Il Club To Club è una bella storia, per molti motivi diversi. Perché da sedici anni porta avanti un festival con i piedi in Italia e con testa e cuore in Europa; perché ha saputo conquistare spazi torinesi sempre più grandi/esclusivi diventando qualcosa di credibile sia per gli “addetti alla cultura” (citando Franco Battiato che è stato uno dei protagonisti dell’edizione del 2014) che per il pubblico; perché ad un certo punto Torino non è bastata più e sotto l’ombrello “Club To Club” sono nate rassegne parallele in giro per il mondo con la stessa filosofia di base; perché remando contro gli immobilismi dei finanziamenti “istituzionali” riesce ad essere all’altezza delle aspettative; non ultimo perché non si accontenta di una proposta “facile” con nomi riempi-pista, ma si prende dei rischi non da poco nella composizione di calendari che hanno una visione artistica complessa, cartina di tornasole su ciò che oggi è avanguardia ma anche su ciò che è – o potrebbe essere – il nuovo pop (nell’accezione più obliqua possibile). Volendo utilizzare la parola più adoperata dagli stessi organizzatori è insomma un festival “avant-pop”, sicuramente uno dei migliori luoghi in Italia dove ascoltare ciò che di buono c’è in quell’alveo sempre più allargato – e contaminato – delle sonorità elettroniche.
L’edizione 2016, appena conclusa, non ha disatteso le nostre aspettative, anzi ha ampliato le influenze e il respiro del festival, andando a pescare ancora più in profondità rispetto alle avanguardie elettroniche e agli stili più diretti-autentici-spigolosi dell’oggi musicale, ma anche portando in evidenza il pop più trasversale, quando è mescolato cioè all’hip-hop, alle sonorità dance, a quelle sperimentali. Inoltre, e questo è stato a nostro avviso il vero punto di forza di questa sedicesima edizione targata “C2C”, è stata palese la voglia di dare voce a mondi sonori meno in evidenza, meno patinati, meno chiacchierati – Sudafrica e Medio Oriente in primis – tanto che ci è sembrato utile preparare uno speciale pre-festival chiamato “L’altro Club To Club”.
Gestire una realtà festivaliera così ambiziosa e articolata – lo possiamo bene immaginare – non è per nulla semplice, per questo il nostro giudizio sulla logistica ne risulta stemperato. Il fatto di spostarsi con difficoltà dalla grande sala centrale del Lingotto a quella più piccola, per via di lunghe file per entrare in quest’ultima, oppure un impianto che oscilla tra l’ottimo ed il sufficiente (penalizzato soprattutto il venerdì in sala piccola dai volumi altalenanti verso il basso), vengono in secondo piano rispetto all’ammirazione nei confronti di chi ha reso possibile questa realtà, fatta di addetti ai lavori competenti e lungimiranti e di volontari solo all’apparenza invisibili ma più che indispensabili. Certo, ci sono ancora aspetti su cui dover lavorare per rendere l’esperienza perfetta e allineata agli standard europei migliori, ma dopo quest’ultima edizione ci sentiamo di affermare che dal punto di vista artistico sia stato tutto perfettamente all’altezza.
Quelle che seguono sono le nostre impressioni “a caldo” (a cura di Maurizio Narciso e Giulia Scrocchi) riguardo i principali protagonisti del festival ma anche sugli outsider potati al verbo del “vietata-la-cassa-dritta”. Al di là delle singole valutazioni, rimane l’impressione di aver assistito a qualcosa di veramente importante, per livello artistico, per risonanza culturale e – teniamo a ribadirlo – per coraggio della proposta.
