La nostra amica Livia, appassionata frequentatrice del Berghain, entrandoci giovedì sera appena passato e guardandosi intorno, ci dice: “Questo non è il Berghain.” Non è stata l’unica ad essere stupita del pubblico che abbiamo trovato nello storico club, in occasione del CTM Festival 2014. E’ comprensibile.
Per chi a Berlino ci vive, abituato al sabato lungo (lunghissimo) della Klubnacht, la collaborazione Berghain – CTM è sembrata a prima vista piuttosto innaturale. Il dito è puntato contro le presenze, non intese come quantità bensì come target di frequentatori che solitamente il club non lo frequentano. Oppure non riescono ad entrare. Qualcuno ha detto che sono cambiati i tempi, che non è più il club di una volta e questo è assolutamente vero, ma in che termini? Forse è cambiata la concezione da parte delle teste che stanno dietro alle programmazioni, o forse più semplicemente è il CTM che trova troppo comodo logisticamente chiedere ospitalità al Berghain, come ormai accade da qualche anno. Sia come sia, la sfilata di nomi presentati ha comunque una coerenza con l’idea di origine, e con quanto si alterna in consolle durante l’anno. Forse è cambiata la gente e dunque sono cambiati anche i termini di selezione. L’oceano di turisti, l’esodo d’immigrati, la politica della città. Forse è il ciclo naturale di ogni cosa. Forse. Certo che sentire voci che si lamentano del fatto che alcuni possessori di pass, la maggior parte acquistati a cifre non indifferenti, sono stati in ogni caso, respinti dai selector con la scusa del “Sorry, this is a privat club”, lascia effettivamente un po’ perplessi. Ad ogni modo, Il CTM come consuetudine, non si è tenuto solo al Berghain, ma ha abbracciato diversi club e strutture della città. Noi abbiamo fatto un giro, cercando di rimanere nella parte più clubbing del festival, sempre che si possa usare un aggettivo del genere, quando si parla di una rassegna che predilige la sperimentazione.
Il mercoledì è il giorno di Moritz Von Oswald Trio e Tony Allen, per l’appunto, al Berghain. In realtà bisognerebbe definirlo Moritz Von Oswald Duo + Tony Allen, dato che c’è Max Loderbauer, ma manca Vladislav Delay. Nell’attesa dell’inizio del live c’è il buio, c’è un palco e sopra a questo una batteria. Quando Tony Allen compare, si respira nell’aria satura di fumo sintetico, quell’attesa importante che si percepisce solo nelle occasioni uniche. Il nigeriano è uno dei padri fondatori dell’afrobeat, è colui che è stato al fianco di Fela Kuti per anni. E’ uno di quegli uomini che hanno fatto la storia della musica, una leggenda e noi siamo qui ad aspettare che prenda le bacchette in mano. Quando inizia a picchiare sulla batteria è come se, in realtà, l’accarezzasse, quasi fosse una componente del suo stesso corpo. Sembra danzare. Von Oswald e Loderbauer danno inizio ad un viaggio che ha radici lontane, il principio dell’elettronica, della dub e del funk che si rivelano in avanguardie. Allen tallona e si fa rincorrere, valorizza, si diverte e muove le nostre teste e i nostri pensieri. Sequenze dub e afro, loop distorti e dilatati ricavati da chitarre funky e macchiati da rumori bianchi e delay.
Il giovedì e il venerdì le line up si arricchiscono di grossi nomi, spalmati, a seconda delle attitudini, tra Berghain e Panorama Bar. Cominciamo il giovedì con Owen Roberts e il suo Ensemble, improvvisazioni orchestrali che paiono nascere da pensieri che corrono molto più velocemente delle composizioni stesse. Professionisti. Segue CM von Hausswolff, un live difficile ma di rara perfezione, cosa che non vale, purtroppo, per Thomas Köner e Andy Mellwig, lo storico duo che prende il nome di Porter Ricks; c’è qualcosa che non va, sembra che alcuni canali dell’impianto Funktion One siano spenti, ma è più probabilmente che i due non siano in forma. Il pubblico si dimezza, anche a causa dell’inizio del live di Recondite al Panorama Bar. Il ragazzo tedesco è ormai un “idolo di zona” e riempie questa pista come ne sta riempiendo moltissime altre durante le sue ultime apparizioni. Un set visceralmente passionale, che coglie sia il lato più dancefloor che quello più intimo. La techno e intorno a questa inserti chill, soffici gemme a stemperarne la potenza oppure ad alimentarne il volo. Hypnobeat, James Dean Brown e Helena Hauff (per quest’ultima ottima performance solista il giorno seguente), regalano un live che d’ipnotico ha molto, effettivamente, ma che pecca, a nostro parere, di un po’ di sostanza. La sensazione è quella di trovarsi all’interno di una giungla scura, vittima di allucinazioni, ma manca l’attrito, manca il colpo di tacco. Samuel Kerridge, il miglior live della nottata. Una potenza sonora senza eguali, una presenza on stage che cancella, momentaneamente, i preconcetti sul fatto che se stai dietro una consolle, non puoi essere veramente live. Un animale da palco. Si chiude con Beneath, il giovane producer inglese sbatacchia il dancefloor all’ora in cui riesci a vederci le monete che la gente ha perso. UK house a tinte funky con chiusura esclusivamente grime. Poi è l’alba e poi è di nuovo notte.
