“Ehi, ma questo cos’è, in che direzione va?“: capita sempre meno spesso, quando per lavoro o per passione ascolti musica a getto continuo da anni ad anni, dirsi fra sé e sé questa frase. Un po’ perché oggi è molto più facile (ed economico…) di prima ascoltare tanta musica, ed avventurarsi liberamente fra generi e suoni diversi; un po’ perché è anche più facile farla, la musica, col risultato che magari si sbatte meno la testa su una serie di difficoltà ma, al tempo stesso, si è meno stimolati a trovare delle risposte personali ed atipiche per superarle. Sia come sia, “Linear Burns” di D.In.Ge.Cc.O è riuscito esattamente in questo effetto. E il secondo pensiero, con lo scorrere dei brani, è stato: “Oh, ma è pure molto bello ed interessante, caspita“. E’ scattato allora l’approfondimento di un personaggio che in realtà ha già una storia abbastanza lunga dietro di sé e che, soprattutto, ha uno spessore non banale. Anche nel modo di esprimersi. C’è chi a domande di un certo tipo dà risposte stitiche e smozzicate e c’è invece chi, come Gianluca D’Ingecco, ti spiega tutto per bene. Anche perché ha evidentemente molto da dire.
Perché scegliersi il moniker più difficile e complicato del mondo da scrivere correttamente?
Riuscire a sintetizzare quello che fai o il mondo che vuoi rappresentare con un nome o poche parole, quando il tuo è un progetto musicale o comunque creativo, l’ho sempre ritenuta una delle cose più difficili da immaginare. Ma viviamo nell’era della sintesi, dove tutto si deve esprimere in modo semplice, chiaro e ad effetto e sembra che sia inevitabile che un po’ ci si debba adeguare a questa logica, volenti o nolenti. Più il nome è breve, più sarà facile da ricordare e più il risultato commerciale sarà assicurato. E’ così che oggi vanno le regole nell’era della sintesi. Ecco, la mia è stata una reazione contraria rispetto a queste logiche, un atto di disobbedienza. Che poi, alla fine, ragionandoci, non è proprio così. Cos’è la prima cosa che fai quando magari ti capita di ascoltare alla radio, o in rete, una canzone che ti colpisce, che ti ha intrigato o incuriosito? Cerchi di capire chi è l’autore, vai su Google e magari al primo tentativo non trovi nulla perché l’hai scritta male quella parola. E poi ti chiedi, ma che caspita di nome è? Allora le cose sono due, o cerchi di capire meglio e approfondisci o lasci perdere la ricerca. A me piace un pubblico reattivo, cerco un pubblico curioso, che abbia voglia di conoscermi e approfondire, che abbia voglia di capire se dietro all’acronimo complicato e un po’ surreale, ci sia, effettivamente, un significato. Che abbia la pazienza e la voglia di conoscere cosa ci sia dietro quella musica che lo ha colpito, che non l’ha lasciato indifferente. D.In.Ge.Cc.O sta per “Digital Innovations Generate Creative Cool Oxygen” e magari, d’ora in poi, chi cercherà su Google il mio acronimo e vorrà scoprire il suo significato, sarà indirizzato direttamente nella pagina web dove sarà pubblicata questa intervista. Capirà che questa frase è un omaggio alla nuova era democratica-creativa nata con la musica digitale mentre altri, magari più “addetti ai lavori”, troveranno una chiara citazione al primo LP di grande successo commerciale nell’era moderna della musica elettronica, ovvero Oxygen di Jean Michel Jarre. I complottisti e i più maliziosi non mancheranno di vederci anche riferimenti esoterici (lascio nel dubbio se a torto o a ragione…), mentre gli amici ci vedranno solamente un gioco stilistico e grafico legato al mio cognome. In ogni caso, se cerchi su internet “dingecco” senza tutte le maiuscole e minuscole e i puntini, mi trovi lo stesso!
E’ una domanda banale, ma forse nel tuo caso le risposte in arrivo possono essere interessanti: quali sono i tuoi riferimenti musicali? Quanto guardano al passato, e quanto invece al presente o addirittura al futuro?