Arca: l’anteprima del giovedì ha una stella unica ed indiscutibile, cosa certificata anche dalla sua presenza in cima al cartellone del festival – non solo per motivi di precedenza alfabetica. Detto chiaramente: con Arca ci si è divertiti. Anche molto, in certi passaggi. Ma esattamente come ci si può divertire ad una serata trash, dove il dj ha discreta cultura e molto sense of humour (e ha comunque alzato quel paio di bicchierini in più, che lo fanno mixare un po’ a casaccio e tenere tutti i pezzi leggermente in fastidiosa distorsione). Poi ok, lui è un personaggio, infila degli improvvisi siparietti “almodovariani” in cui esce dalla console e si mette a cantare, vestito in modo trans-improbabile; ma nulla che giustifichi davvero lo scomodare alte teorie filosofiche e socio-politiche, come spesso, troppo spesso accade nel suo caso. Ha mixato di tutto, anche commercialissima latino-americana o hip hop da club americano (quindi non proprio underground), spesso è stato nel sorridente cattivo gusto, i visual d’accompagnamento di Jesse Kanda erano tra l’assurdo, il bizzarro e il pessimo (e fondamentalmente se ne poteva fare a meno), comunque ci si è divertiti. Va bene così. Però ecco, le nuove frontiere dello stile e dell’evoluzione socio-musicale stanno altrove, non nel set che si è visto a Torino.
Swans: il venerdì di Club To Club si apre con la “mantrica” voce di Michael Gira, leader degli apocalittici Swans, band leggendaria rappresentativa dell’alternative-rock newyorkese. Gira, dietro al microfono, sembra esser nato per stare sul palco: quando qualcuno ha veramente qualcosa da dire, lo si capisce subito. A prescindere dal fatto che il suono degli Swans ti rappresenti o meno, non potrai evitare di rimanere lì ad ascoltare, incuriosito, forse rapito, affascinato sicuramente. Condotto nel limbo della loro apocalisse, tra esplosioni di chitarre e ritmiche potenti, invitato dal movimento circolare delle braccia di Michael Gira: ipnotico. Partendo dai canoni estetici del rock e dell’hardcore, toccando con estrema sicurezza i confini della distorsione – e del fastidio controllato – gli Swans ci hanno reso partecipi della loro personale visione di rock industriale – perché violento, urbano, estremo – e gotico – perché sciamanico, spettrale. Un’esibizione magnetica.
Mura Masa: l’interessante contrasto tra le capacità compositive, organizzative, espressive e la sua età, (è giovanissimo, classe 1996) pone il live di Mura Masa tra le piacevoli sorprese del festival. Della sua esibizione, strutturata e suddivisa come un vero concerto, colpiscono diversi aspetti. Primo, l’uso della batteria elettronica, fulcro dell’esibizione, Mura Masa riesce a trasmettere efficacemente la sua padronanza dello strumento, in quanto ogni traccia viene contraddistinta da una sequenza ritmica di batteria che dà le coordinate principali del genere d’appartenenza. Ma non è solo la batteria ad essere un elemento interessante, perché Alex Crossan si presenta come polistrumentista, passando dal fare il percussionista a suonare le parti melodiche dei synth dal vivo con una facilità estrema (o perlomeno è così che la fa sembrare). L’accompagnamento vocale della cantante irlandese Bonzai, ha senza dubbio dato al live una marcia in più grazie alle calde sfumature R&B della sua voce, alternate ad un’elegante rappato. Il pubblico in estasi alle prime note di “Love$ick” e “Lotus Eater” confermano la validità della loro proposta.
Powell: gli Swans lasciano il palco principale a Powell. Lui è un grande intrattenitore di folle, uno di quelli della “nuova scuola”, uno di quelli su cui “il pubblico underground” ha già scommesso molto. Si presenta sicuro di sé, l’inglese, ma il suo live si lascia alle spalle momenti di incertezza, seppur realizzato con una interessante varietà sonora. Le tracce, infatti, mutano pelle ogni minuto e mezzo senza un’apparente sequenza logica, lasciando ai presenti una strana sensazione di disorientamento. Trasudano comunque forti e chiare tutte le sue influenze: dall’EBM, alla rave music, all’industrial, fino al punk e al post-punk. Quello che colpisce di più è proprio l’attitudine punk dell’esecuzione, sia a livello di grana sonora – e di selezione dagli accostamenti arditi – che di performance vera e propria, tra movenze euforiche, salti e birre sbattute sul tavolo. Apprezzare o no questi aspetti, rimane strettamente soggettivo; sappiamo bene che il produttore ha del talento, ma in questa esibizione le apparenze sembrano aver preso il sopravvento sulla sostanza.
