Ogni volta che qualcuno si approccia a un qualsiasi “nuovo qualcosa” targato Aphex Twin, le domande che vengono poste sono più o meno sempre le stesse.
- Cosa dobbiamo aspettarci?
- Che impatto avrà sulle faccende musicali odierne?
- E sul futuro?
Tutto questo perché Aphex Twin rientra in quella serie di artisti che hanno avuto l’ardore, il coraggio e il genio di inventarsi una cosa (o di prendere una cosa che già esisteva per poi condurla verso universi altri) finendo di fatto per essere universalmente condannati a dovere ogni volta stupire, incidere sulla contemporaneità e costruire ponti che conducono al futuro.
E infatti, se ci fate caso, i suoi dischi di solito vengono affrontati e analizzati in due modi. Da una parte ci sono quelli che aspettano ogni suo lavoro come si aspetta un’apparizione mariana, l’ennesima nuova rivelazione, per poi rimanere sistematicamente delusi perché, alla fine: “Aphex è sempre Aphex, suona come Aphex, e quindi che palle questo Aphex”.
Dall’altra, invece, ci sono i fan ossessivi che affrontano ogni sua nuova produzione con lo spirito dell’anatomopatologo che si prepara a effettuare l’autopsia. Quelli per cui il modo in cui Richard David James fa i dischi conta più dei dischi in sé e per sé, per cui via a discernere per ore e ore di questa o quell’altra macchina, riducendo ogni sua composizione a un mero sfoggio di tecnica, un po’ come dei fan dei Dream Theatre inciampati per caso sulla via della techno. Quelli per cui le tracce si valutano a spezzoni e ogni spezzone viene valutato come se fosse una cosa a sé.
Tipo: qui ci sono due parti di “… I Care Because You Do“, un terzo di “Drukqs” e un pizzico di “Selected Ambient Works“. Mescolare bene, servire freddo.
C’è anche una terza via ed è quella di chi odia Aphex Twin non tanto per la musica che fa, ma per quello che rappresenta agli occhi di un determinato tipo di pubblico. Uno che è arrivato sulle scena per mettere i baffi alla Gioconda della cassa dritta e che è stato trasformato dai suoi fan in una specie di santone intoccabile, per cui ogni sua opera d’arte sarebbe per natura inattaccabile e incriticabile. In pratica l’equivalente in chiave musica elettronica di uno Springsteen o di un Vasco Rossi, un artista da idolatrare a prescindere della qualità di quello che produce e per cui non sono ammesse voci fuori dal coro.
Se non ti piace quello che fa, diceva un certo tipo di vulgata comune, la colpa è tua che non lo capisci e non hai gli strumenti cognitivi utili ad approcciare la sua arte. Aphex non sbaglia mai.
Aphex è un guru. Un maestro. Dio. Young Signorino.
Eppure l’ironia, il non prendersi troppo sul serio, il sarcasmo, è da sempre uno dei marchi di fabbrica della premiata ditta AFX.
Uno che con i primi soldi fatti con la musica si è comprato un carro armato, che ha storpiato il suo volto in ogni modo possibile, che si è auto intervistato per la promozione di un disco, che ha chiamato così la sua raccolta di remix, che trolla sistematicamente il proprio pubblico, che suona Tiziano Ferro o pezzi raggaeton durante i suoi set e che presenta le nuove uscite con comunicati stampa tipo quello che qui trovate decriptato).
Insomma, sono quasi trent’anni che Aphex ci prende e si prende per il culo.
E anche il modo in cui è stato presentato il nuovo EP “Collapse” ne è la conferma.
Sono bastati un paio di “frecce” (un logo che per gli appassionati di certa musica è popolare quanto quello della Nike), comparse in varie città del mondo, a scatenare la solita isteria. Perché l’attesa di cosa sta per combinare Aphex Twin è essa stessa l’essenza di Aphex Twin.
Fortunatamente è arrivato subito il video di “T69 collapse” a mettere d’accordo tutti.
