Fioccavano messaggi WhatsApp prima ancora che la notizia uscisse sui giornali: “Sai che il Muretto è fallito? Sai che cacciano Pinton?”. Non erano rumours infondati o speculazioni malevole. No: è accaduto davvero. Tito Pinton, quello che agli occhi di tutti è, da vent’anni, assieme al socio Marco Piu, il padre-padrone del Muretto, una delle discoteche che ha attraversato diverse ere – è nata ad inizio anni ’60 – ma che ha saputo trasformarsi ogni volta fino a diventare uno dei “superclub” italiani noti a livello europeo nel nuovo millennio, è stato semplicemente sfrattato dalla proprietà delle mura.
Inizialmente si parlava solo di debiti col fisco (prontamente rateizzati: non sono loro il problema, d’altro canto se fatturi molti il fisco t’aiuta, è se fatturi poco che è inflessibile), ma è presto emerso che c’è un contenzioso piuttosto pesante in corso con la proprietà. Tant’è che all’inizio sembrava quasi che sì, c’erano problemi di pagamenti, ma veniva concesso l’esercizio provvisorio e il Muretto così-come-lo-conosciamo poteva andare avanti; passato pochissimo tempo però c’è stato il giro di vite: la P2 Srl, ovvero la società costituita da Pinton assieme a Marco Piu per gestire in primis il Muretto, si vedeva semplicemente tolte le chiavi del club. Simbolicamente pesante il primo effetto: il 30 aprile doveva esserci la serata con Loco Dice che faceva anche da festa di compleanno di Pinton, invece porte sbarrate e tutti a casa. Il giorno dopo, invece, per Mamacita, si riapriva. Visto che non era serata sotto il cappello di P2 Srl (…e che invece la proprietà del Muretto, dal suo stabile, ci vuole guadagnare).
Ora gli avvocati sono al lavoro. Chiaramente ciascuna delle due parti reclama ragioni (“Negli anni vi abbiamo versato quasi otto milioni di euro”, “Nel 2020 vi abbiamo azzerato l’affitto, nel 2021 ve l’abbiamo ridotto del 30%, che altro volete”, “Il debito lo potevamo estinguere senza problemi”, “Sono anni che piangete miseria e dai numeri che ci date i guadagni sono ridottissimi da tempo, altro che estinguere”). Quello che è da dire, a margine, è che non è detto che il tutto resti confinato lì dalle parti di Jesolo (che comunque già sarebbe tanto, vista l’importanza storica del Muretto nell’ultimo ventennio di clubbing): Pinton come noto è vulcanico, ed è già frontman assieme a Giuseppe Cipriani del Musica di Riccione, che a breve avrà dopo tanti annunci e tante attese pure il suo gemello newyorkese, inaugurazione prevista per il 14 maggio. Come dice lo stesso Pinton, così come riportato dal Resto del Carlino un dieci giorni fa: “Io di società ne ho nove, quello che succede col Muretto non è collegabile con Musica”. A dire il vero in quell’articolo si parlava anche di esercizio provvisorio per il Muretto in mano alla P2 e di festa di compleanno con Loco Dice confermata, ma poi appunto le cose sono andate in altro modo. E’ tutto in evoluzione.
C’è una cosa da dire: Pinton, come sempre, non si nasconde. E non solo per dire che va al Met Gala a New York, mentre in Veneto ed in Italia la polemica su di lui infuria (e le malelingue, molte alle spalle e qualcuna di fronte, si sprecano). Appena scoppiato il caso, ha pubblicato un lungo post su Facebook che vi riportiamo qui, in quanto aperto e pubblico: in qualunque modo la vediate (e in qualunque modo siate coinvolti), questo post comunque è un apprezzabile modo per dire “Io sono qui, rispondo delle mie azioni”. Uno legge, e può farsi la sua idea.
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Come stanno veramente le cose, lo stabiliranno in realtà commercialisti ed avvocati di tutte le parti in causa: le parti già emerse e coinvolte, altre che potrebbero eventualmente emergere ancora. La cosa peggiore che si può fare in questo momento è sostituirsi ai commercialisti ed avvocati suddetti, oltre che ai giudici, emettendo già sentenze di colpevolezza (o di innocenza), di truffa (o di persecuzione giudiziaria). Dall’alto di cosa? Di una laurea all’Università della Strada? Dell’essere Imprenditore di Me Stesso?
…ma una cosa si può comunque dire: quanto sta accadendo evidenzia ciò che stiamo affermando già da tanto tempo, ovvero che c’è uno strisciante disequilibrio finanziario di fondo in tutto questo circo del clubbing. Il fallimento del Cocoricò gestione De Meis prima, ora quello presunto del Muretto “pintoniano”: ehi, non stiamo parlando di due locali qualunque, ma di quelli che nell’ultimo decennio e passa hanno – con pochi altri – fatto il bello e il cattivo tempo, con una ius primae noctis (guadagnata sul campo) coi nomi più grossi, più importanti, apparentemente più remunerativi.
