Guardatevi intorno. Il nostro paese è pieno zeppo di artisti e di uscite robuste e decise, ogni mese, ogni stagione. E non sono traccette così, che valgono come tentativi o si limitano a inseguire un trend già definito, ma espressioni di carattere che hanno qualcosa di concreto da dire. Anche restando strettamente legati alla dimensione “electronic & beyond”, anche solo scorrendo le release recenti del nostro paese, c’è tanto materiale di qualità in cui potete imbattervi: da quell’angolo di emotività che è il nuovo video di A Copy For Collapse all’altro video di Nobel che invece si appiccica nel retro del cervello, dai droni sofisticati di Dave Saved su Gang Of Ducks all’odissea di ritmi nel nuovo album di Capibara “Jordan“, dalla classe deep di Matteo Spedicati nell’ultimo singolo “Never Let Us Go” a FuuKu scatenato che ha tirato fuori un’altra sferragliata elastica su Doner Music, dal perfetto equilibrio tra vigore dubstep e armonia cantata dentro all’ultima uscita NoMad a nome Estel Luz & Epi a quel pezzo di pane di Franky B che trasforma un pezzo arioso come “Show, Don’t Tell” dei Fukada Tree in una delle sue scorribande bastarde di drum&bass&dubstep. Tutti esempi di cui andare fieri e da sbattere bene in faccia quando qualcuno ritorna alla solita, maledetta faccenda del confronto con gli artisti esteri. E se non bastasse, andate dentro i suggerimenti centrali di questo ennesimo #crumbs dedicato agli italiani. Ci troverete gente con le palle che, seguendo la propria strada senza badare a nessuno, hanno raggiunto la dimensione a cui ambiscono tutti i musicisti in questo mondo: essere un nome che rappresenta qualcosa di particolare, non una copia di qualcos’altro ma un personaggio coi propri lineamenti caratteriali e i propri suoni riconoscibili, guadagnandosi il rispetto di tutti. Chi più in grande, chi più in piccolo. Le dimensioni non contano, sono solo una faccenda di circostanze.
[title subtitle=”Leslie Lello: prospettiva di un nuovo fenomeno”][/title]
Ora, magari il nome “Leslie Lello” vi strapperà qualche sorriso. Vi farà pensare a qualcuno che sta giusto producendo un paio di tracce senza troppe pretese e senza prendersi sul serio. Sul non prendersi sul serio ok, è vero (è il primo segno di intelligenza di un artista). Sulle tracce senza pretese, un attimo, parliamone: Leslie è venuto fuori nell’ultimo anno da quel vivaio di bombe a mano che è la crew Trash-Dance, si presenta come un DJ serrato e competente praticamente su tutto (garage, funky, juke, house, drum’n’bass, meglio non chiedergli di discernere), in mezzo a vari mix e remix, ha già tirato fuori un paio di uscite capaci di presentare alla perfezione il bel caratterino di cui stiamo parlando. Ascoltate “My Body” e “Loud” e capirete. Uno spaccato potente e diretto di tutta la fantasia che può avere una tipica produzione moderna, senza seguire un contenitore ben preciso, abbondando di tagli di pancia e catalizzatori vocali in modo da risultare adrenalinico fin dal primo ascolto. Una di quelle combinazioni efficaci di cui son capaci in pochi, e che rischiano di sfondare di brutto. Quel che è accaduto finora è che il primo EP ufficiale, “Loud”, il caro Leslie l’ha pubblicato subito sulla Ghetto Division di Chicago (che di cosa è ed è stato efficace in ambito dance di strada, qualcosa ne sa), e ora l’ultimissima novità è “Aniko“, tre minuti di juke sfuggente, spastica e vorticosa che ti sfiletta le meningi. È “appena nato” e ha già uno stile riconoscibile (di quelli richiestissimi al momento, peraltro) e una strada potenzialmente spianata verso il diventare un fenomeno del clubbing di ultima generazione. Quel che accade adesso lo vediamo insieme, sia noi che lui.
