La famigerata EDM. Forse il tema più scottante di cui parlare in questi tempi. E forse quello di cui è davvero necessario parlare, se si vuol aumentare la coscienza del nostro momento storico. L’abbiam fatto anche di recente, quando David Guetta raggiunse 50 milioni di fan, e in quel caso la posizione che ci premeva evidenziare era quella ‘opportunistica’ e tollerante ispirata alle parole di Mr. C. Ma ciò non toglie tutti gli effetti sbagliati che certa EDM si porta dietro, che sono innegabili e meritano di essere messi in rilievo con forza almeno pari. E allora #crumbs oggi racconta l’altra faccia della medaglia, partendo da una manciata di casi recenti che ci han fatto ribrezzo. Mettete i guanti di lattice, ci sarà da sporcarsi le mani. E abbiate fede, di un certo video che gira in rete sul “dolce far niente” dei dj EDM, vi parleremo approfonditamente presto, in sede separata. Qui siamo ai preliminari.
[title subtitle=”Anti-dj con le mani al cielo: Danny Avila”][/title]
La prima volta che ci siamo imbattuti in Danny Avila è stata qualche mese fa, durante una delle tante heavy rotation EDM che danno in tv. Il video era “Voltage”, quello che trovate qui sotto. Quello che più ci ha lasciato senza parole non era tanto la musica in sé (di bordate così, sparate in maniera meccanica come fosse fumo in discoteca, ne senti così tante in un’ora di clip che a un certo punto non ci fai più caso). Quello che ti colpisce come un diretto allo stomaco è l’immaginario rappresentato nel video, l’ambizione con cui si confronta la nuova scena EDM: duecento tristi secondi in cui un ragazzino di diciotto anni trova la sua massima aspirazione in piedi sopra la consolle, agitando le mani davanti alla folla da stadio, mentre il pubblico lo elegge a proprio Dio senza motivazioni plausibili. Il divismo portato all’esasperazione, rappresentato come status da raggiungere, slegato totalmente da criteri di tecnica, merito o talento. Ciuffetto biondo alla Bieber, sguardo spavaldo che regge bene la camera, due drop buttati a caso e il successo globale è servito: l’aborto dell’EDM moderna è una generazione di ragazzini che non hanno idea di cosa faccia un vero dj e pensano solo a sfondare. Il nulla assoluto eletto a moda giovane e quarant’anni di gloria dance buttati nel cesso. E se ogni volta uno dice “va beh, ma queste cose ci son sempre state“, stavolta ti viene la terribile angoscia che siamo a un’inedito dell’orrido. Qualcuno faccia marcia indietro.
[title subtitle=”Morire di becera omologazione: The Crystal Method”][/title]
Altra cosa piuttosto fastidiosa del fenomeno EDM è vedere l’esodo improvviso verso i suoni che tirano, da parte di realtà artistiche con una propria identità già definita, che teoricamente nulla dovrebbe entrarci coi suoni per le masse giovani. È qualcosa che succede sempre in corrispondenza di qualsiasi moda, ma che con la electro moderna finisce per dar vita a produzioni povere di senso estetico, omologate allo schema della riproduzione in serie e con una sensazione di “inutilità” innata, che ti spinge a chiederti: “e questo cambio di rotta a chi dovrebbe servire?”. È successo quest’anno coi Crystal Method: gruppo un tempo rispettabilissimo, che ha contribuito in parte alla storia del big beat e dell’esplosione della rock-elettronica di fine anni ’90 con l’album “Vegas” e pezzi come “Busy Child” e “Keep Hope Alive” che reggono benissimo ancora oggi. Un gruppo con un indirizzo ben preciso, capite, che aveva tutta la possibilità di continuare per la propria strada con dignità (ed era quello che ha fatto fino all’ultimo album), ma che invece ha deciso di convertirsi inspiegabilmente agli eccessi dell’EDM. L’album uscito quest’anno, titolato proprio “The Crystal Method” (dev’esserci dell’ironia in tutto ciò), è una collezione di pezzi irriconoscibili per chi già seguiva il gruppo californiano, una sbandata totale verso una electro drogata che dovrebbe essere solo faccenda da giovani, per giovani. Quando senti un pezzo come la “Emulator” qui sotto, ti chiedi se stiano davvero cercando di accalappiare le masse adolescenti, o se il loro sia un goffo tentativo di offrire una visione autorevole dei suoni moderni. E mentre misuri il fallimento di tutte le intenzioni possibili, quei suoni così impacchettati e poveri di ispirazione ti sembrano – come sempre – la peggior cosa che possa accadere in musica.
[title subtitle=”Perdere il senso in mezzo ai drop: Designer Drugs”][/title]
Non che i giovani invece siano messi tanto meglio. Si sentono nel bel mezzo di una battaglia di softair, a sparare cartucce finte contro una giungla popolata di individui fatti d’adrenalina. Far musica è diventato una gara a chi è capace di esagerare col migliore effetto e se qualche anno fa ci si lamentava che il dubstep fosse diventato una “gara a chi piscia più lontano” (parole di James Blake di qualche anno fa) oggi la regola prima è rintronare: sparare il drop è requisito minimo, fare in modo che si prolunghi a lungo con qualche cambio di passo è segno di merito aggiuntivo, il resto è solo banale riempitivo. A venirne fuori sono mostruosità come i Designer Drugs, duo statunitense dalla faccia furbetta che aveva esordito su album qualche anno fa, quando si poteva ancora parlare di nu rave e la fantasia in musica sembrava ancora una componente apprezzata, ma che oggi ritorna nel peggiore dei modi: buttando dentro nell’album ogni bordata possibile, schiaffando hardcore, dubstep ed electro house tutto insieme, elevando il caos e l’iperattività distorta a regola sonica. Uno ripensa a cosa ci ha condotto a tutto ciò, in mente ritornano i rave dei ’90 che erano una genuina rincorsa del futuro, poi gli avanzamenti electro dei 2000 che intendevano spostare l’approccio verso forme più esplicite e magari più di largo consumo, infine questa EDM qui, che sembra aver perso la direzione ed è rimasta nel bel mezzo del caos metropolitano a urlare ossessivamente la sua inadeguatezza. Qualcuno gli procuri una bussola, diamine.