Un esperimento antropologico sempre meraviglioso è andare sulla pagina Facebook ufficiale di Rolling Stone, spulciando sotto i post. Avete mai provato? La quantità di boomerismo aggressivo e conservatore che è presente tanto, tanto, tanto spesso nei commenti è qualcosa che farebbe arrossire dall’imbarazzo pure un Trump sotto chetamina. E il massimo potenziale, badate bene, si dispiega quando appare un post dedicato a un rapper: gli “E questo chi è?” o “Quand’è che parlate di musica?” si sprecano, e fanno veramente tenerezza, visto che Rolling Stone si occupa prima di tutto di grandi nomi che sbancano tutte le classifiche possibili immaginabili – e sono classifiche vere che hanno numeri veri, certificati, non pastette delle case discografiche – e molto più raramente di nomi di nicchia per ultraesperti (…tant’è che ogni tanto fanno capolino i pasdaran dell’hip hop underground, che si lamentano che si parla quasi solo di faccende mainstream; peccato che poi quando fai qualcosa di più “sotterraneo” improvvisamente si fanno di nebbia, invece di leggere e supportare). Cioè, davvero ti sembra di essere brillante a dire che non conosci o fingi sarcasticamente di non conoscere gente sulla bocca e nelle orecchie di tutti?
Ad ogni modo: c’è evidentemente ancora un bel nucleo di persone per cui se Cristo si è forse fermato ad Eboli, di sicuro la musica si è comunque fermata ai Led Zeppelin. Che dire? Poveracci. Li compatiamo. Ma non lo diciamo per sminuirli o denigrarli, è che molto semplicemente dimostrano di essere sconnessi dalla contemporaneità: si sono dimessi da essa. Una contemporaneità in cui un rapper, Marracash, fa un festival molto se-stesso-centrico (senza insomma chissà quali sorprese in line up) e nella sola Milano vende più di 80.000 biglietti (meno a Napoli la settimana dopo, ma sempre tanti); una realtà in cui un gruppo si rimette insieme dopo anni, i Dogo, e inizia a mietere in prevendita al Forum (12.500 posti di capienza!) sold out in serie tipo noccioline; una realtà in cui una relativamente nuova leva, senza chissà quale pregresso di popolarità se non quella di nicchia e per un target ben preciso, ovvero Tedua, con un disco come “La Divina Commedia” crea talmente tanto interesse attorno a sé da avere una ventina di date sold out in prevendita nei palasport in giro per l’Italia e poi, per il 2024, viene promosso ad headliner degli I-Days (il festival dove, secondo quelli di Eboli e degli Zeppelin, c’è la musica “vera”; e dove ad oggi mai c’era stato un artista italiano come headliner). Tutto questo senza nominare Sfera Ebbasta, che semplicemente dicendo con cinque minuti di anticipo “Raga, faccio una cosina” (in realtà era solo un marchettone per creare hype attorno al suo disco oggi in uscita) raduna migliaia di persone e altrettante ne lascia fuori disperate.
C’è evidentemente ancora un bel nucleo di persone per cui se Cristo si è forse fermato ad Eboli, di sicuro la musica si è comunque fermata ai Led Zeppelin. Che dire? Poveracci
Chi pensa che tutte queste migliaia di persone – anzi: centinaia di migliaia di persone – siano solo ragazzini brufolosi decerebrati che per eccesso di testosterone adolescenziale sono incapaci di distinguere un teen idol da un musicista serio, prende una gran cantonata. Perché se uno oggi ai concerti ci va, invece di spargere fiele con la tastiera, si rende ben conto che il pubblico del rap – anche e soprattutto quello da classifica, da numeri – è diventato tanto intergenerazionale quanto interclassista e variegato. Sì, chiaro, i quindicenni e i ventenni ci sono; ma ci sono anche tantissimi mediomen trentenni, spuntano coppie quarantenni, addirittura fa capolino qualche grigina stempiatura cinquantenne e no, non sono questurini in cerca di spaccini di piccolo cabotaggio.