[title subtitle=”Chiedeteci chi è Clap! Clap!”][/title]
Voi non sapete chi è Clap! Clap! E se vi viene di rispondere “ma certo che lo so, è Digi G’Alessio“, ribattiamo: voi non sapete chi è Digi G’Alessio. Nessuno sa chi è Digi G’Alessio. C’è chi dice sia un beatmaker fiorentino, c’è chi garantisce sia un produttore juke di Chicago. Ma no, senti qua, è chiaramente uno dei nuovi synth-producers finlandesi. Eppure qualcuno giura sia un wobbler bristoliano. Ma come, non era trap? E il medio oriente? Gli USA bass? No, amico, niente di tutto questo. Ascolta l’ultima uscita, che poi è il suo primo album ufficiale, “Tayi Bebba“: lui altri non è che uno di quei frutti moderni del nuovo underground africano, quello che va strizzando l’occhio all’occidente a suon di ritmi sghembi e bassi profondi. A occhio e croce è un congolese. Che però ha fotografato in dettaglio il momento attuale della bass music europea e americana, definendone praticamente il modus operandi. Un metodo così elastico e così pulito che lo puoi riapplicare a qualsiasi cosa. Sempre che tu ne sia capace, ovvio: tu ‘Bebba’ lo senti e ti sembra facile, lineare, clinico. Sembra una di quelle cose definite in ogni contorno, che chiunque potrebbe riutilizzare e riprodurre in scala. Peccato che no, roba fatta così san farla in pochi, pochissimi. Metà di quelli che ci provano fan tracce slegate, cervellotiche, difficili, l’altra metà tira fuori robe venute quasi per caso, e se glielo chiedi non san dirti di cosa si tratta. Qui invece il cerchio si chiude: questo è il brodo primordiale, il blob che invade le strade di tutta la musica bass-oriented, il plasma da cui è possibile creare tutto. Che sia l’Africa o l’Antartide. Ah, Clap, a proposito: a quando la musica eschimese?
[title subtitle=”Apes On Tapes, il laboratorio clandestino”][/title]
Quelli che la faccenda abstract beats non è ancora finita e di cose da definire, da dettagliare, da investigare ce n’è ancora un mondo. Quelli che non esistono tag che si possano adattare a certa musica, perché vien fuori a partire da un piano-struttura completamente libero da confini e da limiti imposti di genere. Quelli che la musica è fatta di ingegno, ricerca di quelle combinazioni quasi introvabili ma che quando le trovi ne hai la certezza: funzionano, fin dal primo ascolto, anche a un orecchio meno allenato. Gli Apes On Tapes restano ancora in cima tra i migliori professionisti che abbiamo in Italia, in tutto quell’universo esteso che è il beatmaking. E se non fosse bastato quel gioiello che fu “Foreplays” nel 2011 (che resta ancora uno degli esempi migliori di quel che ai tempi chiamavamo ancora wonky, per chi se lo fosse perso è ancora in free download sul loro bandcamp), quest’anno il trio bolognese vuol tornare con due EP, il primo dei quali, “Pitagora’s Bitch”, già uscito e in free streaming su soundcloud. Gli ospiti rispondono ai nomi di Godblesscomputers, Millelemmi, Desanimaux e B.Kun, il background hip hop è ormai un ricordo in dissolvenza, superato da una selva di intuizioni che per chi conosce gli Apes non dovrebbero essere più una sorpresa. Tra i pezzi migliori il tocco minimale delicato di “Ejaculattitude”, un po’ post-dubstep un po’ lontano oriente, e la “Cattlestar Galak” che, con eleganza, quasi con gentilezza, spara giù una serie di frustate acide pensate sull’orecchio abituato al massimalismo moderno. Troppo facile dire “fossero americani pubblicherebbero su Brainfeeder“: gli americani questa roba non la capirebbero, e la soddisfazione ancora più grande in questo caso è riprodurre in questo laboratorio clandestino che è l’underground italiano germi pericolosi, nocivi, potenzialmente capaci di scatenare un’epidemia virale, se finissero tra le mani sbagliate. O tra quelle giuste. Beh, ci siamo capiti.