noi andava benissimo.
Sergio: Anche perché comunque è oggettivamente un aspetto per cui Milano è diventata famosa, quel periodo lì.
(Eccolo, l’EP; continua sotto)
Ecco, con quel periodo che rapporto avete?
Sergio: Beh, quando io mi sono trasferito a Milano quel periodo già non c’era più. Ma di sicuro si percepiva come fosse stato una fase molto forte, a livello d’impatto. Il momento simbolico in cui è finita, penso agli arresti legati al Pio Albergo Trivulzio, è ben impresso nella mia memoria, è “arrivato” fino a me in maniera molto nitida, anche da ragazzino tra metropoli e Valtellina. Sai, era una Milano dove il potere si mischiava parecchio al mondo della notte, al mangiare bene, al bere bene. De Michelis al Plastic ci andava, così come poteva andare al Savini, o al Diva, o all’Amnesie.
Oggi viene sempre da parlare in termini negativi di quel periodo, ma forse c’erano anche dei lati interessanti, “vivi”, creativi.
Andrea: …e criminali, anche (sorride, NdI).
Ah, indubbiamente.
Sergio: Io come ti dicevo non ho fatto in tempo a vivere quel periodo lì, ma di sicuro è stato un momento in cui Milano ha raggiunto un posto centrale nell’immaginario collettivo come poche altre volte. E lo ha raggiunto facendo parlare anche molto delle serate, dei personaggi che le frequentavano, dei dj, della notte. E non nella maniera in cui lo si fa oggi, per cui guadagnano attenzione solo ed esclusivamente le grandi serate in grandi contenitori con grandi nomi: si parlava dei club, invece. Si parlava del Plastic – ma non solo. L’Hollywood, per dire, all’epoca era un posto davvero interessante: avevo sedici anni la prima volta che ci entrai e beh, ne rimasi affascinato. Era il 1989. La mia prima serata di clubbing! Con mia zia e una sua amica. Era l’ultimo sabato prima che riaprissero le scuole. Andai all’Hollywood (al tempo un club rock), e poi finimmo al Plastic. La prima cosa che pensai entrandoci fu: “Ma che è ‘sta roba?”. L’ultima che pensai prima di uscirne per tornare a casa: “Oh, questo è il MIO posto”. Tornando verso casa, in macchina, continuavo a pensarci, a ‘sto Plastic, a quello che ci avevo visto, all’atmosfera che avevo respirato.
“Questo è il MIO posto” nel senso di “Ok, voglio lavorare qui”?
Sergio: No no no, assolutamente: non pensavo assolutamente ad una cosa del genere. Mai avrei immaginato di finire col lavorare lì, credimi.
E quindi come è successo?
Sergio: Un po’ per caso, come del resto accade con tutte le cose belle. Una sera ero venuto a dare una mano ad un mio amico che al Plastic ci lavorava, sì, ma al guardaroba; qualche sera successiva questo mio amico non era potuto venire, e la Pinky mi aveva chiesto se potevo sostituirlo. Andò tutto bene, e qualche serata dopo ancora mi trovai a fare delle sostituzioni al bar. Insomma, piano piano diventai una presenza “normale” non più fra il pubblico ma dentro lo staff. E’ iniziato tutto così. Ma non è che avessi pensato lì per lì “Voglio fare il dj del Plastic” o anche solo “Voglio fare il barista del Plastic”; piuttosto, avevo pensato “Bene dai, riesco a lavorare lì al bar così tiro su due lire”. Mai avrei pensato che quel posto sarebbe diventato la mia vita. Oddio, a dire il vero forse facevo meglio a continuare a non pensarlo…? (risate, NdI)
Però quel posto ti aveva attratto fin da subito, una volta trasferitoti definitivamente a Milano.
Sergio: Vero. Dalla Valtellina mi ero trasferito a Milano, per l’università. Il mio primo giorno da cittadino milanese fu un giovedì; e il giovedì sera ero già al Plastic. Da solo.
Ah, questa è un’ottima medaglia! Stimo un sacco chi va nei club da solo!
