Una delle cose più interessanti e particolari capitate alla musica pop italiana da tempo a questa parte: dovendo descrivere i Coma Cose in un’unica riga, questa potrebbe bastare. Ci siamo concessi una lunga chiacchierata con Fausto Lama (aka Fausto Zanardelli) e California (aka Francesca Mesiano). Abbiamo parlato di passato e presente. E siamo partiti riesumando i primissimi passi della carriera di Fausto, quelli che non cita quasi mai nessuno. Quelli che sono alle sue spalle e va bene così ma, lo leggerete, hanno avuto anche un ruolo e dei meriti. In generale, comunque, una chiacchierata di spessore: i Coma Cose sono un progetto che non nasce per caso e non si sviluppa a caso. Pur partendo tutto dalla libertà creativa. Ad un giorno da un concerto importante per loro, il 19 luglio nella Brescia di Fausto ad aprire MusicalZoo, ecco cosa ci siamo detti.
Guarda Fausto, vorrei iniziare con te. E vorrei iniziare da molto prima di Coma Cose, e pure da prima di Edipo. Ho una parola da dirti: Gleastiliisti.
(scoppia a ridere, NdI) …sono anni bui. (ride ancora, NdI)
Bui?
In realtà, a ben pensarci, forse eravamo la Dark Polo Gang vent’anni prima della Dark Polo Gang. Insomma, se ci penso non posso fare a meno di sorridere. Mi sembrano quasi ricordi d’infanzia. Anche perché in effetti avevamo diciotto anni, forse anche meno. Eravamo minorenni. Eravamo matti. E nemmeno sapevamo bene cosa volevamo fare.
Però comunque ci credevate. Ad esempio, prendevate un sacco di pagine pubblicitarie su Aelle, che all’epoca era il riferimento assoluto per la scena hip hop italiana.
Oh, basavamo la nostra promozione su quello!
Comunque, leggendo una tua intervista in giro di qualche tempo fa, avevo visto che eri molto critico con l’hip hop di quegli anni, col suo integralismo dell’epoca, il suo non volersi mischiare né musicalmente né come scena con nulla e con nessuno.
Io arrivo dalla provincia di Brescia. Per me e quelli come me l’hip hop era un gioco. Era vedere un video americano e provare ad imitarlo, era andare a Milano a vedere certi concerti, era fare breakdance davanti al Comune del nostro paese. Era anche prendere le note sul registro perché arrivavo a scuola coi pantaloni larghi che all’epoca erano la divisa obbligatoria per un vero appassionato di hip hop, ci pensi? Era fare graffiti, anche, e scappare nella notte. Il primo approccio che ha alzato il livello è stato entrare in contatto con la scena di Brescia, c’era la C.A.M., Kid, Bosca, Akeem, Fist, Verme. E’ in quel contesto che ho conosciuto Alessio e sì, siamo entrati nel viaggio “gangsta”, da lì tutta la storia de Gleastilisti. Ma c’era molta, molta ironia. Era un gioco, non una cosa seria.
Ma l’ironia era consapevole, voluta?
Sì. Diciamo che si potrebbe essere riassumere con la frase “Essere lucidi nel voler fare il circo”. Alimenti qualcosa che ti diverte. Però vero, poi ne puoi anche restare vittima, è per questo che mi è venuto il paragone con la Dark Polo Gang. Ad un certo punto ti puoi ritrovare in mezzo a qualcosa che non c’entra nulla con quella che è la tua vera personalità: è troppo forte il gusto di portare avanti il personaggio che stai interpretando. Comunque il nostro viaggio è durato due, massimo tre anni, poi ho capito che la cosa ci era sfuggita di mano, eravamo diventati un po’ dei buffoni. “No, basta, chiudiamo questa parentesi” mi sono detto. Se la nostra provocazione veniva capita ci si divertiva tutti assieme, ma da un certo momento in poi la nostra era una provocazione che non provocava. Non aveva più senso andare avanti. Era una gemma che non germinava. Recentemente ho visto il documentario “Numero Zero”, incentrato proprio su quegli anni, su quella scena: ho sentito proprio una pressione allo sterno, vedendolo. C’era una cappa molto oppressiva, rivalità, anche violenza. Ho rivisto il Piotta recentemente, anche lui come te si ricordava dei miei trascorsi, e mi fa “Sai che di voi mi ricordo un dissing contro il Colle Der Fomento al Leoncavallo?”. Capisci? Vent’anni più tardi eravamo io e lui, pacifici, al Concertone del Primo Maggio. Ma non voglio disconoscere quel periodo lì, sia chiaro. Anzi, è proprio lì che ho gettato le basi per fare musica seriamente. Eravamo improbabili, come Gleastilisti, ma già a diciotto anni grazie a questo progetto potevo girare l’Italia a fare concerti.
