No, l’equazione che dà il titolo al pezzo non si riferisce al celebre gruppo proveniente dall’Oxfordshire, bensì alla peculiare scelta dei C’mon Tigre di essere una formazione allargatissima (un duo italiano che coinvolge una moltitudine di musicisti dall’estrazione più varia, oltre che personalità che si occupano di arte in senso lato – leggete i crediti dei loro dischi per credere) per un risultato che è più della somma delle singole parti. Giunti in questo febbraio 2019, con “Racines”, alla seconda prova sulla lunga distanza, abbiamo avuto il piacere di entrare nei meandri del loro groove multiforme, che profuma di jazz, funky, afrobeat, downtempo, trip hop, pur riuscendo – in questo episodio anche con l’uso di varia strumentazione elettronica – a rendere personale una formula che sa (soprattutto) di Mar Mediterraneo. Un consiglio prima di lasciarvi alle loro parole: su disco l’amalgama di anima e corpo-musicale lascia di stucco, ma ancora più magnetica è la prova dal vivo, tra tastiere, synth, vibrafoni, strumenti a corda e percussioni assortite, dove il collettivo pare evaporare in favore esclusivamente del puro suono – e lo diciamo soprattutto agli amici milanesi che proprio questa sera potranno assistere alla loro esibizione in Santeria Toscana 31.
Vorrei partire dal vostro presente, ovvero da “Racines”. Un titolo programmatico che vuol dire radici in francese, anche se sento che in questo vostro ultimo lavoro c’è anche molta contemporaneità o, meglio, la voglia di suonare moderni pur attingendo, per l’appunto, alle radici della musica. Siete d’accordo?
“Racines” rappresenta un equilibrio, il nostro equilibrio. Per quanto si possa attingere dal passato, ci ritroviamo a vivere nella contemporaneità, ed è quella in cui siamo pienamente immersi. Le radici si riferiscono al vissuto e definiscono il nostro modo di vivere il mondo attuale, ci tengono in piedi. Abbiamo buttato lo sguardo indietro, al passato, e ci è venuta voglia di recuperare le cose belle che ne facevano parte.
Quali sono queste radici secondo la vostra sensibilità? Ascoltando “Racines” viene in mente il jazz, il funky, l’afrobeat, il downtempo, il trip hop, generi di per sé meticci, che con voi evolvono ulteriormente, come se evaporassero, si trasfigurassero, facendo rimanere giusto un vago sentore originario.
I generi che hai menzionato ci stanno tutti, e c’è anche di più secondo noi. Abbiamo ascoltato molta musica e abbiamo pescato ciò che ci incuriosiva da diversi mondi. Quando lavori a più teste e c’è una buona intesa, gli input riversati all’interno del progetto sono moltissimi, vanno elaborati e noi abbiamo dei lunghi tempi di gestazione. Questo sta alla base della nostra musica, le radici sono molte e intersecate tra loro.
Se i C’mon Tigre fossero un luogo geografico allora sareste il Mediterraneo. Se non erro siate stati voi tessi a dirlo tempo fa, oppure è solo una nostra elucubrazione. Ad ogni modo siete d’accordo e, soprattutto, questo concetto vale ancora oggi?
Vale ancora, e ci fa piacere che la cosa sia evidente.
Non ho voglia di parlare della cosiddetta “aura di mistero” che circonda le vostre identità, trovo che sia solo un argomento di gossip, che non aggiunge nulla al discorso. A contare è solo la musica che suonate. Questa attitudine mi piace molto e mi fa tornare in mente i tempi d’oro della disco music e della house neworkese, in cui il dj era nascosto in un angolo e l’attenzione era tutta per il groove, per il ritmo. Ci avete mai pensato a questa associazione?
Non è mai stata una questione di mistero e l’esempio del dj calza bene. La gente balla, è la musica che conta, nessuno si nasconde, la questione potrebbe essere paragonata al fatto di attribuirsi un nome d’arte, uno pseudonimo. E’ stata ed è nostra intenzione allargare il merito a tutti coloro che hanno collaborato con noi.