Sergio: E attento, non ti sto raccontando tutto questo con un senso di nostalgia – ti sto solo riferendo dei ricordi. Mai e poi mai è mia intenzione dire “Eh, era meglio prima”. Anche perché “prima” avevo vent’anni, ora ne ho cinquanta: che senso ha fare dei paragoni? Ma che, veramente? Di sicuro però all’epoca, appena trasferito in città, uscivo tutte le sere, questo sì. A ballare. Da solo. Ma perché in ogni posto sapevo che avrei trovato degli amici o delle persone interessanti da conoscere. In tutte queste serate, tendenzialmente, il Plastic finiva coll’essere di regola la tappa finale. Era fin da allora un punto di riferimento.
E tu, Andrea?
Andrea: Se per Sergio la prima serata è stata al Plastic nel 1989, beh, il 1989 è l’anno in cui io sono nato, quindi figurati… (risate, NdI) Devo dire però che in tutta la mia adolescenza non ho mai messo piede in una discoteca, appartenevo ad un mondo molto diverso – il mio mondo era farsi le canne ai centri sociali, la regola era un po’ quella. Poi però da quasi maggiorenne sono finito al Glitter; la situazione non mi è dispiaciuta, e allora ho iniziato a frequentare prima il Gasoline e poi, sì, il Plastic. Lì il clubbing mi ha preso, conquistato. Ho iniziato a uscire regolarmente ogni venerdì, ogni sabato, ogni domenica.
Anche tu, per quanto riguarda il Plastic da “interno”, sei partito dal guardaroba?
Sergio: Guardaroba, the place to be! (risate, NdI)
Andrea: No, no! Ad un certo ho iniziato ad avere, quasi per sbaglio, una residenza al Bar Cuore, in zona Colonne; da lì poi sono finito in console all’Atomic, al Blanco, al Rocket, al Gasoline… Ecco, proprio durante una serata al Rocket c’era fra il pubblico Nicola Guiducci, a cui evidentemente ero piaciuto e mi disse all’improvviso “Ma perché non vieni a suonare con me al Plastic il sabato?”. E’ andata così. Sarò sincero: nel momento in cui ho iniziato seriamente a fare il dj, finire al Plastic era un po’ il mio obiettivo segreto, il traguardo che mi ero messo in testa.
Direi che ce l’hai fatta.
Andrea: Prima del Plastic, avevo lavorato parecchio in giro, molte volte con Albert Hofer e Le Cannibale. Al Plastic da dj c’ho messo piede la prima volta nel 2009; dal 2012, sono diventato una presenza abituale.
Se sei promoter, infilarsi nella “gara dell’ospite” ti porta a vivere male la serata, passi tutto il tempo a pensare a cosa faranno i tuoi concorrenti, e se hai un ospite che vale molto – o semplicemente hai pagato molto – quest’ansia sarà praticamente raddoppiata
Tolto quello che suonate adesso a Club Domani, quali sono secondo voi le fasi musicali più interessanti che siano passate per il Plastic in questi anni?
Sergio: A me non piace dichiararmi legato a specifici stili di musica, rimpiangere questo o quel periodo; di sicuro però quando entravi e sentivi i Pulp o gli Suede, era fantastico…
Che poi non era così scontato sentirli suonare in un club, in una discoteca.
Sergio: Esatto. E quello era il bello. Poi, sempre tornando indietro con la memoria, un altro universo sonoro a cui sono indubbiamente legato è quello della house anni ’90. Sai, è il suono che ti riporta ad anni di spensieratezza vera, totale, anni in cui potevi decidere di punto in bianco di partire per Riccione per andare a ballare. O anche solo di partire per Milano, che già era emozionante così.
Ma mi sa, andando un po’ più avanti negli anni, che sei rimasto molto legato anche alla stagione dell’electroclash. Nell’EP che è uscito ora la cosa si sente eccome.
Sergio: Vero, mi piaceva tantissimo.
E ti piace tutt’ora.
Sergio: Sì, mi piace tutt’ora. Ma ti dico la verità: spesso riascolto le cose electroclash che mettevo in serata anni fa e, onestamente, poche di queste mi viene voglia di risuonarle oggi. All’epoca trovavo tutto incredibilmente moderno, ma risentito tutto con la consapevolezza che posso avere adesso… Era musica divertente, tanto!, quello sì, ma era anche piuttosto raffazzonata, diciamolo. Che poi non è un difetto, in fondo, o almeno non del tutto. Ancora adesso se la riascolto mi diverto, ma è più un divertimento mio. Infatti i vinili li ho lasciati tutti in Valtellina, non sono più qua con me nella mia casa milanese.
