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Dopo quella su Kendrick Lamar e il suo “To Pimp A Butterfly” torniamo alle chiacchiere a due, questa volta con focus Jamie xx e il suo attesissimo album d’esordio. Eh sì, perché “In Colour” è stato un po’ il caso musicale delle ultime settimane: attesissima, tanto dai fan del londinese e dei The xx quanto dagli ascoltatori più scettici, la raccolta ha generato le reazioni più disparate,
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spingendo la critica (più o meno) specializzata a giudizi decisamente contrastanti. Ne avrete lette di ogni, ci scommettiamo, così come siamo pronti a scommettere che per Jamie xx valga la pena provare a ragionare un filo in più, mettendo a confronto il pensiero dei nostri Damir Ivic e Matteo Cavicchia.
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Partirei da un punto fondamentale, trovare una chiave di lettura che permetta un’analisi oggettiva di “In Colour”: trovo, infatti, che considerare Jamie xx un personaggio particolarmente alto, dove per “alto” intendo in grado di confrontarsi con ascoltatori alla ricerca di un intrattenimento (comunque) di qualità, rappresenti un errore davvero grossolano. Questo non vuole dire che da lui non sia lecito attendersi dei lavori ben fatti, tutt’altro e vorrei ben vedere, ma nemmeno dischi per così dire rivoluzionari. Jamie xx sa il fatto suo, ecco, ci sa fare e sa sguazzare per benino tra il suo background e il gusto di quello che è diventato il suo pubblico, ma da qui a paragonarlo a figure più solide – vedi Four Tet – ce ne passa.
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Ma guarda, pure su Four Tet il discorso potrebbe essere lungo, e fa sorridere come per anni il buon Kieran non se lo sia filato (quasi) nessuno e poi, appena ha raddrizzato un attimo la cassa (e in realtà semplificato i suoni, ma questo nessuno lo dice) è passato per genio dell’umanità. Ma sai qual è la cosa che mi fa sorridere più di tutte, tanto per stare in argomento? Se The xx fossero usciti un po’ di anni prima rispetto a quando sono veramente usciti, sarebbero passati abbastanza sotto silenzio, con commenti acidi tipo “Vabbé, ma questi che si credono di fare anche trip hop che si credono, che abbiamo l’anello al naso?”. L’anello al naso per me ce l’hanno proprio le persone che ritengono sorprendente e rivoluzionario quanto fatto da Romy, Oliver e Jamie all’epoca. Il che non significa fosse cattiva musica, tutt’altro. Ecco, lo stesso principio mi pare si possa applicare anche nell’analisi di “In Colour” e di tutto l’apparato critico-mediatico che ci sta girando intorno. No? Vado diretto: a te, il disco è piaciuto?
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Io trovo che il disco calzi perfettamente con il pubblico “tipo” di Jamie xx, ma che al tempo stesso abbia qui e lì degli quei rigurgiti del background del suo autore: “The Rest Is Noise”, per esempio, che dopo il break di piano a metà traccia giustifica tutte le premesse/promesse “club” che erano state fatte sulla raccolta; “Seesaw”, le cui batterie sono davvero interessanti e ben si sposano con tutta l’aura The xx che inevitabilmente il buon Jamie si porta dietro; “Obvs”, che sì, sa proprio di Four Tet. Insomma sì mi piace, ma non lo trovo imperdibile; non è il disco della vita. E questo, temo, soprattutto perché nemmeno io sono riuscito a schivare tutto l’hype che negli ultimi mesi ha accompagnato la promozione: “Girl”, “Sleep Sound” (prima) e “Gosh” (poi) sono dei grossi brani, lavori che forse non hanno trovato un seguito sufficientemente consistente nel resto dell’album. Tu, sinceramente, non t’aspettavi dell’altro dopo aver ascoltato “All Under One Roof Raving”? Non pensi che se davvero “In Colour” deve mettere in mostra la sua anima club, beh, forse a Jamie xx manca ancora qualche passaggio da fare? In fondo di artisti cazzuti ce ne sono parecchi in Gran Bretagna…
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Io non credo che l’anima di Jamie sia una “anima da club”. Non del tutto almeno. Lo trovo un appassionato di musica, una persona artisticamente ed umanamente sensibile (anche se intervistare lui è come intervistare un paracarro, anzi, il paracarro è più comunicativo… ma anche questo volendo è indice di timidezza aka sensibilità). Però ecco, non è del tutto uno da club. “In Colour” è bello perché cita momenti da breakbeat primi anni ’90, da rave… Ma appunto: li cita. E’ una citazione fredda. Appassionata ed innamorata sì, ma pur sempre fredda ed accademica. Non c’è il clima sordido che in quei rave, oh sì, era la regola. Stando sempre a Four Tet: anche lui cita ultimamente molto ‘ste cose, anche lui lo fa in modo abbastanza chirurgico ma – sarà per una questione meramente anagrafica – quando lo fa la faccenda gli riesce in modo più “pesante”. Jamie è educatissimo, invece. Troppo educato per andare a mescolarsi fra masnade di hooligan in ecstasy e vestiti discutibili mezzi nudi ed urlanti; ed è troppo educato perfino per “fotografarli” (come fa, di tanto in tanto, con qualche istantanea, Four Tet). Attenzione, non voglio che questi suoni come una critica tombale. A me “In Colour” piace. Lo ascolto volentieri. Lo trovo un curioso esperimento: la musica dei club – passata, presente, futura – confezionata per un ascolto da ventenni educati, che frequentano le scuole buone e i college d’eccellenza. Che tutto questo ora incontri i favori dell’hype e del pubblico mi sta benissimo: è musica di classe. Secondo me non dura. Esattamente come non è durata la fascinazione per il trip hop bristoliano o quello danubiano di Kruder&Dorfmeister: prima amore collettivo, poi piano piano è diventata una colonna sonora da party noioso dato da architetti sfigati, fino a essere infine improvvisamente (ed eccessivamente!) negletta.
