Il Mutek è un festival che da sempre ammiriamo tantissimo e, anche, sogniamo: sì, perché il fatto che nella sua edizione originaria e principale si svolga in Canada rende ovviamente difficile il poterci andare, per la micidiale combo mancanza di tempo + mancanza di soldi. Ecco che quindi abbiamo risposto entusiasticamente di sì quando Dino Lupelli, deus ex machina di Linecheck (festival, ma anche autentico think tank europeo per le nuove strategie nella musica), ci ha proposto un suo personale report del Mutek canadese di quest’anno. Tra l’altro, nel suo caso si tratta di un osservatore assolutamente qualificato: anni ed anni di esperienza sul campo (non solo Linecheck, ma nel suo CV ci sono anche Elita e Elettro Wave fra le sue creature, oltre a vent’anni almeno da clubber, osservatore, studioso, promoter). Bene: il Mutek è riuscito a stupire pure lui. Ecco come, ecco perché.
***
Gli anniversari dei festival vogliono dire poco o tanto a seconda di come si celebrano. Alain Mongeau, direttore artistico di Mutek, ci tiene a dire che per lui “…vent’anni sono tanti e mai come quest’anno per noi è importante interrogarci su quanto abbiamo già fatto e su quanto ancora abbiamo voglia di fare. Qualcuno ci prende in giro e dice che venti anni contano molto meno di venticinque!”. Io il Mutek lo conosco da sempre, con Alain si parlava di festival di musica elettronica durante una edizione storica del Sónar, quella del 2002, quella di Maradona in persona testimonial per intenderci, ma al suo festival non ci ero mai stato e non mi è parso vero aver avuto questo invito ufficiale dal Governo del Quebec e dal festival stesso per preparare un lavoro molto ampio che stiamo facendo in vista della prossima edizione di Linecheck in cui il Canada sarà la Guest Country.
Mi imbarco per Montreal senza neanche farmi prima una doccia dopo l’ultimo bagno di stagione e mi ritrovo in una città caldissima, piena di sole: si sente qui come altrove che il global warming non è più una profezia nefasta ma una cruda verità. Il Mutek mi accoglie con tutto il suo charme: tra i festival che conosco è quello che ha mantenuto più di ogni altro fede alla promessa di coniugare musica elettronica ad un mondo molto ampio di arte e cultura digitale. Il concerto inaugurale ne è forse l’esempio più lampante: Robert Henke aka Monolake suonerà nella PY1, una piramide capace di contenere seicento persone, proponendo spettacoli immersivi grazie ad un sistema molto ricco di tecnologie audio/video/luci.
In realtà, il festival comincia con uno speech che segna per me tutta l’edizione e la storia di questo festival. Il primo giorno, infatti, per lo speech d’apertura c’e Douglas Rushkoff, che presenta il suo ultimo libro “Team Human” ma sopratutto parla di musica vs cultura vs società. Da uno come lui – rappresentante di quel movimento antagonista che dal mondo del cyberpunk è arrivato alle cripto/valute passando attraverso la rave culture – ti aspetti una feroce critica al sistema, ed in effetti è quello che fa: i ricchi si stanno già organizzando, dice, per assicurarsi un futuro in comode residenze sub-polari ma sono preoccupati perché vorrebbero capire dagli esperti di tecnologie come lui in quale modo potranno proteggersi da quell’orda di umani disperati che abiteranno il nostro surriscaldato pianeta. I ricchi, dice, non hanno scampo; in ogni caso è l’unica risposta possibile a quanto sta per succedere è un deciso cambio di passo: iniziare a pensare come un team, compatto, di esseri umani. Proprio come accadeva all’epoca dei rave illegali, quando i dj non erano superstar ed il pubblico non poteva acquistare accesso in nessuna area VIP. Inconsapevoli anticipatori di temi molto attuali, i rave erano al tempo stesso occasione di appropriazione dello spazio pubblico e risultato di un processo di democratizzazione dell’accesso alla cultura. Wow!