Come fate a gestire il gap generazionale che c’è fra di voi?
Sergio: Ci riusciamo molto bene: perché Andrea è molto più vecchio di quanto dice la sua carta d’identità, e io sono molto più giovane (risate, NdI)…
Ci sta, ci sta.
Sergio: E ti dirò di più: ogni anni che passa, lui invecchia ma io ringiovanisco.
Vi è mai capitato di discutere su scelte di musica?
Sergio: No!
Andrea: Non è mai capitato. Nemmeno le prime volte che ci siamo trovati a costruire la serata assieme. Io ho suonato quello che volevo suonare, lui ha fatto lo stesso, e ci siamo trovati bene. Abbiamo un approccio diverso, ma questa diversità si amalgama evidentemente bene.
Sergio: Lui è bravissimo in una cosa molto difficile: portare la gente dall’inizio serata, quel momento in cui la musica l’ascolti e basta, al mettersi a ballare. Ed è una cosa che succede in maniera molto naturale, con lui. Quando attacco io la pista è già piena e la gente sta già ballando, e nemmeno si ricorda bene di come e perché abbia iniziato a farlo, visto che è avvenuto tutto con una progressione molto naturale, spontanea. Vera è una cosa, però: quando suona Andrea, io sono sempre lì ad ascoltarlo; quando suono io, lui se ne va! (risate, NdI)
Quanto è difficile la pista di Club Domani? Quanto è schizzinosa?
Andrea: E’ difficile perché oltre ad essere una pista è anche comunque un punto di passaggio, le due cose assieme, per come sono disposte le sale del Plastic. Col risultato che se metti un pezzo che non funziona, la gente ci mette poco ad andarsene via.
Sergio: Già, ci mette nulla ad andare nella sala di Guiducci seguendo una direzione, in quella della Stryxia seguendo la via di fuga opposta.
Andrea: La conseguenza è che, rispetto ad altri posti, devi sempre tenere il livello di energia piuttosto alto: appena metti un pezzo che fa un po’ di decompressione, vedi la pista che si svuota, o anche solo cala d’intensità.
E’ che voi siete i resident, e siete i resident di una serata che non ha ospiti. Quindi non è che uno si sente per forza obbligato a stare lì a sentirvi, magari vi dà un po’ per scontati…
Sergio: E’ una politica che intenzionalmente non abbiamo mai voluto fare, quella dell’ospite. Sì, ogni tanto qualcuno c’è, a fare da ospite, ma solo perché è amico nostro, non è che sia “il richiamo” della serata.
Andrea: All’inizio in realtà abbiamo anche provato a fare nomi di un certo tipo, ricordo ad esempio In Flagranti. Ma abbiamo capito subito che al nostro pubblico non interessa tanto l’ospite, come concetto.
Sergio: Le serate funzionano meglio quando ci siamo solo io ed Andrea. Il nostro è un pubblico fatto almeno all’80% da aficionados: sanno bene che all’inizio suona Andrea, poi alle 2:30 attacco io, e verso le 4 inizio a “guidare” musicalmente verso il fine serata… Quando c’è un ospite di mezzo questa routine cambia: io devo iniziare un po’ dopo, Andrea deve finire un po’ prima, e questo un po’ spezza l’energia, l’intensità, anche nei casi in cui l’ospite sia comunque bravissimo. E se perdi intensità, la gente si rifugia subito dove trova certezze: che sia Nicola (Guiducci, NdI) in una sala, o la Stryxia nell’altra.
La selezione all’ingresso? E’ un gioco. Semplicemente un gioco. Chi non lo prende come tale, beh, è un motivo in più per non farlo entrare
Ti sei però mai sentito intrappolato da tutto questo? In fondo, diventa un po’ un “binario obbligato”.
Sergio: No. Perché mi sono sempre sentito di avere la più totale libertà musicale.
Puoi prendertela davvero quindi, questa libertà? Non c’è il rischio che la pista si svuoti? Che per qualche scelta musicale troppo particolare o personale l’intensità cali troppo?