Ma artisticamente, ti è rimasto qualcosa di quel progetto? Anche qualcosa di minimissimo?
No, assolutamente, non credo proprio. Gleastilisti è come quando rivedi le tue foto a diciotto anni, quando ti eri messi l’orecchino e oggi pensi “Oddio, meno male che me lo sono tolto, sembravo un cretino”. Ma è giusto così: a diciotto anni bisogna essere matti, arroganti, scapestrati, con la voglia di spaccare il mondo. Perché poi hai tutto il resto della vita per essere maturo e ragionevole. Semplicemente ecco, di Gleastilisti rimane un bel ricordo di energia, sì, l’energia è rimasta.
Francesca, per quanto riguarda il tuo, di background?
California: Pensa che io diciotto, vent’anni è l’età in cui invece io ho iniziato a tranquillizzarmi, ho dato il meglio di me prima (risate, NdI). Sono sempre stata una grande amante della musica, ma da fruitrice. Farla non è mai stato il mio intento. Ho gravitato attorno a varie situazioni legate alla musica: da chi faceva rap a chi faceva techno. Ma sempre da satellite. Mi sono anche ritrovata in alcune situazioni in cui ero un po’ più coinvolta dall’interno… però boh, sempre con un ruolo da satellite.
Quindi la musica quando ti ha investito? Con Coma Cose?
California: Con Coma Cose, direi.
Fausto: Dai, prima avevi fatto dei tentativi, delle altre cose…
California: Ma sì, ma ero sempre una che gravitava attorno alle cose, non ero proprio il primo motore del progetto.
Fausto: Qualche esperienza in studio l’hai avuta, no?, lì a Pordenone…
California: Sì, ma poi ho fatto tutt’altro, alemeno fino agli anni che sono vissuta lì.
Eh, la violenza della pordenonesità…
California (ride, NdI): Esatto! O stai in mezzo alla natura e ai campi, o dentro a un garage.
Fausto: Ci sono stato lì. E’ una zona bellissima, però… ha un aspetto umano molto austero.
California: Comunque sì, Coma Cose è il primo progetto in cui sono coinvolta seriamente. Vabbé, più o meno seriamente.
Fausto: E’ bizzarra questa cosa che io negli anni ho fatto e disfatto mille progetti, mentre per Francesca è la prima esperienza in qualcosa di, diciamo, strutturato. Col risultato che lei nell’arco di un anno si è trovata a cantare da davanti a dieci persone a davanti a mille e passa.
(California; continua sotto)
Ecco. Ve l’aspettavate, questo successo del progetto Coma Cose? In queste dimensioni?
Fausto: Mah…
California: Io sinceramente sì. L’ho sempre detto: “Secondo me con questa cosa spacchiamo tutto”.
Perché avevi l’ottimismo della prima volta…
Fausto: Ecco, capito! Io invece dicevo “Per me questo è il canto del cigno…”. Volevo semplicemente togliermi dei sassolini. Purtroppo, la mia avventura discografica precedente era stata molto deludente. Mi aveva disilluso, tolto completamente l’entusiasmo.
Perché ad un certo punto ti volevano manovrare, volevano “gestire” il prodotto- Edipo.
Fausto: Esatto. Avevo fatto questo disco che, tra l’altro, a me era piaciuto molto fare ed era pure piaciuto parecchio agli addetti ai lavori. Ero insomma uno di quegli artisti “in odore di”, uno di quelli di cui si parlava come possibile nuovo fenomeno. Un disco molto intenso, quello. Ci sono ancora parecchio affezionato, mi piace ancora oggi. Poi è iniziato un periodo di grande dispersione: lungaggini varie, il rapporto con la major, diciamo che prima di tutto sono io ad aver perso il bandolo della matassa.