Amnesia Scanner: l’avevamo preannunciato ne “L’altro Club To Club”, degli Amnesia Scanner in questa edizione del festival ce n’era proprio bisogno, e ce ne sarebbe bisogno un po’ in tutti i festival, italiani e non. L’avevamo compreso ascoltando il loro ultimo album “As” e il loro live ci ha dato le conferme che cercavamo. Profonde immersioni cyber cinematografiche in alta definizione, in quel suggestivo limbo della musica “post-clubbing” intesa come “oltre-il-clubbing”; musica “hi-tech”: suoni tirati a lucido, trame fredde e affilate, linee taglienti e assieme fluide. Un’elettronica vitrea e più vera del vero che riflette non solo l’immaginario, ma anche gli umori, la frenesia, la frustrazione, gli stati emotivi del “tecno-capitalismo globale” con le sue innumerevoli interfacce virtuali. In sintesi? Il mondo moderno visto tramite gli occhi degli Amnesia Scanner.
Laurent Garnier: il punto è che oramai da Laurent Garnier ci si aspetta sempre tanto, tantissimo. Va così perché parliamo di uno di quelli che la storia della musica elettronica ce l’ha tra le dita e l’esaltazione può, in un attimo, diventare delusione. Questo è po’ quello che è successo durante le tre lunghe ore del suo set torinese. Un’esibizione sottotono e, se vogliamo, fuori contesto, considerato che il Club To Club – quest’anno più che mai – ha voluto guardare avanti, esplorare nuovi orizzonti, senza la necessità di rifugiarsi dietro grandi nomi dell’elettronica mondiale. La domanda a questo punto è perché fare un set con questa attitudine? Non si può pensare che Garnier non sarebbe stato in grado di proporre qualcosa di più distintivo ed eccentrico, quindi l’amarezza rimane ancor più vivida. Ci sentiamo comunque in dovere di prendere in considerazione anche l’altro lato della medaglia: c’è stata indubbiamente una parte di pubblico che ha risposto positivamente alle sonorità in 4/4 e quindi, se lo scopo dell’esibizione era far ballare la platea, allora il risultato è stato comunque portato a casa.
One Circle: una delle parole d’ordine di Club To Club 2016 è stata “curiosità”. Questa l’emozione che ci ha portato a spostarci nella sala gialla mentre in quella grande si esibiva Garnier. Il trio composto da alcuni dei più rilevanti artisti italiani dell’oggi (vedi Lorenzo Senni; Daniele Mana – Vaghe Stelle; Francesco Fantini – A:RA) ha proposto una performance apprezzabile con trame post-trance e bass-music, che però lasciava un interrogativo: “Tutto qui?”. No, qualcos’altro poi è successo, l’intervento sul palco della Dark Polo Gang. Il pubblico si è diviso: chi ne è rimasto entusiasta, chi confuso e chi rabbrividito. Ci siamo trovati a riflettere su quale potesse essere la connessione tra One Circle e Dark Polo Gang e siamo arrivati a snocciolare qualche ipotesi: il distanziarsi dal classicismo – sia in campo elettronico che in quello t(rap)/hip hop/attuale – o l’essere portabandiera di un genere che vuole essere specchio di questo periodo storico (nuove influenze, nuove sonorità, nuove generazioni a confronto).