Forse è stata semplice malagestione, per i casi specifici? Forse. Ma forse – e propendiamo per questa ipotesi, o almeno la consideriamo compresente e complementare – già da tempo si sta troppo tirando il collo nel contesto dei locali techno e house e dintorni, e si è creato un macrocontesto imprenditoral-economico troppo insano, troppo a rischio, sempre sul filo. Non c’erano e non ci sono solo il Cocco di un tempo e il Muretto degli anni recenti ad operare in perdita: altri locali anche storici stanno camminando su una lastra di ghiaccio, soprattutto quelli che si sono appesi al super-ospite, ai “soliti” nomi, al fatto che o prendi il nome grosso fatto e finito (ed ampiamente remunerato…) o la serata non viene fuori. Chi l’ha detto? Il Cocoricò è diventato grande con i grandi nomi o con i resident, in origine? Il Muretto ha fatto la differenza solo con i grandi nomi o anche con l’atmosfera e il trascinante entusiasmo di chi lo portava avanti? Chi quei posti li ha frequentati negli anni, le risposte le conosce. Ma senza nemmeno “prendersela” solo coi grandi nomi, perché in realtà non sono loro la causa di tutti i mali ed anzi, se maneggiati con cura sono invece quelli che danno lavoro e guadagno ad un sacco di persone, non solo a se stessi. No. Il punto è che chi fa intrattenimento danzante notturno, in Italia, commerciale o underground che sia, deve stare attento ad un nemico pericolosissimo: l’euforia. Lavorare col divertimento delle persone, lavorare creandolo, questo divertimento, è una droga. Una maledettissima droga. Inizi a non poterne più fare a meno. Ed inizi a perdere le qualità della buona imprenditoria, spendendo soldi che non hai, rubacchiando o vendendo l’argenteria di famiglia pur di andare avanti. Entri in una logica di euforia continua in cui continui a rilanciare, rilanciare, rilanciare. Quasi una forma di ludopatia: all’inizio le cose vanno bene, e se iniziano ad andare male pensi che tanto prima o poi rimetterai tutto a posto – con la serata “giusta”, con l’ospite “forte”, con l’evento che “spacca”. E’ normale nella vita dell’imprenditore dello spettacolo, soprattutto ad alti livelli, perdere 40.000 euro in una sera e guadagnarne 70.000 la settimana dopo, perdere 200.000 euro in un anno e guadagnarne 300.000 l’anno dopo (…così come per quelli più underground perdere 2000 euro in una settimana e guadagnarne 3000 in quella dopo). Lo sappiamo. Ma non bisogna abusare, di questo principio. Perché nel campo del clubbing le economie sono diventate delicatissime: la gente spende (spesso) meno, gli artisti costano (spesso) di più, la possibilità di fare nero come si faceva alla grande negli anni ’90 è fortunatamente estinta, e c’è in generale pure un accresciuto grado di professionalità in mille elementi che fanno sì che i costi fissi aumentino. Occhio.
Non fatevi distrarre dall’euforia da Instagram, da foto trionfanti in cui è tutto bellissimo ed è tutto “It was a blast!”, da festival in località esotiche che stanno piedi solo perché sono finanziati a fondo perduto da potentati locali (o da un pubblico da jet set, abituato a spendere migliaia di euro a sera). Questo è un veleno che sta corrodendo il caro, buon vecchio artigianato da club culture. Che sì: è prima di tutto fare festa. Sì: è prima di tutto gioia, euforia, cultura. Sì: è capacità di lasciare il segno, nella storia culturale di un territorio. Sì: è possibilità di dare lavoro a tot persone a sera, a stagione, ad evento. Ma è anche capacità di fare bene i conti, di calcolare i rischi, di tirarsi indietro quando la posta in gioco è troppo grande per le proprie possibilità.
…tutto quanto abbiamo scritto qui sopra non è un messaggio a Tito Pinton. Ripetiamo: non lo è. Read our lips: non è un messaggio diretto a Tito Pinton. Ha trent’anni di esperienza, è arrivato ai livelli più alti del gioco, ha soci di spessore, nessuno gli deve insegnare niente, è perfettamente padrone delle sue azioni e delle sue scelte. Figuriamoci se siamo noi, o qualche commentatore su Facebook o su Instagram che non ha organizzato manco la feste delle medie che può fargli da maestro, che può bacchettarlo. Non vogliamo cadere nel tranello in cui tutto diventa improvvisamente “ad personam” e velenoso, in cui ogni ragionamento deve essere per forza una frecciata polemica contro qualcosa o qualcuno. C’è un problema sistemico, e come tutti i problemi sistemici riguarda tutti ed è responsabilità di tutti. Continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto, avendo ogni tanto il botto (reale o presunto) che fa da capro espiatorio e purificatorio sì ma poi anche come scusa per non cambiare le cose realmente, serve a gran poco.
E ora invece, dopo due anni di pandemia, dopo un periodo mai visto (e vissuto) prima nella storia del settore arrivato pure per giunta in coda a una crisi lunga e strisciante nel settore del ballo, le cose vanno affrontate.