Storia già sentita un sacco di volte: quando pensi che sta per arrivare un successo vero, perché una major si è interessata a te, poi però scopri che invece è la fine di tutto, il progetto si arena…
Fausto: Esatto, ma non mi voglio accanire, non voglio dare le colpe a nessuno. Dico solo che ad un certo i soldi finiscono, ed è così che ti ritrovi a fare il commesso, perché comunque la vita va avanti.
Ma mi spieghi cosa era stato quello che ad un certo punto era diventato un sodalizio con Dargen D’Amico? Un tentativo scientifico e pianificato a tavolino di ri-mettere a fuoco il personaggio di Edipo? Una collaborazione spontanea, senza un preciso disegno, nata per stima reciproca?
Fausto: In realtà proprio quello fu l’inizio della fine. Jacopo rimane un carissimo amico, ed è una persona splendida. E’ successo che lui, con grande entusiasmo, aveva notato in me del potenziale e ha voluto portarmi nel “suo” mondo, quello insomma più legato alle major, a un certo tipo di dinamiche. Mi sono ritrovato dallo stare in una etichetta di provincia, col manager che mangia la pizza con me, alla grande Milano, quella delle major, degli studi di registrazione fantascientifici, dei personaggi famosi che vanno e vengono attorno a te come se nulla fosse. Ovviamente, il primo effetto è: “Wow!”. E poi però ti dici “Ok, il mio primo disco è piaciuto, ma calma, non montiamoci la testa, in realtà sono ancora uno stronzo che non ha ottenuto nulla”. Però ecco, pensavi ad un certo punto che quella fosse la via giusta. E magari lo è, per molti lo è. Sono io che non sono stato in grado di gestirla. E’ mancata la “chimica” giusta, è mancato un certo tipo di collante, e anche più banalmente il tempo speso in studio è stato troppo lungo, dispersivo, alla fine ha fatto più male che bene. Se vado comunque a prendere tutti i tasselli di questa esperienza, non ce l’ho con nessuno in particolare.
Però prima dicevi: “Volevo togliermi dei sassolini”.
Togliermi dei sassolini non sulle persone ma sul sistema, su come funzionano certe cose. La classica figura tragicomica del cantante “puro”, quello che lotta contro i mulini a vento, ovvero le multinazionali. Ma in nessun modo ce l’ho e ce l’avevo con qualcuno in particolare.
Mah, sai, manco lo fanno apposta a comportarsi in un certo modo alcune persone che in quel sistema ci lavorano: è appunto il sistema che è così, è una cosa più forte di molti di quelli che stanno lì dentro.
Esattamente così. Bravissimo. Quando hai un certo tipo di background, di sensibilità, ti scontri con delle cose che in ultima analisi non sei in grado di gestire. E’ lì che mi sono detto “E vabbé, vaffanculo, togliamoci l’ultimo sfizio di fare una cosa completamente libera”. Lì nasce l’incontro con Francesca e Coma Cose. Poco dopo è arrivata in gioco anche Asian Fake, l’etichetta, incontrano Filippo Palazzo e Yuri Ferioli. Io all’inizio ero molto riluttante: “No, no, non voglio nessuno”. Ho provato ad alzare la posta in gioco: “Ecco, questi sono i provini. Ho bisogno di una mano per pagare lo studio e produrre dei videoclip”. Loro, a sorpresa: “Va bene, ti diamo una mano economicamente”. Io, dubbioso: “Ma non avrete nessuna pretesa? Guardate, io non muoverò nemmeno un sopracciglio se mi chiedete di fare qualcosa che non mi convince”. Loro: “Va benissimo”. E io: “Oddio, dove sta la fregatura…?”. Loro: “Fidati: non c’è”. “Vabbé”, mi sono detto, “tanto non ho alternative”. Mi sono fidato. Mi sono buttato. E sai cosa?, è andata esattamente come dicevano loro. Credo che quelli di Asian Fake siano stati veramente dei pazzi, si sono fidati di noi al cento per cento, anche perché io avevo una idea ben precisa su come far progredire il progetto da cui non volevo assolutamente derogare e su cui non volevo intromissioni. All’inizio ci siamo mostrati più solidi sul contenuto, poi abbiamo iniziato ad avere derive strane, cosmiche quasi: tutto voluto e pensato. Però ecco, come fai a spiegarlo a qualcun altro? Invece: “Questo sono i soldi, fai quello che devi fare, fai i video, poi fra un anno tiriamo le somme e vediamo com’è andata”. E’ andata così davvero. Come Cose è un progetto in cui c’è davvero tanta libertà.