Autechre: le luci si spengono come per ogni “passaggio di testimone” che si rispetti. Fin qui, niente di nuovo, a parte il fatto che non si sarebbero più riaccese di lì ad un’ora e mezza. Al buio totale prendono posizione gli Autechre e per i primi quindici minuti l’impatto è spiazzante, solo a metà performance si sarebbe compreso appieno quanto le luci spente fossero parte fondamentale e imprescindibile del live. Per godersi l’esibizione bisogna immergersi, lasciarsi andare, dimenticare tutto: regole, pregiudizi, convinzioni. Puoi (e devi) solo ascoltare. Il buio invita tutti a farlo, invita ad alienarsi abbandonando le sovrastrutture, lasciando solamente ai suoni il compito di dirigere l’immaginazione individuale. Il live, minuto dopo minuto, diventa sempre più viscerale, sfidando i confini della normale percezione: il suono sembra percorre tutto lo spazio, sembra essere tridimensionale, così percepibile da avere la sensazione di poterlo toccare. Ritmiche e sequenze random cullano gli ascoltatori. Sembra di essere nel liquido amniotico, a metà tra il primordiale e l’industriale. Il climax viene raggiunto quando una striscia di synth in crescendo da monofonica a polifonica prende il sopravvento e da luce – metaforicamente – a tutta la sala. Il live finisce e ci lascia intimamente increduli, consapevoli di non aver mai sentito niente del genere prima e, contemporaneamente, che sarà difficile risentire qualcosa del genere per diverso tempo. Un’installazione sonora, libera ed edificante.
Una nota a margine per chi non è nuovo di un loro show: la “prima volta” degli Autechre non si scorda mai, è impossibile non provare un senso di completo abbandono rispetto alle loro perfette geometrie sonore. A Torino, però, sono sembrati leggermente meno a fuoco del solito, come se i due stessero mostrando il loro armamentario ritmico al pubblico senza esserci veramente “dentro”. La forza dei suoni è comunque incredibile quindi – per questa volta – va bene anche così.
Andy Stott: suonare dopo gli Autechre non è affatto semplice. Se a questo aggiungiamo che era anche l’ultima ora di festival del venerdì, il risultato sarebbe potuto essere disastroso. Ma non è andata così, al contrario Andy Stott ha saputo sapientemente tenere alte le emozioni del pubblico. Il produttore di Manchester ha dato prova dell’evoluzione del suo suono, che nel corso degli anni è diventato sempre più personale, vorticoso e denso. Figlio della scena UK, le sonorità del suo graffiante incedere si avvalgono delle caratteristiche proprie del movimento, con un’astrazione nuova data dall’ausilio dello strumento di campionamento svedese di casa Elektron: l’Octatrack. Un live concettualmente semplice, non troppo cerebrale (una buona scelta dopo la struggente performance degli Autechre), con un buon appeal sul pubblico e un’ottima chiusura che ha messo bene in chiaro la voglia di andare oltre il “clubbing” pur mantenendo alta l’adrenalina.
Jolly Mare: il nostro secondo giorno di festival si apre davanti ai piatti del produttore e dj leccese. Se leggete le nostre pagine sapete bene quanto stimiamo Fabrizio Martina e le aspettative non sono state disattese. La piccola sala gialla è stata inondata di suoni a cavallo tra passato e presente, dove le movenze della disco-music anni ’70 e ‘80 hanno intercettato l’attitudine di sentire e produrre musica che suona assolutamente moderna. Si è ballato, e molto, seppur l’orario era di quelli “da riscaldamento”; ma dai sorrisi in sala abbiamo compreso che le lancette dell’orologio non erano assolutamente contemplate.
Lafawndah: segue a Jolly Mare una delle artiste sia più “nuove” che più “nascoste” rispetto all’attuale panorama della musica (non solo) elettronica. La cantante e produttrice di origini egiziano-iraniane si presenta avvolta in un elegante abito per metà tradizionale e per metà moderno (come la sua musica) e senza alcun laptop né macchina elettronica. Sarà un’esibizione esclusivamente vocale su basi pre-registrate – il suo canto è incredibile e rimanda parimenti a Björk e a Nina Simone – ma anche un esperimento di danza e di movenze sensuali. La qualità dei pezzi non è messa in dubbio e anche la performance è magnetica, seppur alla lunga può stancare, avendo poche variazione sul tema. Rimane un’esperienza singolare come molte ne ha presentate quest’anno il C2C.
