Abbiamo aspettato qualche giorno, per vedere se quei post lì scomparivano: poteva essere una gag venuta male, cose che capitano, a cui si pone rimedio ritirando tutto e chiedendo scusa (o, alla peggio, facendo finta di niente). Ma se dopo tre quattro giorni stanno ancora lì, uno su Instagram ed uno su Facebook, vuol dire che proprio si pensa di aver fatto una cosa sensata. O furba. O divertente. O provocatoria.
Amici del Cocoricò: no. ‘Sta cosa è una cagata, peggio ancora della domanda posta a Juric alla fine di Napoli-Verona. Di che si tratta? Guardate qui:
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Così come qui:
Cocoricò all over the world? No: semmai Cocoricò all over Photoshop. Altro che Piccadilly Circus (dove per prendere uno spazio lì di crowdfunding devi farne un altro apposito) o Cannes. Ecco, a proposito di Cannes: basta scovare questa pagina per capire come stanno le cose. Per i più pigri, ecco qui sotto lo screenshot della pagina suddetta:
Allora. Il crowdfunding del Cocoricò, arrivato in un mese alla ragguardevole 94.000 euro (in un po’ di città ci si compra un bilocale…) l’avevamo analizzato a lungo, in un articolo che non si schierava populisticamente né in un estremo né nell’altro. Approccio che ci aveva guadagnato qualche rimbrotto da qualche filo-Cocco (riassumendo: “Ora più che mai il Cocco va sostenuto a prescindere, è un patrimonio di tutto il sistema, è la nostra ammiraglia”) così come da qualche nemico giurato (“Quel crowdfunding è tutto una puttanata, stai sostenendo una cosa senza gusto e senza onestà”). A un mese di distanza, continuiamo ad essere felicissimi di esserci schierati effettivamente nel mezzo. Ovvero, riassumendo: il Cocco è effettivamente un patrimonio di tutti, rappresenta davvero una storia unica (che sarebbe bello recuperare, valorizzare, riattualizzare), non è male l’idea di chiedere una specie di “azionariato popolare” via crowdfunding per dei progetti specifici e, appunto, a base culturale. D’altro canto, l’asticella fissata nel crowdfunding era abbastanza irritante (quasi mezzo milione di euro: perché?), il richiamo ai “migliori dj del mondo” era perlomeno ambiguo, l’intera operazione per come era stata sviluppata era pericolosamente in bilico fra essere arty ed essere un po’ una macchietta – ma quest’ultima cosa è anche una questione di gusti, non c’è il minimo problema se invece in molti l’hanno trovata azzeccatissima come immaginario ed esecuzione.
Insomma: eravamo possibilisti.
Lo siamo tuttora.
Ma se iniziamo a vedere le pecionate provinciali del “Eccoci a Londra, eccoci a Cannes!” con immagini ritoccate in Photoshop, e nel momento in cui registriamo che diventa uno scherzo non dichiarato, nella speranza – o la convinzione? – che molti prendano sul serio questo messaggio e lo ritengano motivante e seducente, allora vuol dire che stiamo rimettendo in campo sì gli anni ’90, ma nella loro forma peggiore.
No, perché vogliamo ricordare cosa erano le discoteche italiane negli anni ’90? Basta con la nostalgia unidirezionale, basta citare solo le cose belle: le discoteche italiane negli anni ’90 sono state anche il regno del raffazzonato, della pacchianeria, della provincia che pateticamente provava a essere metropoli senza averne i mezzi in primis culturali, dell’ostentazione di cattivo gusto e scarsa sensibilità, del farsi il viaggio farlocco di essere a New York (o Londra, o Parigi, o…) ma essendo in realtà solo cinici bottegai che provavano a vendere un immaginario di palta giusto per mietere guadagni, tanto si sa, la gente è gonza. C’è voluto l’avvento del clubbing controculturale e di matrice anglosassone (Maffia, Link, Brancaleone, Pergola…) per invertire la tendenza e preparare un terreno migliore per tutti, inversione di cui poi si sono giovati – pure economicamente – anche i locali a matrice più commerciale e meno prettamente culturale.
Quelle photoshoppate sul Cocoricò che “conquista” Londra e Cannes rinverdiscono esattamente questa tradizione qua, quella del provincialismo discotecaro italiano anni ’90 becero e sfrontato. Non se ne sentiva la mancanza, sinceramente. Oltre ad essere poi di cattivo gusto di loro, le photoshoppate, alla luce di alcune modalità imposte per il crowdfunding, visto che – come è stato commentato da un amico e collega, sotto il post facebookiano – “I soldi per i cartelloni a Cannes li avete però… ma andate in banca a chiedere fondi, barboni”: severo, e sotto molti punti di vista comprensibile. Pure se poi si è visto come stanno le cose.
Ma al di là del fatto che no, non sono stati spesi soldi per Cannes e nemmeno per Londra, il punto è che rimettere in campo quell’equazione per cui “discoteca = pataccata+pacchianata” è un po’ un modo per insultare il lascito migliore del Cocoricò “lorisiano”, quello cioè che si vorrebbe tutelare e valorizzare col crowdfunding e col MUDI, il “Museo Discocratico”. Il Cocoricò è diventato una leggenda (anche) perché ha spazzato via un provincialismo molto italiano, prendendosi dei rischi veri con la cultura vera (…e pagandoli di tasca propria, questi rischi, che costano). Col Cocoricò – e pochissime altre disco, in Italia – la “discoteca” smetteva di essere il luogo “stupido” dove “divertirsi” sguaiatamente ridendo anche delle pecionate, e perdonanandole (se non addirittura amandole). Il Cocco tanto rimpianto di Loris Riccardi era sì intriso di sense of humour, provocazioni e sarcasmo, ma detestava a bandiva le trovate da strapaese. Le provocazioni erano “alte”, il triviale era sofisticato. Chi c’era, lo sa. E attenzione: nell’essere così era comunque profondamente popolare ed inclusivo, a costo di farsi del male. Non era snob.
Avevamo già chiuso un occhio su una prima simpatica fesseria presente nel crowdfunding, quelle magliette del fantomatico stilista nipponico Sutororuru (che no, non è un “designer giapponese astro nascente della moda”, ma è una supercazzola inventata, con tanto di profilo Instragram pezzotto): poteva essere, diciamo così, una trovata situazionista, una specie di “easter egg” (in gergo videoludico) con cui farsi due risate per chi ne sa, e per gli altri pazienza – le magliette comunque erano belle.
Ora però, anche basta. Per il bene che vogliamo al Cocoricò, che prima ancora di rinascere è già comunque il faro della ripartenza e in generale proprio dell’orgoglio di un movimento e di una cultura (e questo lo ri-sottoscriviamo, eccome), speriamo davvero che si dia un taglio a queste scelte comunicative degne di un film di Bombolo e Cannavale, o di un venditore di autoradio nei parcheggi di un’area di servizio.
Quello che bisogna fare è lasciare spazio al MUDI (sì al crowdfunding per averlo, assolutamente, ma magari non da 450.000 euro), ad una programmazione che non sia più una insufflata dei soliti nomi strapagati ma dimostri il coraggio di tornare ad essere all’avanguardia (e/o non al servizio delle solite agenzie di booking), ad uno staff a partire dai PR che comunichi cultura e non abbia invece l’euro disegnato sulle pupille. Di questo abbiamo bisogno. Di Londra e Cannes invece, soprattutto se farlocche, come dire… non ce ne importa granché.
Forza Cocoricò. …basta cazzate, però.