Ma anche tanto pensiero. La prima volta che vi ho visti ho pensato “Ehi, questo è un progetto veramente furbo. E’ atipico, ma tutto è pensato nei minimi particolari, è in un dialogo molto sottile – e originale – con le mode e la contemporaneità”. Quindi ecco, se mi dici “E’ stato tutto spontaneo, è venuto tutto fuori con grande libertà” ti credo fino ad un certo punto.
In effetti ti do ragione. Di pensiero, dietro al progetto Coma Cose, ce n’è comunque tanto. Con un po’ di arroganza, penso che molto semplicemente siamo sintonizzati sulle frequenze giuste. Nella parte artistica, di Coma Cose, c’è solo ed esclusivamente quello che ci piace: ma a noi piacciono le cose che “funzionano”. Osservare e capire i meccanismi che muovono la musica, a noi piace parecchio. Le nostre canzoni, sì, tengono bene conto di quali sono gli “ingredienti del tempo”. E anche in generale la strategia, vero, ha un disegno preciso. Ma per fare tutto questo, e qui sta il punto, non abbiamo assolutamente dovuto stravolgerci, non abbiamo dovuto adeguarci a questo o quello, è esattamente quello che avevamo dentro di noi, nulla di più, nulla di meno. Ci siamo limitati a comprimere nella forma-canzone queste nostre visioni e sensibilità. Quindi sì, in quello che facciamo c’è sia del mestiere e del calcolo ma c’è assolutamente della spontaneità, le due cose non sono in contrapposizione fra di loro. E’ divertente quando ci dicono, e ce lo dicono spesso, “Bello che siete così originali”. Siamo originali davvero? Non lo so. All’inizio abbiamo buttato fuori “Golgota”, che è un pezzo in tutto e per tutto da anni ’90 rap, ma non credo che siamo gli unici a fare questo genere di cose. E anche il formato del rap con l’aggiunta della tipa-che-canta: sai che originalità! Insomma, se chiedi a noi no, non ci sembrava e non ci sembra di essere così originali; ma evidentemente, visto che in realtà ognuno è originale almeno in qualcosa, la nostra di originalità aveva le caratteristiche giuste per colpire nella contemporaneità in un modo anche ben oltre le nostre aspettative.
(Fausto Lama; continua sotto)
Ecco, gli anni ’90: io ce li sento parecchio, in Coma Cose. Tu stesso una volta hai detto “Noi forse facciamo ‘musica urbana’, la si potrebbe definire così, anche se come categoria è abbastanza desueta”: sono assolutamente d’accordo. E infatti è una categoria anni ’90. Così come anni ’90 è il trip hop, e in qualche modo vi ci collego, magari al versante più “malato”.
Fausto: Assolutamente ci sta.
California: Gli anni ’90 erano quelli dei primi amori musicali.
Fausto: In effetti se penso ai miei anni ’90 penso alla felicità di approcciarmi visceralmente alla musica, per la prima volta. Facile che vada a ripescare, anche inconsciamente, da lì.
Erano anni più interessanti?
Fausto: Mah. Non lo so.
Una cosa si può dire: erano anni in cui la musica era anche una bandiera esistenziale. Essere “alternativo” voleva dire realmente qualcosa, per dire.
Fausto: Vero.
California: I rapper stavano coi rapper. E così via. Erano varie scene, molto coese fra di loro.
Fausto: Pensiamo all’hip hop, appunto. Le jam, le convention. Non era tanto questione di singoli concerti di questo o quell’artista. Ci si muoveva per crew. Si aspettava trepidanti un mese prima di andare alla convention di Parma, Piacenza, eccetera. Erano come grosse ed estese riunioni di famiglia: scazzi compresi. Ma la linfa di tutta questa scena nasceva da lì, nasceva da questo.
E le date di queste jam o convention non le trovavi sui giornali.