Sergio: Vedi, ci sono delle serate che hanno una energia fortissima proprio a prescindere da quello che suoni. E vale anche il contrario. Certe volte sono io che dal punto di vista personale ho meno intensità, ho altri pensieri per la testa, e questo la gente – credimi – lo avverte. Puoi suonare quello che vuoi, ma la gente lo avverte. Club Domani è davvero molto un dare-e-prendere tra dj e pista. Avverto moltissimo questa cosa. Forse perché siamo un appuntamento fisso settimanale, non so.
Andrea: La gente paga per divertirsi, non per sentire le nostre pippe mentali su questo o quella direzione musicale. Non ho mai fatto una scaletta predeterminata, con scelte già fatte, con cose che volevo suonare per forza.
Sergio: Ma poi, la figura del guest… boh. Sai cosa? Io mi sentirei in imbarazzo ad essere tutto il tempo lì, in alto, in console, con la gente che mi fissa, a fare da attrazione della serata. Eh: io non sono né voglio essere un entertainer da palcoscenico. Io devo mettere musica. E la gente deve ballare, bere, comunicare con gli amici.
Andrea: Vale lo stesso anche per me. Vedi, a me comunque piaceva molto fare le serate di Le Cannibale al Tunnel, che erano costruite attorno al concetto di guest, di “dj che sta un palco”, ma al tempo stesso le soffrivo tanto, tantissimo. Sei lì, in vista, con la gente che ti guarda… Non mi piace essere così al centro della scena, e non mi piace nemmeno stare su un palco molto rialzato rispetto al dancefloor. Ricordo quando io e Sergio siamo andati a Padova, in una situazione con duemila persone, non solo eravamo su un palco, no, eravamo tipo un palco sopra un altro palco, a dominare proprio tutto quanto: è stato assurdo. Eravamo così lontani dal dancefloor che se per caso spegnevi i monitor in console, l’impianto era così distante che manco avremmo sentito la musica.
Beh, se proprio questa atipicità di Club Domani fosse il segreto del suo successo e soprattutto della sua longevità?
Sergio: Non ci ho mai pensato, lo ammetto.
Andrea: Di sicuro la nostra formula ha dei grossi vantaggi. A partire da quelli economici. Ma non solo quelli, sai, perché infilarsi nella “gara dell’ospite” ti porta a vivere male la serata: passi tutto il tempo a pensare a cosa faranno i tuoi concorrenti, e se hai un ospite che vale molto – o semplicemente hai pagato molto – quest’ansia sarà praticamente raddoppiata. Può diventare angosciante. Noi, per fortuna, siamo fuori da tutto questo.
Che a Milano però era diventata abbastanza la regola.
Andrea: Vero.
Sergio: Ascolta, il Plastic non è diventato amato per questo o quell’ospite famoso in console. Il Plastic è diventato famoso perché è sempre stato una famiglia. E questo deve rimanere.
Gli ospiti famosi in realtà ci sono stati, ma più spesso in pista in mezzo a tutti che in console come guest ufficiale.
Sergio: E magari chi si proponeva come guest, noi gli dicevamo di no.
Quanti “No” avete dato, negli anni?
Sergio: Io, di norma, cestino proprio per principio le richieste di chi vuole suonare da noi. Perché vedi, se non ti abbiamo chiamato – un motivo c’è! Inutile che ti fai vivo tu, o chi vende le tue date. Lascia perdere. A me interessa che la gente si diverta. Mi interessa molto di più questo, che l’incasso grosso che posso tirare fuori da una serata mettendo in campo dei nomi pesanti.
Ora però Sergio nel Plastic sei proprio entrato in società.
Sergio: Vero.
Ti pesa ogni tanto, la cosa? Perché lì due conti bisogna comunque farli…
Sergio: Sì, ma questi conti diventano un problema magari durante la settimana, non mentre suoni, non mentre sei in serata. In serata, non ci pensi.
Come sono gli equilibri fra voi soci del club? Avete dei caratteri abbastanza diversi…
Sergio: Ognuno ha i suoi compiti e le sue responsabilità. Ma ci sentiamo una famiglia: ognuno ha la libertà di fare quello che vuole, sì, ma ne discute sempre con gli altri. Ci rispettiamo molto, e lavoriamo molto bene insieme.