In viaggio mi ero divorato Realismo Capitalista di Mark Fisher… Ecco che ci ritroviamo in pieno in una critica ormai a tutto campo al fallimento di un modello di sviluppo che sta mostrando tutti i suoi limiti. Si parla, e tanto, al Mutek: perché sono oltre ottanta i contenuti tra talk e workshop. Ci sono tre sessioni tematiche ed una, Il Forum IMG, mi ha praticamente rapito per i primi tre giorni, piena di approfondimenti su cross-medialità, intelligenza artificiale, realtà aumentata. Oltre a parlarne tanto (come si fa peraltro anche da noi), qui le esperienze concrete si moltiplicano: nascono aziende lì dove prima c’erano degli studi d’artista perché in questo settore musica e tecnologia vanno a braccetto con il businness.
Ecco spiegata la scelta dell’opening con Henke quindi, scelta che mi lascia però interdetto: sarà pure impressionante questa realtà immersiva, ma non ne capisco il fascino… Eppure Monolake è un grande vecchio dell’elettronica, non uno qualunque. Mi sale la paura di annoiarmi terribilmente per le prossime serate, sommerso da droni deliranti ed ossessioni estetiche a cui da tempo non presto più attenzione, ed il primo tra gli eventi della fascia Nocturne non mi conforta: sono pure stanchissimo ed il fuso orario non aiuta.
Esistono quattro percorsi diversi per orientarsi nella programmazione serale. Il più accessibile si chiama Experience, è un palco gratuito ed open air sulla Esplanade des Arts, una grande terrazza nel cuore del Quartiere degli Spettacoli dove si affacciano il Museo d’Arte Contemporanea, l’Opera ed una paio di sale concerti, tra cui l’immenso Maisonneuve dove ha sede la serie degli spettacoli cross-mediali X-Visions. Riesco a seguire facilmente le programmazioni, che nella loro eccentricità raccontano bene quanto sia ampio il mondo delle culture digitali: in piazza i suoni latini di Nicola Cruz attirano una folla incredibile, con lui che aizza i suoi fans con un post contro la deforestazione dell’Amazzonia, poi c’è il funk dell’eroe locale Akufen protagonista di tutta l’evoluzione della musica elettronica contemporanea, e poi tanto talenti locali. A me è piaciuto Slim Media Player, ma tutti parlano di D Tiffany e dei suoi suoni retro-futuristi. Di là in teatro, invece, produzioni enormi che cambiano per sempre il mio parametro di cosa significhi mettere in scena una performance multimediale: mi colpisce tantissimo la violenza sonora e visiva di Ryoichi Kurokawa, che costruisce mondi virtuali dove uomo e natura si scontrano senza esclusione di colpi, tra architetture brutali e foreste oscure. Purtroppo mi perdo i “nostri” Fuse, tanto attesi dagli addetti ai lavori.
(Nicola Cruz ammalia, foto di Vivien Gaumand; continua sotto)
Già: perché Mutek non è un festival per soli appassionati e semplici fruitori, ma raccoglie una grande comunità di curatori di festival internazionali che qui si ritrovano a poter scegliere, tra oltre venti anteprime mondiali, le produzioni che gireranno il mondo nella prossima stagione. Siamo quasi trecento persone a ritrovarci al primo giorno del secondo ciclo di conferenze Digi Lab, quello che storicamente caratterizza il Mutek nella sua dimensione Pro. Ci sono colleghi da cinque continenti ed i più appassionati gestiscono piccoli festival da qualche centinaio di persone ma magari in paradisi naturali in Centro America (Balto Pinto). Altri aiutano da qualche anno a portare la bandiera del Mutek in tutto il mondo, perché dopo l’appuntamento di Montreal, in una logica tra l’altro del tutto organica e non speculativa, questo festival farà tappa a Tokyo, San Francisco, Buenos Aires, Barcellona… tutto questo grazie al supporto di una vera e propria famiglia di amici del festival.
Come in ogni buona music conference arriva il momento di scoprire nuove realtà e mi fa molto piacere notare come nella sua presentazione Ruggero Pietromarchi riesca ad impressionare molti colleghi di tutto il mondo evidenziando le qualità di un progetto speciale come Terraforma che, come fa notare il moderatore, è stato precursore a livello internazionale sul tema della sostenibilità ambientale.