L’immaginario del rap, che anche nelle sue versioni più diluite ha sempre e comunque un forte aggancio con la cultura hip hop, aka una cultura agli antipodi rispetto allo spirito italiano, è entrato definitivamente nell’immaginario collettivo sociale nazionale.
Il concetto più forte emerso nel 2023 musicale di questa nazione è, secondo noi, questo.
Perché oggi davvero gli artisti rap non solo raccolgono stream più o meno distratti, più o meno giovinastri, piccole effimere bolle modaiole per minorenni; no, raccolgono pure numeri veri ai concerti, ai biglietti venduti, al “Pago 20/30/40/50/80 euro perché ti voglio vedere dal vivo, perché voglio “vivere” in modo completo la tua musica, e voglio cantare a squarciagola con altre migliaia di persone le tue parole”. Se con tutta l’ondata trap iniziale c’era il sospetto che l’inconsistenza degli argomenti e/o dei concetti così come un eccesso di “fumettismo” (ciao, 777!) avrebbe reso tutto solo una buffa, brutta bolla adolescenziale rosa tossica, il tempo come sempre è stato galantuomo e a ha dimostrato che chi ha carisma davvero e/o qualità davvero, il successo autentico e consistente lo raggiunge. Non quello effimero, quello a presa rapida ma a disillusione altrettanto rapida: no. Il successo vero. Autentica. La popolarità vera. L’attenzione reale di un pubblico vasto, e non targetizzato, non settoriale e a manovra di marketing.
Chi è realmente in minoranza, in buffa patetica minoranza, è insomma ormai proprio chi sotto i post di Rolling su Tedua o Sfera scrive “E chi è questo?”, “Quando vi è occupate di musica?”: perché ehi, se fino a poco tempo fa la scelta della più importante pubblicazione di musica in Italia (e, come brand, una delle più importanti al mondo) di rivolgere più attenzione a un certo tipo di scene e di musiche poteva essere visto come una scelta furbetta per capire se si poteva aumentare il bacino d’utenza, ora è una scelta puramente inevitabile e al 100% giornalistica. Nel senso che rappresenta per bene lì dove sta andando l’attenzione del pubblico: occuparsi di certi nomi non è più una mossa furba, o futuribile, no, è una mossa banale, ovvia, inevitabile, logica, necessaria, se si fa giornalismo.
Dieci anni fa non lo avremmo detto. Forse, nemmeno cinque anni fa. Il rap era ancora un fenomeno in potenza, nella scala del mainstream nazionale.
…ma con questo 2023, il rap in Italia è entrato veramente nell’età adulta. Definitivamente, irrimediabilmente. È entrato cioè nella quotidianità ed inevitabilità della maggioranza. Non è più solo una bizzarra nicchia capace inspiegabilmente di avere bolle improvvise d’interesse attorno a sé, e poi però al momento del dunque fate giocare quelli bravi, quelli “veri”. No. Ha fatto il salto di qualità. E non lo dicono più i giornalisti hipsteroni e vanesi, tipo chi vi scrive: lo dicono i fatti.
Se con tutta l’ondata trap iniziale c’era il sospetto che l’inconsistenza degli argomenti e/o dei concetti così come un eccesso di “fumettismo” avrebbe reso tutto solo una buffa, brutta bolla adolescenziale rosa tossica, il tempo come sempre è stato galantuomo e a ha dimostrato che chi ha carisma davvero e/o qualità davvero, il successo autentico e consistente lo raggiunge
Partendo da questi presupposti, ci azzardiamo a fare una previsione, per sparigliare un po’ le carte. C’è un nome di cui poco si parla ma che molto sta facendo, e molto sta ottenendo, ed è forse quello su cui scommettere di più per il lungo termine: Nayt. Marra è Dio, i Dogo sono il contraltare satanico di Dio, Salmo è un drago fiammeggiante, Sfera un potente abile ed involontario paraculo, Fibra e Noyz invecchiano bene senza cedere praticamente nulla, Gemitaiz ha il suo spessore e non glielo leva nessuno, Tedua già v’abbiamo spiegato che è entrato – con pieno merito, e facendo un disco coraggioso – nel Girone dei Grandi. Ma l’altro giorno abbiamo visto Nayt in concerto e, insomma, siamo rimasti veramente impressionati.