Fausto: Esatto! O compravi Aelle, o intercettavi dei flyer, o c’era il passaparola. Stop. Flyer che quando erano fotocopiati a colori ti sembrava il futuro, ti sembrava già un lusso! C’era energia, parecchia; se fosse artisticamente interessante, questo però non lo so. Considera che io ho smesso poco dopo i diciotto anni perché “…fare rap è una cosa da ragazzini”, pensa te. Perché in realtà il mio primo approccio con la musica resta quello con i cantautori, lo è fin da quando ero bambino. Loro mi hanno sempre emozionato. Anche quando non capivo le parole, perché da piccolo piccolo mica capisci tutto. Poi, nell’adolescenza, è arrivato il rap. Che mi è piaciuto soprattutto perché si poteva usare molto la parola, guarda caso. Ad ogni modo, credo che ogni epoca produca qualcosa di interessante, non è il caso di fare classifiche fra decenni. Gli anni ’90 sono belli perché sono finiti: prima ti accennavo a “Numero Zero”, e pensa appunto a quanta tensione c’era anche in tutta questa storia. “E’ bello esserci stato, ma è bello non esserci più dentro”. Una scena dove, se ne facevi parte, eri sovra-esposto, e questo prima ancora che nascessero i social. Interessante, no?
Ecco, a proposito: com’è il vostro rapporto col pubblico? Quanto ci dialogate? Quanto vi piace avere un rapporto stretto, e quanto invece è corretto mantenere un minimo di distanza.
California: Proprio stamattina parlavamo fra noi di questo, guarda caso.
Fausto: Noi due non siamo grandi animali da social. Ci piace Instragram, ma perché ci piace la fotografia. Coma Cose era nato inizialmente come profilo Instragram, mentre nel frattempo stavamo facendo i provini…
Mi viene da pensare a Liberato…
Fausto: Ci sta! Ma diciamo che noi le facce le abbiamo messe fin da subito (ride, NdI). Liberato comunque è un fenomeno importante: perché ti fa capire come anche nell’epoca dei social si può comunque restare anonimi. E’ il 2018, io non so chi sia questo qui; e sono pure un addetto ai lavori. Insomma: si può! E’ un bel messaggio. Si può anche non apparire, ed avere comunque successo.
Pure voi, a ben pensarci, all’inizio avete mantenuto un po’ di mistero attorno al progetto. Il fatto che tu fossi nella vita artistica precedente Edipo è venuto fuori più per passaparola che altro, per dire.
Fausto: Infatti all’inizio Coma Cose doveva essere, come faccia, solo California.
California: Vero. Poi però questa idea è stata scartata.
Fausto: Progredendo col progetto, abbiamo capito che non aveva senso. Forse mi stavo troppo “nascondendo”, ecco, immagino perché ancora troppo sensibile per gli esiti dell’avventura precedente. Ma era eccessivo fare così. Piano piano fisiologicamente la mia presenza è venuta fuori, nel progetto in divenire. Perché Coma Cose, ecco, è sempre stato molto un “progetto in divenire”. Anche perché questo se mi chiedi che rapporto abbiamo coi fan, io ti rispondo che in realtà non lo so. Perché siamo sempre in movimento, in evoluzione. Di sicuro i fan sono fondametali, e ti aiutano pure a plasmare meglio il progetto: fermo restando che per noi la regola numero uno è che facciamo quello che vogliamo, ma qualcosa “da fuori” ti arriva, è inevitabile, è anche giusto e bello. Credo ci sia un rapporto di fiducia reciproca, ecco. Per quanto riguarda gli hater, beh, io ogni tanto provo a parlarci, ad interagirci. “Ok, ok, noi siamo una merda, ma dimmi, a te chi è che piace?”: leggi le risposte, e resti spesso disarmato. Tanto da finire di dire in più di un caso all’hater di turno “Vabbé, ma che c’entriamo noi? Nemmeno a me piacerebbero i Coma Cose, se avessi i tuoi gusti”. Internet è un circo pieno di stranezze.
California: Con tutto che oggi i gusti sono molto più mescolati rispetto ad un tempo.