Ghali: il giovanissimo rapper italiano di origini tunisine – già ribattezzato da molta critica come l’A$ap Rocky nostrano – sale sul palco grande del Club To Club 2016 con la sicurezza di chi è già da tempo del mestiere. La sua formula è semplice quanto efficace: una trap profonda e ben curata e un rappato con l’autotune sia in arabo che in italiano. Non sapevamo bene cosa aspettarci da lui perché l’ambito nel quale ha deciso di esibirsi non gli è proprio, eppure si muove bene sul palco, è sciolto con la metrica, racconta storie credibili con stile, si diverte e fa divertire. Molti cantano da sotto il palco le hit del disco di prossima uscita “Ninna Nanna”, le stesse che stanno già spopolando nelle classifiche di Spotify. Abbiamo avuto l’impressione che non sia un fuoco di paglia ma che il ragazzo possa ritagliarsi un posto credibile all’interno del panorama “trap-hop” dei nostri tempi.
Junun feat. Jonny Greenwood, Shye Ben Tzur & The Rajasthan Express: l’esibizione di questo super gruppo-composto da Jonny Greenwood dei Radiohead, il musicista israeliano Shye Ben Tzur e un’orchestra tradizionale indiana di nove elementi, è il tipico esempio di come il festival abbia cercato con decisione un incontro tra oriente e occidente, tra suoni tradizionali e sperimentazione. Le sonorità indiane sono state contaminate da quelle provenienti dalla chitarra elettrica, dal basso e dall’elettronica, frutto di un Greenwood quasi nascosto nelle retrovie, figura evanescente e per nulla ingombrante, a totale servizio dei suoi sodali. A volte l’impressione è stata addirittura quella che la sua presenza sul palco fosse superflua, seppure la smentita arrivava puntuale nei momenti in cui il suono si tramutava in mantra elettronici con variazioni minime – ma fondamentali – sul tema.
DJ Shadow: quando si assiste a un set di un autentico mito della musica contemporanea è lecito aspettarsi tanto, ebbene il produttore californiano (che si è anche raccontato su Soundwall alla vigilia del festival) ha dato ancora di più. Un’esibizione di quasi due ore che ha messo in fila tutti i classici tratti dai suoi cinque album in studio, con particolare attenzione ad “Endtroducing….” (disco di debutto che ha festeggiato il ventennale dalla sua uscita proprio quest’anno e ha rappresentato l’ossatura dello show), “The Private Press” e l’ultimo “The Mountain Will Fall”. Ma non è tutto, il suono generale è stato ri-attualizzato con gusto, sia attraverso remix/re-edit muscolosi che attraverso tutto quell’armamentario di campionamenti e scratch per i quali Joshua Paul Davis è ben noto. L’atmosfera, poi, è stata resa ancora più particolare da una doppia istallazione video (una in trasparenza tra il dj ed il pubblico ed una alle sue spalle) che ha lasciato i presenti a bocca aperta. Uno dei momenti più spiazzanti è arrivato con un remix tiratissimo di “Rabbit In Your Headlights” tirata fuori da quel disco, ancora memorabile, che è “Psyence Fiction” a firma UNKLE.
Jon Hopkins: dovrebbe esserci un Jon Hopkins in ogni festival che si rispetti. Che si tratti di live o di dj-set il carisma e l’abilità del giovane produttore britannico non mancano di stupire. Questa è stata la volta di mettere i dischi e la sua selezione oscilla tra produzioni altrui e pezzi propri con il comune denominatore dell’incedere ritmico. E’ abile ad alternare soluzione spezzate a cassa dritta, in un’alternanza che crea un’atmosfera ondivaga ma sempre vibrante e divertente. Non può mancare la proposta del suo brano “Open Eye Signal” tratto dal suo ultimo disco sulla lunga distanza “Immunity” che immancabilmente è accompagnata da un boato del pubblico. Mattatore.
Motor City Drum Ensemble: chiude la serata del sabato un autentico talento della console che è stato raccontato recentemente dalle nostre parti. Il tedesco che risponde al nome di Danilo Plessow ha colorato la pista con suoni house-soul-disco facendo ballare tutti, ma proprio tutti, dalle tre della notte fino alle prime luci dell’alba. Non c’è stanchezza che tenga, la sua musica fa risvegliare dal torpore e ti trasporta in una realtà “altra” senza bisogno di sostanze che alterano le facoltà intellettive. Una chiusura all’insegna della festa, della danza collettiva, della spensieratezza.