Cercate sempre il groove nella vostra musica? Questa parola tra l’altro è difficilmente spiegabile/traducibile. I vostri pezzi sono, per così dire, “avvolgenti” e, se posso permettermi, anche molto “sexy”. Come ci riuscite?
La ritmica è solitamente uno dei punti di partenza del nostro approccio compositivo, e quindi per noi è una parte fondamentale. Lavoriamo molto sull’esatta combinazione che vogliamo ottenere tra i vari strumenti e le trame di batteria e di drum machine. Il ritmo, il tempo, hanno quel richiamo fisico insito che ti coinvolge oltre la melodia. Ed è un richiamo forte, un coinvolgimento corporeo e viscerale indubbiamente molto vicino al sesso. Il ballo è una delle più potenti rappresentazioni della sensualità.
(Primo video estratto da “Racines”, diretto e realizzato da Sic Est; continua sotto)
La parola chiave per la vostra musica potrebbe essere creatività, seppure è un termine molto abusato, perdonatemi. Mi raccontate qual è il vostro modus operandi, se ce n’è uno? Siete un collettivo di musicisti più che un duo, lavorare in modo corale è assai stimolante ma immagino anche molto, molto complicato.
Abbiamo sempre lavorato in maniera agile, noi due teniamo semplicemente la regia del lavoro, iniziamo a scrivere rimbalzandoci numerose volte le prime bozze e solo quando le scelte iniziano a definirsi coinvolgiamo gli altri musicisti. Questo ci dà la libertà di poter variare tra composizione e composizione, senza troppe difficoltà, senza dover mantenere obbligatoriamente il medesimo ensemble. Questo metodo ci aiuta anche a focalizzare bene il lavoro degli strumenti e delle parti che interverranno. Lavorare in modo corale in questa fase è molto divertente.
In cinque anni avete prodotto due dischi lunghi, l’omonimo “C’mon Tigre” e “Racines”, oltre che un interessante ep di remix, “Elephant” che annovera le manipolazioni di due produttori italiani di grande talento: Khalab e Populous. Ci raccontate com’è nato questo progetto?
E’ nato un po’ per caso, come le cose belle quando accadono. La primissima idea di remix ci fu lanciata proprio da Khalab, e ne fummo sorpresi perché arrivò ancora prima che il disco uscisse. Lui rimase colpito dal primo singolo e ci chiese se avevamo mai pensato di affrontare l’idea di remix. La risposta è stata che l’idea ci affascinava molto sebbene non avessimo mai progettato di farlo così e alla luce di questa prima collaborazione abbiamo cercato di capire chi potesse arricchire questo capitolo. E Populous era il nome perfetto. Abbiamo coinvolto la stamperia Squadro, anche loro amici, e con loro e il maestro Gianluigi Toccafondo ci siamo inventati questa serigrafia d’autore che avvolgeva il vinile in una splendida confezione. Tutto questo saldamente supportato da Original Cultures che ha voluto produrre il disco.
Come detto, da “C’mon Tigre” a “Racines” è passato un lustro. Cos’è successo in questo arco di tempo? Immagino che siate persone diverse da quelle del vostro debutto; inoltre avete allargato la palette sonora enfatizzandone la parte sintetica, forse in questo l’esperienza dell’ep precedente ha aiutato.
Fino a quasi fine 2016 siamo stati in giro per concerti, al tempo stavamo già lavorando a dei nuovi appunti ma il vero e proprio lavoro a testa bassa è stato fatto negli ultimi due anni. Abbiamo avuto sempre una gran curiosità rivolta al mondo della sintesi, tornando alle radici siamo figli degli anni ‘70 ed ‘80 e certi suoni ti restano dentro. Abbiamo fatto tesoro dell’esperienza dei live set, abbiamo capito cosa ci sarebbe piaciuto aggiungere al nuovo lavoro in studio e piano piano le idee hanno preso forma.
