L’estate sta finendo, e un anno se ne va, assieme alla stagione dei festival e dei grandi concerti: se dovessimo cercare di tirare le somme, è stato, a nostro modo di vedere, un anno in cui si sono viste alcune reinterpretazioni piuttosto radicali dell’idea stessa di concerto e di “live”, che probabilmente è destinata a non essere mai più quella a cui siamo abituati.
È vero, restando in ambito italiano ed elettronico/danzereccio quest’anno abbiamo rivisto con piacere autentici mostri sacri come i Prodigy o i Chemical Brothers con i loro show dal vivo, sempre uguali eppure sempre diversi proprio per quel quid di imprevidibilità che solo la dimensione live è in grado di offrire, e estendendo il raggio d’azione siamo stati positivamente sorpresi dalla performance dei BADBADNOTGOOD con la sua componente improvvisata di stampo jazzistico, ma sono state molte di più le performances che hanno fatto inarcare sopracciglia proprio per la scarsità della componente aleatoria.
Probabilmente avrete letto, in giro per i social media e non solo, orde di persone che si stracciavano le vesti perché Flume durante il suo live schiaccia “play” e non fa praticamente nient’altro, perché il live di Kaytranada è un’accozzaglia senza capo né coda, perché Martin Garrix passa più tempo a fare video col telefono che a suonare, o perché Grimes e Rihanna cantano in playback e quello di Beyoncé è una macchina così perfetta da esserlo “troppo”: è davvero questa la direzione in cui stanno andando i concerti, soprattutto quelli più pop?
Come spesso succede ultimamente, un buon osservatorio sulle dinamiche del pop presente e futuro ce lo offrono gli artisti della PC Music, che hanno tenuto proprio il venti luglio scorso una sorta di minifestival a Los Angeles con quasi tutti gli artisti del roster, da A.G. Cook e Danny L Harle a GFOTY e Spinee, ospitando anche due vocalist pop fresche di collaborazione con artisti del giro come Charli XCX e Carly Rae Jepsen: al di là del solito “live” in playback dichiarato platealmente di QT e delle esibizioni non certo da teatro dell’opera di Hannah Diamond e della stessa Charli XCX, particolarmente interessante è stato il live di Felicita, uno degli ultimi acquisti della squadra.
Per tutta la durata della performance, infatti, Dominik (il vero nome di Felicita, che proprio come SOPHIE si è scelto un nome d’arte femminile pur essendo un uomo), fa deliberatamente qualunque cosa anziché suonare o avere a che fare con la musica in generale, così come i performers che lo accompagnano sul palco: legge libri vistosamente annoiato, cosa che abbiamo visto fare anche a Gus AKA Kane West durante i live dei Kero Kero Bonito, gioca con le bolle di sapone, sale in piedi sulla console, si siede per terra, ma in nessun caso dà l’impressione di avere anche il minimo ruolo nell’esecuzione musicale.
Ok, non è certo la prima volta che qualcuno del giro della PC Music mostra un atteggiamento del genere durante un’esibizione, ci ricordiamo tutti la prima esibizione proprio di SOPHIE che mette al suo posto dietro la console una drag queen e sale sul palco vestito da addetto alla sicurezza, né tantomeno che in generale un artista del panorama elettronico prende una posizione del genere rispetto al concetto di performance dal vivo, anzi: già i Kraftwerk con i robot sul palco andavano in questa direzione, ma allora perché riproporlo ora e perché è interessante parlarne ora?
Perché, come dicevamo poc’anzi, soprattutto in quella parte di musica a cavallo tra elettronica danzereccia e pop radiofonico la dimensione live è cambiata radicalmente negli ultimi tempi, perdendo molta della sua connotazione imprevedibile e diventando sempre più un evento riproducibile, sempre uguale, per tutta la durata di un tour: ma allora che senso ha uscire di casa e spendere dei soldi per vedere uno show che sappiamo già essere uguale a tanti altri, magari già immortalati dai telefoni degli spettatori delle date precedenti e visibile su YouTube?
Non sarebbe sufficiente una Boiler Room per vedere lo show tranquillamente spaparanzati sul divano di casa? Se questa è la piega che stanno prendendo i live, vuol dire davvero che finiremo alienati come i giapponesi che vanno a vedere i concerti di popstar virtuali come Hatsune Miku, che proiettano il proprio ologramma su uno schermo?
Nel caso degli esempi virtuosi di cui parlavamo all’inizio, il valore musicale aggiunto dell’esperienza live è evidente, ma dove si trova il valore aggiunto in uno show in playback? La risposta, come ci dicevamo, arriva proprio dal pop un po’ più “avanguardista”, come quello degli artisti della PC Music o di Grimes, ed è esattamente quella che ci si aspetterebbe.
Sia durante le esibizioni della cantante canadese che, ad esempio, durante i DJ set di Danny L Harle (produttore eccellente, ma non esattamente il miglior DJ che abbiamo mai sentito) visti quest’anno, il valore aggiunto era il pubblico: outfit bislacchi, coreografie, gadgets e un sacco di senso di appartenenza, di “siamo qui perché facciamo parte di una community e ci piace metterlo in evidenza ed è per questo motivo che siamo qui, pazienza se il live non è veramente un live”.
È probabilmente anche per questo, quindi, che spesso e volentieri le notizie sugli artisti della PC Music escono in rete in maniera frammentaria e raffazzonata: non tanto e non solo per costruirsi dei personaggi dalle identità misteriose, ma per aiutare, tramite la condivisione dei frammenti musicali sparsi in giro per la rete, proprio la costruzione di una community, anche non enorme di fans che sia poi invogliata a ritrovarsi agli show.
In fondo, nemmeno questa è un’idea nuova, a ben vedere: Kevin Kelly l’aveva formulata già nel 2008, e nello stesso periodo, coi suoi soliti quasi dieci anni di anticipo sul resto del mondo, Trent Reznor l’aveva messa in pratica nella promozione di diversi album dei Nine Inch Nails: vederla messa in pratica oggi, su scala molto più ampia e applicata al pop, è solo l’ennesima conferma del suo essere visionario.
In ogni caso, per quanto troviamo divertente l’idea di andare ai concerti per manifestare la propria appartenenza a una community, restiamo ancora romanticamente ancorati all’idea di performance live “tradizionale” e continueremo a preferire gli show in cui i musicisti suonano davvero, o che almeno siano qualcosa in più della versione in studio anche musicalmente, non solo scenograficamente.