Fausto: Verissimo. Ci sono persone che nella stessa playlisti di Spotify hanno Kanye West e gli Arctic Monkeys. Ad esempio: io. E va benissimo così! I Coma Cose rappresentano un po’ anche questo spirito. Mi sento fortunato ad aver vissuto l’esperienza dell’hip hop “puro”, ma è un elemento che mescolo con altre cose. Io comunque a diciotto anni già suonavo sia la chitarra che il pianoforte, non è che stavo solo al microfono. Però è anche vero che quando uno fa rap e non arriva dal background giusto, lo smascheri subito: i famosi “rapper delle merendine”, quelli dei jingle pubblicitari… la senti la differenza, eccome. Sono quindi contento di essere passato attraverso quella storia lì, mi ha aggiunto un “colore”, che comunque aggiungo ed aggiungiamo ad altri, perché noi due siamo persone molto curiose.
Perché vi state rifiutando di fare un album?
Fausto: Perché pensiamo che l’album sia una cosa sacra.
California: L’album deve essere un viaggio.
Fausto: Per usare un termine giornalistico: un concept. L’album deve essere un concept. Se non c’è un concept, un album non è nient’altro che una compilation. Ma perché dovremmo farlo, allora? In questo momento la musica si può fruire in qualsiasi modo, non è più come un tempo che il formato album era una necessità. Oggi, per fortuna, è una scelta. E noi vorremmo farne uno, non è che non lo vogliamo fare. Vorrei avere dieci tracce sensate e coerenti fra loro e poter dire “Ecco, questo è quello che ci è successo negli ultimi otto, nove mesi”. Se questo accade, stai sicuro che verrà fuori un disco. Ma se in questo otto, nove mesi ci vengono le idee solo per fare un paio di canzoni al massimo, due sono le canzoni che usciranno. Punto. E’ che boh, devo dire che proprio i social hanno messo in circolo delle idee di discografia un po’ distorte: non solo sono tutti critici musicali, spesso sono anche tutti discografici. E credono di sapere tutto delle dinamiche dell’industria musicale. Questa cosa mi fa sorridere.
Esattamente come, nei bar, sono tutti allenatori della nazionale.
Fausto: Esatto. Stesso concetto. Va benissimo avere opinioni sulla musica, ma quando si parla di discografia e di industria musicale spesso e volentieri si ignorano dinamiche che sono conosciute solo da chi ci lavora e dagli artisti che da queste dinamiche ci sono passati veramente. Le pressioni che si vivono, le lusinghe, le cose che ti fanno anche male: non è tutto rose e fiori, ci vuole tanto sangue freddo per non perdere la bussola, per fregarsene e mantenere il focus del proprio viaggio. Noi stiamo tenendo duro, per farlo.
Fino a che punto Coma Cose è un progetto pop?
Fausto: La musica diventa pop semplicemente nel momento in cui viene ascoltata da gente diversa. Per questo motivo, penso che oggi la musica che si ascolta in giro sia quasi solo pop. Mi annoiano molto i generi, ecco. Basta coi generi. Andiamo oltre. Siamo nell’epoca della globalizzazione, ghettizzarsi in un “genere” mi pare noioso: e tutto ciò che non ha un genere è, potenzialmente, pop. Perché è destinato ad essere ascoltato da un pubblico potenzialmente molto vario. Quindi sì: siamo pop. Ma a modo nostro. Una canzone come “Cannibalismo” non è di sicuro una canzone ammiccante.
California: Così come non lo è “Nudo integrale”, per dire.
In generale voi siete abbastanza cupi, sinistri, per essere un progetto pop nell’accezione più comune del termine. Non siete, insomma, Thegiornalisti.
Fausto: Ecco, sì. E il riuscire a farcela, ad avere cioè un pubblico che inizia a diventare un minimo importante, con canzoni che non sono proprio canoniche è una bella fotografia di quanto siano fertili i tempi che stiamo vivendo. Quando vedi mille persone che saltano e cantano in coro “French Fries”, che volendo non vuol dire un cazzo, capisci che tu rappresenti comunque un’energia: particolare, autoironica anche, che comunque offre qualcosa che manca. Crei empatia. La gente ritrova cosa di sé in quello che canti. E quando questo succede, non è più importante dover fare un ritornello azzeccato: la gente comunque vuole abbracciare la tua musica. Questo è molto bello. E questo è quello che stiamo vivendo adesso.