Un pezzo nella scaletta di “Racines” si chiama “808” e il nostro pensiero non può che andare alla mitica drum machine progettata dalla Roland negli anni ‘80. Però ho sentito dire che è anche un pezzo dedicato al talentuoso e mai dimenticato Enrico Fontanelli, che ha collaborato al vostro primo disco. E’ così?
808 è entrambe le cose e una cosa sola. È il ricordo più vicino che ho di Enrico. Mi chiese di accompagnarlo a prendere questa 808 da un produttore di techno romagnolo. Ricordo benissimo il viaggio, andammo con la sua macchina, e guidò lui, andammo a provare la drum machine e ci fermammo a pranzo a mangiare del pesce. È un ricordo molto bello, che solca profondamente la mia memoria e fa male. Cristallizzarlo in una canzone significa in qualche modo alleggerirne il peso, mi aiuta a non pensarci così spesso.
Torniamo a voi, sento che anche i testi rivestono una parte assai importante del vostro lavoro. In “Racines” la parola spesso diventa suono, in un gioco reciproco in cui non si comprende bene dove finisce l’ugola e inizia il battito. Quanto lavoro c’è dietro?
La voce per noi è uno strumento al pari degli altri, che serve a condurre il gioco, a narrare una storia. Si incunea nella tessitura e richiede molto tempo per fiorire. C’è un lavoro intenso legato alla cadenza, poi alla melodia. Non sapremmo spiegarlo nel dettaglio ma di certo è una delle parti più complicate.
Mi interessa scoprire da quali basi siete partiti per realizzare “Racines”. C’è un concetto alla base che lega i pezzi oppure c’è stata soprattutto la voglia di sperimentare soluzioni nuove? Inoltre mi piacerebbe conoscere il set-up base del vostro studio, se possibile.
C’è sempre un filo conduttore dietro la lavorazione del disco, negli ultimi 2/3 anni abbiamo scritto moltissimo materiale, quello finito in “Racines” è frutto di una lunga selezione, una scelta di ciò che funzionava meglio per il senso dell’intero lavoro. Non siamo alla continua ricerca di soluzioni nuove, cerchiamo solamente di mettere dentro ai dischi ciò che funziona per noi, a volte può anche essere qualcosa di molto classico. Il set up tecnico del nostro studio è abbastanza essenziale, abbiamo voluto creare le condizioni per poter comporre e riprendere gli strumenti secondo i nostri metodi e tempi di lavoro, senza essere limitati da orari o condizioni particolari. Abbiamo sempre privilegiato la parte emotiva, anche nella scelta del modo di registrare e di selezionare le take buone e ci siamo circondati, col tempo, di strumenti che ci trasmettessero anche ispirazione, come vecchi organi e amplificatori a valvole degli anni ‘50 e ’60 italiani, synth Moog e vecchie drum machine, tra i tanti.
(Lo studio dei C’mon Tigre; continua sotto)
“Racines” oltre che musica è anche sperimentazione visiva. L’edizione in vinile comprende un folto volume (84 pagine) che fornisce all’ascoltatore un interessante compendio visivo – ciascuna traccia è immersa in una differente realtà attraverso foto; disegni; fumetti, curati da artisti illustri tra cui Harri Peccinotti, Gianluigi Toccafondo, Mode 2, Ericailcane, Shigekiyuriko Yamane… Ci raccontate meglio com’è nato questo progetto nel progetto?