Non mi ricordo chi dei due, dei Chemical Brothers, rilasciò qualche tempo fa un’intervista molto interessante in cui diceva che la musica elettronica era ad un bivio, che per poter guardare avanti, verso il futuro, fosse necessario guardare indietro, nel passato. Io credo che questa sia una grande verità. I Daft Punk ancora prima, fecero propria questa teoria pubblicando “Random Access Memories” nel non lontano 2013, un disco chiaramente funky e disco che sembrava uscito direttamente dagli anni 70 o dai primi anni 80, volendo fare, appunto, un omaggio, a tutta la musica disco delle origini, citando palesemente i propri punti di riferimento come quel geniaccio di Moroder. Questo naturalmente scandalizzò i puristi dell’elettronica che non capirono molto il senso di quel lavoro che forse si, fu un po’ troppo citazionista e radicale. Comunque io penso che il mio modo di fare musica parta un po’ da quella considerazione che citavo all’inizio, non rimanendo però ancorato solo agli anni 70 ed esclusivamente alla musica disco (che ha dato tanto alla musica elettronica ma che non ne rappresenta la sua totale storia o complessità). Kraftwerk, Vangelis, Art of Noise, il già citato Jean Michel Jarre, per richiamare alla memoria i più famosi musicisti di musica elettronica degli anni 70, ma anche tutto il mondo legato alla musica sperimentale elettronica, Maderna, Nono, Berio, sono sicuramente tra i miei punti di riferimento. E poi chiaramente tutta la disco, senza distinzioni di generi. Ho vissuto da ragazzino l’era della nascita della house music che partendo da Chicago e da Frankie Knuckles ha spopolato in tutto il mondo. Così come quello della techno di Kevin Sauderson. Ho amato la svolta della cosiddetta IDM europea della Warp Records, i Plaid, Aphex Twin, i fratelli Sandison dei Boards of Canada. Se poi dovessi citarti un disco che mi ha convinto, da giovanissimo, a passare dallo studio del pianoforte a quello dei sintetizzatori, ti direi Screamadelica dei Primal Scream e del compianto Andrew Weatherall. A parte il filo conduttore legato alla musica elettronica, che mi ha sempre accompagnato sin da bambino, nella mia vita sono comunque sempre stato un melomane, amo ascoltare ogni genere di musica, scoprirne di nuova e di vecchia. Sono stato sin dalla tenera età e sono tutt’ora, un amante appassionato della musica classica e jazz, ho avuto anche altri innamoramenti, da adolescente, (molto contrastanti tra di loro), sia per la musica metal e trash metal, così come per quella reggae di Bob Marley; ho amato e amo la new wave anni 80, i Depeche Mode, i Duran Duran gli Alphaville e ho vissuto sentitamente il grunge, l’ultima fiammata della storia del rock. Poi ho cercato sempre di evolvermi, nei gusti e nello studio delle dinamiche legate alla musica contemporanea e sono sempre stato attento alle evoluzioni di costume che la musica ha avuto la forza di rappresentare nella società, sia nelle epoche che ho vissuto personalmente che in quelle del passato. Ah dimenticavo, parlando di musica italiana e di riferimenti musicali, Franco Battiato, fonte immensa di ispirazione in molti campi della mia esistenza, uno dei miei mentori.
Dove ti piacerebbe essere infilato: indie? Elettronica? Funk? Musica sperimentale? Non vale rispondere “No, io non voglio essere incasellato…”: il mercato oggi pretende delle scelte di campo!