Perché se è dai tempi di “Windowlicker” che non realizzava videoclip, si può dire tranquillamente che c’è lo stesso intervallo temporale dall’ultima volta che aveva avuto un singolo davvero “singolo” (sì, sempre “Windowlicker”).
Cioè un qualcosa che fosse al tempo stesso immediatamente riconoscibile, e questo per lui è un gioco da ragazzi, ma anche d’impatto memorabile e dal potenziale – ehm – catchy . La versione pop di una cosa che per indole, vocazione e background nasce orgogliosamente anti-pop.
Pop nonostante i continui cambi di ritmo (un tale su Reddit sostiene che ce ne siano in tutto 150 e io ho deciso di credergli).
“T69 collapse” non è solo il singolo di traino dell’EP, ma ne rappresenta il fulcro. Lo zenit di un’uscita che brilla innanzitutto per la compattezza e dove non ci sono riempitivi, ma un mood unico seppur policromo che caratterizza ognuna delle cinque tracce. Come tutti sanno, “T69 collapse” era stata già testata da Aphex Twin dal vivo, e lo stesso si può dire per altro materiale presente nell’EP.
“MT1t29r2“, per esempio, non è nient’altro che la tanto discussa e presunta collaborazione tra Richard e Jlin che Mike Paradinas aveva spoilerato (per poi farla rimuovere) in un mix che aveva realizzato per Bleep e che poi era stata suonata anche durante il tour 2017 di Aphex Twin.
La versione presente su disco non si distacca poi molto da quella già sentita nei live, anche se il nome di Jlin è del tutto scomparso dai credits (poi magari scopriremo il contrario quando avremo per le mani la copia fisica): post-footwork (esiste? Non esiste? La inventiamo ora?) che parte molto morbida per poi inasprirsi mentre i suoni si fanno più minimali e il bpm rallenta.
“1st44” è Aphex Twin che suona come “Windows 95 strafatto di coca” (definizione rubata, lo ammetto): beat quasi jungle, pad di archi e intermezzo analordogico. Tutto molto classico, denominazione origine controllata.
Aphex Twin che fa Aphex Twin, appunto.
E qui torniamo al discorso iniziale, quello delle aspettative: pensare che ogni lavoro di Aphex Twin debba per forza spostare in avanti le lancette della musica è folle e probabilmente è anche il motivo per cui ha impiegato tantissimi anni a pubblicare nuova roba. Perché la sua rivoluzione è già stata compiuta, l’ha già fatta, ed è cristallizzata in un momento storico preciso.
Esiste già un prima e un dopo Aphex Twin e questo è uno dei motivi per cui ogni suo nuovo disco fa gara a sé. Provando a guardare in un altro ambito, vale il discorso che si dovrebbe fare (e che si fa) per i My Bloody Valentine dove ogni nuovo capitolo della loro discografia – per ora, l’unico album uscito dopo “Loveless” – va inteso come un aggiornamento del loro personalissimo suono.
Non è al mondo intorno che bisogna guardare ma solo al proprio unico percorso.
“abundance10edit (2 R8’s, FZ20m & a 909)” è forse la traccia più raverina dell’EP. Anche qui si parte da influenze footwork per approdare a una parte centrale che finisce – giuro – per ricordare addirittura “Born Slippy” degli Underworld prima di abbandonarsi a un delirio persuasivo, tribale e digitale al tempo stesso, che sfocia in un finale dagli spiccati tratti ambient.
A chiudere, invece, c’è “Pthex” che utilizza, distorce, e sovrappone una serie di beat (e dei bassi) che potremmo quasi definire trap e che rappresentano forse la novità più interessante dell’intero EP (lo stesso si può dire per tutto il discorso footwork già fatto in precedenza e che ritorna anche in questa composizione finale). Come detto all’inizio, la cosa che convince di più di “Collapse“, oltre il fatto che non ci sia neanche un riempitivo e che tutto sembra essere davvero a fuoco, è il mood generale compatto e danzereccio.
La cosa migliore a nome Aphex Twin dai tempi di “Drukqs“.
E noi non vedevamo l’ora di poterlo scrivere.