Ma questa famosa politica draconiana degli ingressi, della selezione? Esiste? Non esiste?
Sergio: Oh madonna… E’ un gioco, è solo un gioco.
Voi siete stati un po’ il Berghain prima del Berghain…
Sergio: Sì, va bene; ma è sempre stato un gioco.
Non sempre la gente lo prende come tale.
Sergio: Perfetto. Chi non lo prende come tale, è un motivo in più per non farlo entrare.
Ottima constatazione.
Sergio: Se uno deve andare in discoteca e quando arrivi lì ti dicono “No, non entri” non è mica un dramma, non è che ti stanno negando un contributo dell’INPS! E’ una serata: in città ci sono diecimila discoteche, se non puoi entrare da noi vai da un’altra parte, che problema c’è? Oh, tante volte mi è capitato di entrare in un locale e, una volta dentro, ho pensato “Madonna, ma che ci faccio io qui…”: se ci fosse stata una selezione migliore all’ingresso, beh, avrei evitato di buttare i miei soldi per comprare il biglietto per entrare! Mi avrebbero respinto dall’inizio, e saremmo stati tutti più contenti a fine serata: sia il locale, che il sottoscritto.
Andrea: Eh, Sergio dice così, ma in effetti c’è chi ci tiene molto ad entrare al Plastic: e se questo succede è anche perché in effetti è una grande famiglia. Ma è una grande famiglia proprio perché c’è un po’ di selezione all’ingresso. Da noi sai che non troverai mai, o quasi mai, un attaccabrighe; sai che se sei una ragazza non ci sarà mai qualcuno che ti molesterà. Il risultato? Una volta dentro, respirerai una atmosfera davvero rilassata, piacevole. Io capisco che, vista da fuori, la selezione sia una cosa molto antipatica, non è che la cosa mi sfugga o non ci pensi; ma credimi, una volta che entri dentro capisci meglio perché possa diventare una cosa positiva farla. Se si sta bene da noi, è anche per la selezione.
Tra l’altro, mi pare che siate sempre riusciti ad avere dei buoni ricambi generazionali, tra il vostro pubblico.
Andrea: Vero.
Sergio: Ogni tot anni, c’è un grosso ricambio generazionale. L’ultimo è stato due anni fa ed è stato davvero importante. Perché questo succeda davvero, non lo so; diciamo che a spanne ogni tre, quattro anni la gente effettivamente cambia. Questo comunque non può che farmi felice: sono trent’anni che sto dentro al Plastic e figurati che noia se ci fossero dentro sempre le stesse persone.
Tra l’altro manco vi sforzate di prenderle, le nuove generazioni per il ricambio. Non avete una rete di PR.
Sergio: Zero.
Né una politica aggressiva di marketing sui social.
Sergio: Ma non ci pensiamo nemmeno! E’ la cosa più cheap del mondo leggere “Sponsorizzato” sotto il post di una serata. Guarda: se paghi pur di far vedere i tuoi contenuti, vuol dire che in realtà vali poco. A maggior ragione se lo fai e sei un PR: che PR sei, se hai bisogno di un aiuto di questo tipo? Me lo spieghi? Poi sì, lo so che ci sono anche serate che si sponsorizzano sui social, e che comunque valgono: ma nulla, è più forte di me, la trovo sempre una cosa piuttosto svilente.
Quanto è antipatica Milano, vista dall’esterno? Ve lo siete mai chiesto?
Sergio: No. Ovviamente, perché tutti noi che ci viviamo siamo profondamente antipatici… (sorride, NdI)
Sì, eh?
Sergio: Antipatici, e snob. Siamo sopra tutto e tutti. Quindi le critiche manco le sentiamo (risate, NdI).
E’ un gioco, insomma.
Sergio: Ma certo.
Forse uno dei problemi di Milano è che si prende troppo sul serio… e appunto, non capisce che certe cose sono o possono essere un gioco.
Sergio: E’ una città molto seria, molto ordinata. Una città che funziona. Ma che per fortuna sa anche divertirsi, dai.
Del resto anche tu Sergio avevi e hai una fama di persona non semplicissima, un po’ scostante…
Andrea: Ma no, ma cosa dici, ma quando mai… (risate, NdI)
Sergio: (ridendo, NdI): Beh. Se sono solo, ci sarà un motivo.