Ti rispondo senza dubbio alcuno. Io faccio musica elettronica. Se guardi su wikipedia ti da questa definizione: “Per musica elettronica si intende tutta quella musica prodotta o modificata attraverso l’uso di strumentazioni elettroniche.” E’ questo il mezzo espressivo con cui faccio musica. La musica elettronica ricomprende un mondo vasto di sottogeneri e a volte faccio musica che può appartenere ad un sottogenere piuttosto che ad un altro ma sempre di musica elettronica parliamo. Sono sempre stato amante della tecnologia e uso sintetizzatori analogici e digitali, campionatori analogici e digitali e tutto quello che può offrire, oggi, la tecnologia in campo musicale. Le contaminazioni? Fanno parte della musica elettronica, ne sono ormai un substrato imprescindibile. E ti dirò, non ho mai avuto paura delle etichette, ho sempre avuto paura dell’esigenza, tipica della nostra epoca, di catalogare ogni cosa in dei cataloghi già esistenti e spesso di sotto-catalogarla addirittura. Catalogare le cose è un po’ come esorcizzare le paure. Se non sei catalogabile sei un corpo estraneo, qualcosa che, in un certo senso, disturba. Poi è verissimo che il mercato pretende delle scelte di campo, come dici tu, e io, questa scelta di campo, l’ho fatta! Ripeto: faccio musica elettronica. Ma la catalogazione è una cosa diversa dalla scelta di campo. Come si sarebbe potuto catalogare il già citato “Screamadelica” nel 1991? O “Pet Sounds” dei Beach Boys nel 1966? Le etichette vengono sempre messe a posteriori. A me basta sapere di fare musica elettronica così come, oggi, mi piace farla e di avere prodotto un’“idea di musica”, la mia idea. Lascio ai posteri l’ardua sentenza della catalogazione.
(Album difficili da catalogare – ma belli, ed interessanti; continua sotto)
Nella tua bio vengono citati i viaggi a Chicago e Berlino, due città musicalmente iconiche: quale delle due hai trovato più interessante? E perché?
Sono stato a Chicago per respirare l’aria della città dove è nata l’house music che tanto mi ha influenzato artisticamente. Ho trovato una città splendida ma a tratti anche inquietante. A differenza di New York, Chicago rappresenta davvero gli Stati Uniti D’America. New York, d’altro canto, è davvero una capitale mondiale, si respira un’aria familiare, per certi versi, ed è difficile che ti possa trovare a disagio. Almeno a me ha fatto sempre questo effetto. A Chicago invece respiri di più tutte le contraddizioni americane. Vedere le motovedette della guardia costiera sul lago Michigan, con a bordo un M60 puntato sulla folla di gente che stava vedendo lo spettacolo dei fuochi d’artificio, mi ha fatto un certo effetto. Così come la polizia, che finita la manifestazione, aiutava, o meglio faceva rigare dritto, la folla che attraversava la strada (me compreso) esclusivamente sulle strisce pedonali. Ho avuto la fortuna di essere ospitato da un amico di Chicago che aveva la casa un po’ in periferia a Oak Forest. Viveva in una di quelle classiche villette a schiera, ognuna con il suo giardinetto e la bandiera americana alla porta. Il vicino di casa con un fucile a pompa nel portabagagli della sua bellissima Lincoln, che ti saluta con la massima cordialità con un sorriso enorme stampato in faccia. Dalla cima dei grattacieli invece, (la Skyline di Chicago è bellissima) si possono vedere le immense distese di casermoni della Chicago industriale, la cui estensione si perde a vista d’occhio. E li ho capito che di fronte al lusso della City c’era l’altra faccia della medaglia costituita da una città che aveva visto nascere il capitalismo moderno e le prime lotte sindacali per i diritti dei lavoratori. Insomma quelle contraddizioni che sono tipiche degli Stati Uniti d’America, a Chicago, le vedi tutte. E questo è al tempo stesso inquietante quanto affascinante. Berlino è la patria della trilogia di Bowie del periodo berlinese con Brian Eno al suo fianco e anche se può sembrare retorico, ci ho sempre trovato tutte quelle suggestioni evocative presenti nei dischi registrati agli Hansa Studios. Berlino è una città che si muove sempre però e che oggi ti da proprio questa sensazione, di una città in continua evoluzione. E’ caduto il muro dai tempi in cui fu scritto “Heroes” e in città si respira ancora quel senso di libertà ritrovata. I padroni della città sono i giovani. Ci sono dei locali bellissimi a Berlino, locali dove si socializza, ci si diverte e si ascolta ottima musica. Pub o discoteche, after hour o aperitivo, non c’è differenza, tutto viene mescolato in una dimensione senza spazio né tempo. Berlino è una città che ha fatto dell’avanguardia il suo stile di vita e non solo in campo artistico. Vorrei tornarci appena potrò a Berlino, così come mi piacerebbe tornare a Chicago; ma se mi chiedi quale scegliere tra le due, credo che sceglierei Berlino. E’ forse, oggi, in Europa, la città che guarda di più al futuro ma senza mai dare l’impressione di dimenticare il suo passato. E’ la città che rappresenta di più il sogno degli Stati Uniti d’Europa, e forse quella che ci crede di più.