È un prototipo strano, lui. Perché nasce rapper da battaglia, nasce come uno che urla e zompetta su accenti trap infoia-ragazzetti, nasce senza pedigree illustri e chissà quali investiture da mostri sacri; epperò di tutti i nomi citati e in generale di quelli oggi in circolazione è forse quello – assieme a Tedua, poi aspettiamo Izi – che ha avuto il percorso di crescita dello spessore diremmo proprio intellettuale e personale più impressionante e consistente. Di brutto. C’è chi si gingilla col colore dei capelli e coi pellicciotti mentre le major gli comprano le pubblicità su Times Square a NYC, beato lui (…beato?); e c’è invece chi si è spaccato la testa negli ultimi per migliorare se stesso, per capire meglio il mondo, per ammettere e raccontare le proprie debolezze e farlo attenzione non per celia o per incontrare più simpatie facili dei bro e dei fra, no, ma perché davvero vuole scandagliare le difficoltà e le imperfezioni della vita, dell’emotività. Questo perché sente la responsabilità dell’essere artista. Già. La responsabilità. E sa che se sei onestamente artista spesso non basta raccontarla, la realtà, ma devi anche prendere posizione verso di essa, e magari pure sviscerarla, scavando sotto la sua superficie. Quello che i Dogo facevano agli inizi, e che hanno fatto disco dopo disco sempre di meno; quello che Marra ha fatto divinamente con l’ultimo album, ed in parte anche con “Persona”; quello che Fibra fa di default da sempre e Salmo in souplesse quando ne ha voglia, e che invece Gué ha smesso di fare nel suo percorso solista (per pigrizia creativa, o per interesse solo verso lo stile: visto che lui resta una persona acuta ed intelligente, e parlarci ogni volta è una bella esperienza).
C’è chi si gingilla col colore dei capelli e coi pellicciotti mentre le major gli comprano le pubblicità su Times Square a NYC, beato lui (…beato?); e c’è invece chi si è spaccato la testa negli ultimi per migliorare se stesso, per capire meglio il mondo, per ammettere e raccontare le proprie debolezze
Nayt da un lato rispetto a questi nomi “scompare”. Perché non ha lo stesso carisma, non ha la fisicità, non ne ha il tremendismo, non ha nemmeno la voce (“It’s mostly the voice”, diceva Guru coi Gang Starr, e scusate la paleontologia rap di questa citazione). Dall’altro però è quello che sul medio-lungo periodo più e meglio potrebbe entrare nel mainstream. Sì. Più degli altri citati finora. Potrebbe scriverne pagine più durature. Esattamente come nell’indie/it pop parlano tutti di Paradiso, ma poi i numeri veri e costanti li fa lo snobbatissimo Ultimo.
È molto bravo tecnicamente, Nayt. Gli Shiva e Paky e purtroppo pure i Geolier sono per ora dei mezzi cani rognosi sul palco (nel caso di Geolier lo diciamo con dolore, visto che lo troviamo bravissimo asoltando quello che sforna in studio), Nayt invece esattamente come Tedua è uno che tiene il ritmo e tiene il controllo del flow ad un livello davvero ottimo, e senza rifugiarsi in metriche troppo semplici o troppo spigolosamente old school, al massimo prendendosi qualche licenza e qualche pausa di rilassamento pop.