Venerdì. Iniziamo con Dasha Rush: ascoltando i primi dieci minuti, comprendi che il set potrebbe avere un grosso potenziale, è brava, niente da dire, ma sulla lunga distanza ci si accorge che è come se avesse il freno sciacciato, suoni cupi e soundscapes abissali vengono farciti da davvero pochi “colpi”, lasciandoci in attesa per troppo tempo, considerando che, per il tipo di live che è, un’ora e mezza è veramente tanto. Intanto Marcel Dettmann al Panorama Bar. Citiamo testualmente un amico presente, parole in cui ci ritroviamo totalmente: “C’ha provato a suonare da Panorama Bar: venti minuti così e capisce che non ce la fa. Torna ad essere il fabbro di sempre e siamo tutti più contenti.”
TR\\ER, ovvero Truss & Tessela, come se scoppiassero le bombe dentro il Berghain. Un live divertentissimo, a tratti disarmante, senza orpelli. Casse hardcore e sonorità rave condiscono una torta perfetta, detonazioni ad ogni passaggio. La gente si diverte e il dancefloor si stipa come nelle grandi occasioni. Concrete Fence è il bizzarro “accordo” stretto fra Regis e Russel Haswell, techno e saettate industriali, due ore a velocità massima, dove ogni curva è uno scintillare di carrozzerie contro i guardrail.
Il sabato allo Stattbad la storia cambia, altri suoni, altre visioni, come quelle dentro la piscina vuota con il live presentato da Mark Ernestus: Jeri-Jeri. I musicisti sono di una tecnicità indefinibile, ma il concerto dura troppo anche in questo caso, manca un’evoluzione sostanziale nelle sonorità, si sente veramente poco del potenziale che c’è nelle produzioni. Boddika da forfait all’ultimo minuto, sostituito da mr. Shackleton, la macchina dei sogni e delle visioni non si smentisce. Sulle nostre teste ballano gli scheletri posseduti dal voodoo, come burattini di ossa e polvere di stelle. Balliamo noi, ipnotizzati dal Professore. Grande nota di merito per il duo belga-italiano Lumisokea, un live buio fatto di rumori che diventano suoni commoventi per poi tornare ad essere spire sottopelle, in una discesa vorticosa negli angoli nascosti della musica elettronica, fino alla deflagrazione che si abbandona di eco distorti e cassa. Karen Gwyer usa la magia con il sintetizzatore, trascina la gente in un bosco freddo, lei che è un po’ la strega dell’avant-techno e, con dita sottili, la sparge come luce buia intorno a noi.
La curiosità ci spinge in “Sala Boiler”, dato che sta suonando Fatima Al Qadiri. Le sonorità sono quelle black dell’hip hop e della trap, lei è immobile, china davanti al laptop, non usa effetti, non usa controller. E’ una playlist. Torniamo a cibarci di droni e idm con Basic House, il suo live ci cattura, ma è troppo corto, lascia l’amaro in bocca, come iniziare un viaggio siderale bucando una gomma appena oltre lo Stargate. Lotic e M.E.S.H., di nuovo in Boiler Room, trascinano la gente alla chiusura, shakerando natiche a suon di breakbeat, decisamente più partecipativi della loro collega Fatima.
Noi ci rannicchiamo, invece, attorno all’epilogo dub techno di 1991, fino a quando la piscina si svuota, la Boiler si spegne e noi rimaniamo l’ultimo valoroso baluardo che muove ancora le braccia e le gambe, ma ad occhi chiusi, un attimo prima che il giorno ci accechi.