Quanto è importante avere una solida preparazione tecnica “da pentagramma” quando ci si approccia alla musica elettronica?
E’ una questione di padronanza di un linguaggio. Quando sai parlare bene una lingua straniera puoi permetterti di esprimere concetti complessi o comunque al meglio quello che vuoi dire. Ma chiaramente, se non hai nulla da dire d’interessante, i tuoi discorsi rimarranno banali anche se li esprimerai con mille parole o artifici linguistici. Per la musica vale la stessa cosa. Ne puoi conoscere tanta di musica, averla studiata a fondo, ma se non hai nulla da dire le tue conoscenze rimarranno pura accademia. La capacità di emozionare dipende dal livello raggiunto dalla tua sensibilità, da quello che ha da dire il tuo mondo interiore. Nella poesia, ad esempio, ci possiamo emozionare per pochi versi sino a commuoverci e invece rimanere impassibili di fronte a lunghe dissertazioni. Non si studia per diventare artisti. Gli artisti possono studiare per ampliare le loro possibilità di esprimere il proprio mondo interiore. L’ossessione di comunicare la propria visione del mondo agli altri, tipica caratteristica di ogni creativo, un artista vero ce l’ha innata perché sente, dentro di se, il richiamo del proprio “daimon”, da cui non può sfuggire. Oggi, grazie alla tecnologia ed in particolare alla tecnologia digitale, abbiamo assistito ad una rivoluzione democratica nel fare musica. Questa cosa, per certi versi, ha creato un’ intasamento delle produzioni musicali in un marasma nel quale è difficile capire e comprendere dove sia la qualità e dove non ci sia o anche se la si riconosce, questa qualità, poi rimane isolata e schiacciata dalle rigide regole del mercato omologato. Tuttavia sono certo che, allo stesso tempo, questa rivoluzione democratica sta consentendo, a chi ha dentro quel “daimon” di cui parlavo prima e naturalmente del talento, di riuscire ad esprimere la propria creatività spendendo magari pochi soldi per comperarsi le attrezzature necessarie e con un minimo di conoscenze musicali, può riuscire a dare corpo, in modo professionale, al suo talento. In fondo tutte le più significative tendenze musicali, sono nate in dei garage o cantine adibite ad home studios e questo riguarda soprattutto la musica elettronica. Poi sta a tutto il mondo che gira intorno all’industria musicale avere il coraggio di fare un passo diverso dalla certezza del successo commerciale. Se tutto girasse intorno a questo non ci sarebbe spazio per la crescita artistica di nessuno, nemmeno della qualità del gusto degli ascoltatori. Perché anche quello, va costruito. Per fortuna, però, oggi, schiacciati da decenni di monopolio delle Major e dalle indagini di mercato su quello che alla massa omologata piace e può comprare, c’è un movimento, che per comodità possiamo definire underground, che si muove nella rete web, composta da persone, giovani e meno giovani, che vanno a cercare cose musicalmente più interessanti, che non ne possono più delle solite canzonette fatte a tavolino e vendute ai tredicenni. Che hanno bisogno di novità. Questo movimento di utenti della rete, un po’ più esigenti degli altri, che non si limita ad ascoltare la musica solamente in quei 20 minuti in radio mentre va a lavoro, o quei cinque minuti mentre si fa la doccia, ma che magari sente la necessità di ascoltarla a casa seduto sul divano, con calma, sta prendendo sempre più voce, tanto da ricevere attenzione anche dalle citate Major e dal sistema che gravita intorno al mondo commerciale della musica nel suo complesso (compresi i talent show). Sono quindi fiducioso per il futuro, ognuno ha bisogno di ascoltare ciò che è in grado di appagare emotivamente la sua sensibilità perché la musica è un bene essenziale dell’anima e come tale è unico e differente per ognuno di noi e non può essere ingabbiato o omologato.