È molto onesto con se stesso e col proprio pubblico: come già detto ha lavorato su di sé, per non essere il rapperino che vive di rendita facendo il bullo. E per quanto riguarda il pubblico che ha di fronte, non gli nasconde niente né si abbassa per venire incontro alle sue (supposte) capacità mentali. Ovvero, se c’è da parlare o rimare complicato, parla o rima complicato. Se c’è da parlare a cuore aperto, parla a cuore aperto. Se c’è da chiedere di non comportarsi da idioti, chiede di non comportarsi da idioti. Valore aggiunto: tutto questo lo fa non con arroganza o supponenza, non “per spettacolo” da guappo seduttore, ma con linearità. Come se fosse tutto, come dire?, inevitabile, logico.
Altra caratteristica interessante che potrebbe aiutarlo parecchio nella longevità sulla lunga distanza rispetto a colleghi più flamboyant, è la cura e l’equilibrio che ha trovato nella parte musicale. È un rap ovviamente imbastardito col pop-rock (o in alcuni momenti con la dance meno di ricerca), come fanno oggi purtroppo quasi tutti e sinceramente questa continua a sembrarci una grande occasione persa, ripensando a quanto la cultura hip hop sia stata in grado di rivoluzionare la musica quando è arrivata nei nostri ascolti. Ma mentre nel caso di Tedua il sapore finale era quello della mistura originaria cazzuta appositamente però annacquata per venire incontro ai gusti del grande pubblico (vale pure per i visuals), nel caso di Nayt senti invece molta più coerenza, onestà e coraggio complessivi, oltre a qualche striatura bluesy in più nella band che dà davvero un bel sapore, dà una maggiore consistenza e pure un tocco di originalità (…se mai abbandonasse gli ottimi collaboratori di ora, sarebbe bello sentire Nayt avere i Bud Spencer Blues Explosion come backing band: ed è un grandissimo complimento scriverlo).
Detto ciò, esattamente come capita a tutti i rapper che stanno mietendo risultati su risultati live in questo periodo e da qualche anno a questa parte, Tedua e non solo Tedua, Sfera e non solo Sfera, Marra e non solo Marra, il pubblico lo segue. Canta le parole. Partecipa. Empatizza. Si identifica: e non per isteria teenageriale, ma per libera e consapevole scelta. Proprio il suo essere più “normale” di altri, il più lineare nell’esporsi, nel presentarsi e nello spiegare, potrebbe garantirgli uno status in notevole crescita. E questo perché, ribadiamo il concetto, lui non si “normalizza” o “semplifica” o adegua/addomestica per paraculamente raggiungere il mainstream: dal vivo non abbandona la cazzimma degli esordi, nei dischi non si preoccupa di rendere sempre più intricati i riferimenti e i ragionamenti. Rispetta se stesso e il suo percorso (un percorso di crescita e di introspezione), rispetta il suo pubblico, che a sua volta rispetta lui e non lo considera solo un un entertainer o un feticcio.
Un circolo virtuoso che potrebbe garantire una consistenza ed una lunga vita artistica non banale.
…quindi sì, in mezzo a un mare di usual suspects che in questa annata importante hanno fatto cose importanti (il joint album solidissimo di Salmo e Noyz, per dire: non sorprende, ma di certo non delude, anzi), proviamo a scompaginare un po’ le cose e a dire che il percorso che più ci sta colpendo nei marosi del rap nazionale anno 2023 è quello di Nayt, massì. Per il 2024 invece una cosa la diciamo già: il punto interrogativo è Lazza. Deve decidere cosa fare da grande. Il talento immenso ce l’ha (il suo breve feat è la cosa migliore del disco di Sfera uscito or ora), ma la consapevolezza su come usarlo, beh, vedremo.
L’augurio per tutti e tutte, comunque, è: non ascoltate i consigli dei discografici e dei vostri manager. Fidatevi di voi stessi. Gli artisti siete voi. Gli altri, sono in primis dei gestori e dei commercianti, questo sono; e già stanno facendo abbastanza danni, facendovi credere che l’obiettivo primario di un disco sia funzionare sul mercato e rendervi merce appetibile per gli investimenti dei brand. Perché se nel breve questo approccio massimizza i vostri risultati e premia il vostro conto in banca, dopo un po’ sentirete quell’ovosodo in gola che…