Sentiamo nella musica che facciamo una componente visiva molto forte, questo da sempre. Spesso componiamo avendo un input visivo sotto gli occhi, un’immagine guida. Meglio ancora sarebbe dire che è un’immagine che ci stimola a comporre musica, a scrivere un testo. In “Racines” abbiamo semplicemente scelto di assecondare questo aspetto, rendendolo un punto di forza. Gli artisti che sono presenti nel disco sono persone che conosciamo personalmente, alcuni intimi amici, altri più correttamente persone che abbiamo avuto la fortuna di incrociare nella nostra vita. Abbiamo scelto chi tra loro poteva tradurre in immagini l’essenza di quei brani, e glielo abbiamo proposto, lasciando libertà piena, consegnando loro solo un canovaccio di partenza di musica e testo.
Sperimentazione vs fruibilità. Ci pensate a questo rapporto oppure vi concentrate sulla prima componente? “Racines” ti entra subito in testa ma lo trovo anche un lavoro molto stratificato, più si va avanti con gli ascolti e più vengono fuori elementi che in un primo momento erano sfuggiti.
Non ci pensiamo affatto, non c’è una pianificazione. Seguiamo un flusso. Una volta che abbiamo un punto di partenza ci muoviamo da lì e alla fine succede che ci ritroviamo altrove, non sempre dove ci saremmo immaginati all’inizio. Non ci mettiamo dei paletti, siamo molto devoti alla musica.
È sempre più difficile – e noi aggiungeremmo per fortuna – distinguere la musica che fa ballare da quella il cui contenuto può essere fruito tranquillamente in cuffia sul divano di casa. Credete che sia davvero così oppure certe barriere mentali non sono mai esistite?
Crediamo che sia difficile definire quale sia la musica che fa ballare, o quella da divano, non c’è un concetto generale, o una percezione generale. Le barriere non esistono se qualcuno non le crea.
Cosa vi piacerebbe fosse più presente nella musica contemporanea?
Del coraggio.
Il disco esce per l’italiana BDC e la gloriosa etichetta berlinese !K7. Come siete entrati in contatto con loro?
Siamo fortunati ad aver trovato un partner come BDC, che non è un etichetta discografica ma un incubatore di progetti più largamente legati all’arte. Hanno prodotto mostre, eventi culturali, installazioni, arte in senso lato. Questo è il primo lavoro discografico su cui investono e questo ci mette in una condizione particolare, di totale libertà di scelta, senza l’obbligo di giocare con le regole che in maniera piuttosto prevedibile si ripetono nell’industria musicale che conosciamo. Per tenere in piedi il tutto avevamo però la necessità di essere spalleggiati anche da chi nel mercato c’è da parecchi anni e lo conosce bene, per avere anche un confronto con la realtà dopo esserci fatti i nostri voli pindarici, per sapere dove poggiare i piedi una volta atterrati. !K7 è un’etichetta altrettanto poliedrica perché ha assorbito anche altre realtà, come la Strut Records. Ci dava la possibilità di entrare in un network adatto, tra l’elettronica e la world music. Ci siamo fatti avanti e da lì è partito tutto.
Come suonerà dal vivo il disco? Il tour ha preso il via il 22 febbraio scorso dal TPO di Bologna e questa sera sarà la volta di Milano, in Santeria Toscana 31.
Suonerà splendidamente, saremo in sei sul palco, e ogni musicista avrà, oltre al proprio strumento acustico, un synth. È un’esigenza sulla quale abbiamo lavorato per portare dal vivo il nuovo disco, è stato impegnativo ma molto stimolante per tutti. C’è stato un grande lavoro di arrangiamento, e molto tempo è stato dedicato all’allestimento audio e luci, il cui merito va senza alcun dubbio rispettivamente a Lorenzo Caperchi e Andrea Amadei.
Ultima domanda che prende spunto dall’ultimo pezzo in scaletta di “Racines”: “Mono no aware”. Questo concetto estetico giapponese ha in sé i colori della gioia e della malinconia nei confronti di ciò che riguarda la natura e l’uomo. Secondo voi è la bellezza (in senso lato) che ci salverà?
La bellezza ci ha già salvato, cadiamo ciclicamente perché ci dimentichiamo di lei.