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Sono d’accordo con te, soprattutto quando dici che tutto questo non dovrebbe durare e passare oltre, magari lasciando spazio al prossimo ascolto piacevole e piacente. Io onestamente mi trovo pure d’accordo con Andrew Ryce quando, riferendosi a quelle che tu chiami citazioni, dice a chiare lettere che Jamie xx sembra accostare suoni familiari insieme, senza però capire cosa li faccia veramente funzionare. Che poi è l’impressione che si ha analizzando più accuratamente i brani dell’album: magari partono bene, magari l’amalgama è proprio quella giusta, ma poi tende un po’ a soffocare l’ottima idea iniziale non sviluppandola/sfruttandola a pieno. Ed è un peccato, perché se c’è una cosa di cui Jamie xx può davvero vantarsi, oltre a un gusto fuori dal comune, è di essere un artista dalla “grande memoria”: scatta delle istantanee attraverso alcuni suoni – ce ne sono alcuni nell’album che non gli abbiamo mai sentito adottare prima d’ora – e le manipola e trasforma, come un grafico con Photoshop, in qualcosa di nuovo e personale. Che poi questo qualcosa di personale faccia rima (ma va?) con i The xx apre un altro discorso, ovvero che il singolo non sembra essere veramente fatto e finito senza gli altri due, è un’altra storia…che ci basti ad accantonare paragoni sfocatissimi con Burial! In fondo “Reconsider”, a conti fatti, è stata davvero poco più di una parentesi.
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Ma quindi? Ora che dobbiamo tirare le somme? Come posizioniamo questo disco? Intendo: nei nostri giudizi, nella nostra scala di valori. A me il disco piace. Non voglio assumere la posa di quello che tratta con sufficienza un album solo perché è circondato da tanto hype. Anche e soprattutto perché non è un disco “paraculo”: non è assolutamente andato a cercare intenzionalmente i suoni&recuperi ora in voga, si sente che c’è una sincerità di fondo in ogni scelta e in ogni direzione sonora intrapresa – pur con tutti i limiti di cui stiamo parlando. E’ proprio lui che è fatto così, che è “sensibile alle mode” ma non intenzionalmente, proprio d’istinto. Non c’è calcolo. Non è mica poco. Quindi ecco, se chiedi a me: sette. E’ un buon disco. Migliora la qualità della vostra vita, se lo ascoltate. Ha gusto. Non cambierà la vita di nessuno, non durerà come dicevamo nel tempo, ma è un buon disco.
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Il disco è assolutissimamente un buon disco, su questo non ci piove, mentre non mi trovi perfettamente concorde quando attribuisci a Jamie xx una totale “spontaneità”. “In Colour” è un disco a suo modo furbo, come a loro modo furbi sono tanti altri lavori che abbiamo celebrato in passato e che continuiamo ad adorare. Che male c’è se un artista sceglie di calcare la mano lì dove sa di riuscire meglio? Io stesso, se dovessi cucinare e volessi fare bella figura, preparerei sempre e comunque il mio piatto migliore. Insomma, l’album piace perché l’artista sembra interpretare al meglio il gusto di chi lo segue, anche quando sceglie di attingere dal suo background. Questo è un merito enorme perché produrre musica – per così dire – “intelligente”, carica di riferimenti e, al tempo stesso, capace di convincere è un valore non comune, anche se alcune scelte potevano essere approfondite di più e con più decisione. Per concludere: il disco riscrive le regole del gioco? No; sconvolge e lascia a bocca aperta? Assolutamente no; si tratta di un lavoro imperdibile? Ancora no. Ma se mi chiedi se intendo comprarlo, la risposta è sì. Pure per me è sette pieno.
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