La sera i Nocturnes assumono connotazioni molto diverse tra loro, tra act più o meno sperimentali e più o meno danzerecci. Romantiche le visioni analogiche di Sonya Stefan, visual artist che spicca proprio per l’utilizzo di meccanismi di rifrazione e colorazione degli schermi totalmente manuali e che sono in contrasto con l’abbondante uso di tecnologia; entusiasmante il live di Sinjin Hawke & Zora Jones, che porta ad un diverso livello di concetto di audiovisivo per dance floor; interessante il progetto Yona di Ash Koosha, performer completamente sintetica ma così intelligente da prender vita in dimensione 2D; travolgente l’energia acida di Veronica Vasicka che ci fa tornare al punto di partenza, quella rave culture da cui tutto ebbe inizio.
Anche se dalle prime edizioni di anni ne sono passati diversi il pubblico, per lo più canadese, sembra gradire: in venti anni si sono stratificati gli ascolti e le esperienze, ed anche nei club più orientati al dancefloor ci trovi anche gente della mia età (o persino più grandi), quindi oltre i quaranta, accanto a giovani di varie tribù urbane. Fuori dai percorsi strutturati c’è anche una mostra incredibilmente bella – anche se di pochi pezzi – che ha il suo culmine nella struttura immersiva (ancora!) dell’Exadome progettato dal Institute for Sound and Music di Berlino. Qui, tra progetti audiovisivi dei più noti artisti internazionali, con una chicca di Thom Yorke, mi rimane scolpita nel cervello la bellezza cibernetica di “Retina”, progetto di Herman Kolgen, che farà qui una delle sue ultime apparizioni dal vivo: una delle più lucide visioni estetiche su di un futuro che ormai si è fatto presente. La mostra espande il senso comune di multimedialità, tra macchine che riducono il vetro in polvere, laser che tracciano geografie mutanti reagendo con il silicio ed il fantasmagorico specchio di Beoken Panorama della nostra Cinzia Canpolese che ricorda gli esperimenti di arte cinetica degli anni ‘50.
(Contesti sempre immersivi: qui la performance di Robot Koch e Mickael LeGoff, fotografata da Bruno Destombes; continua sotto)
Mi avvicino dubbioso anche alla sezione VR: di solito la realtà virtuale mi delude, troppo spesso non si supera la dimensione del giochino divertente. Ma qui vengono presentati i recentissimi lavori di una vera e propria scuola di cinema che si sta specializzando in questi racconti immersivi ed il risultato è molto interessante. Al piano superiore del SAT, istituzione permanente che tiene vivo il rapporto di Montreal con l’arte digitale, una cupola geodetica ospita ogni sera due performance immersive, anche qui la musica è sintetica e graffiante ma il messaggio è sempre lo stesso – salviamo l’umanità ed il pianeta.
E con la loro immancabile ironia parlano di società ed ecologia anche i Matmos, storico duo americano che ha da poco fatto uscire un nuovo e bellissimo lavoro: “Plastic Anniversary”. Anche loro devono festeggiare una ricorrenza, i venticinque anni di sodalizio artistico e sentimentale, e lo fanno con un live audiovisivo che parla della plastica che ingeriamo, della plastica con cui veniamo colpiti nelle manifestazioni pubbliche (Hong Kong e le sue proteste è l’argomento di cui parlano tutti…), della plastica che ci avvelena e che fa parte da sempre della nostra vita.
Insomma: tanta politica e tantissimi valori. Queste sono le cifre portanti di questo festival che in qualche modo risponde alle tante domande che ci stiamo facendo, anche da noi in Italia, sul presente e sul futuro del clubbing: senza radici ben piantate nella storia e nel futuro delle culture digitali, la liturgia della cassa in quattro quarti si impoverisce diventando puro e semplice divertimento. Bisogna saper andare più in là. Non bisogna smettere di cercare di farlo.
(I Matmos immortalati da Myriam Ménard, autrice anche dell’immagine di copertina)