Marco Ricci è sempre stato un personaggio ispirato ed ispiratore. Nel corso della sua lunga carriera si è dedicato a tanti progetti e moniker che hanno raccontato frammenti della sua vita, e forse, anche di quelle altrui. Casa del Mirto, Death By Pleasure, KKOT e una nuova vita come pittore nel variegato panorama dell’arte contemporanea. Un’escalation difficile da comprendere dall’esterno, arrestandosi alla superficie delle cose. Nella realtà invece è l’interessante racconto di un uomo intellettualmente onesto, che si ferma quando sente di non avere più nulla da dire, arrivando persino a volersi estinguere artisticamente e dedicando un progetto a questa audace missione. Ci siamo seduti di fronte a lui e alle sue molteplici personalità per capire chi è o cos’è KKOT, e chi è Marco Ricci II, l’artista dietro alcune delle tele più originali, circolate in Italia nel corso degli ultimi mesi.
Come nasce musicalmente il progetto KKOT?
Musicalmente sono sempre stato bipolare, eternamente diviso tra un mood sentimentale ricco di melodie, affine al pop che non esiterei a definire orecchiabile, mentre dall’altra parte ho scoperto in tempi per nulla recenti di avere un animo minimalista, che mi ha spinto in tante sperimentazioni a togliere ogni tipo di suono fino a raggiungere quella che può essere, almeno per me, la definizione di essenziale. Un lato della mia personalità arrangia e arricchisce, mentre l’altro toglie e cerca di spogliare ciò che mi circonda fino al fulcro. Lo faccio in tutto anche nella vita. A livello grafico, in tanti dei lavori che ho portato avanti si percepisce l’influenza di minimalismo ed esistenzialismo. Per quanto riguarda le tele, la mia più recente passione che mi ha assorbito completamente, sono onestamente più pop e fruibile. Mi accorgo di questo dualismo anche nei film che guardo, ed in generale nelle cose a cui mi dedico nel tempo libero. Se mi guardo indietro c’erano diversi indizi che mi hanno condotto a questa conclusione. Ho sempre ascoltato musica che potrei definire “concreta”. Dai finlandesi Pan Sonic a Mika Vainio, un mio feticcio a cui mi sento molto aderente in termini di sound. Dopo la sua scomparsa sentivo di avere bisogno di altri suoi dischi e alla fine ho deciso di produrre quel tipo di sound, con quella stessa ispirazione. Vedilo come un modo di trovare conforto o di alimentare una parte di me che altrimenti sarebbe rimasta arida e priva di qualcosa di importante.
Tutto questo quando avviene precisamente nella timeline della tua vita?
È stato un percorso lungo. Nel 2001 mi trovavo a Roma e lavoravo per la Twilight Music di Paolo Micioni. Cercavo di fare sperimentale già all’epoca ma lavoravamo prevalentemente su urban chill, lounge e chillout. Dopo di che è iniziato il progetto Casa del Mirto in cui ho provato a suonare tutti gli strumenti, cercando quel qualcosa di cui percepivo inconsciamente di avere bisogno. C’è stata anche una parentesi con un duo garage, i Death By Pleasure (ride n.d.r). Con Casa del Mirto facevo synth pop e chill wave, con le melodie e i testi ma soprattutto con il mixaggio low-fi. Ci sono delle tracce che sembrano molto happy di CDM e invece hanno dei testi molto deprimenti. Mi dava fastidio vedere la gente sorride e ballare su brani come ‘The Rideway’ che invece è un brano che parla del suicidio. Mi sentivo vecchio per quel sound e sentivo che stavo ripetendo cose già fatte. Quindi ho deciso di esprimermi solo con suono senza testo, fattore che comunque facilita la lettura di un brano. Con KKOT questa cosa riesco a farla pur cercando di essere il più obiettivo possibile. Vorrei non mettere troppo di me per far si che l’interpretazione sia il più personale possibile. È il progetto a cui sono più legato perché è quello più intimo e personale possibile. Nessuno può dirmi cosa fare, KKOT è 100% Marco Ricci, o meglio l’anima che abita questo corpo, anche se ci sono dei momenti ironici, che mi fanno sorridere in cui porto al limite il suono, anche solo per dare fastidio, per generare una reazione. È strano da descrivere, anche perché nel mio privato ho playlist apertamente trash, e non me ne vergogno.
Quanto e quando hai lavorato sull’ultimo album come KKOT? La pandemia ha avuto un ruolo nella sua realizzazione?
Ho impiegato un anno soprattutto per capire che tipo di suono volevo. Ci metto molto a tradurre il pensiero in musica, poi una volta che mi sono chiarito le idee posso finalizzare l’album in circa 15 giorni. Se non ottengo quello che voglio mi arrabbio, spengo il PC e lascio perdere per un po’. Sono molto sanguigno, mi arrabbio perché ci tengo. Inoltre registro su un multitraccia quindi la produzione è un lavoro di artigianato puro, molto sartoriale ed ogni modifica richiede tempo ed attenzione. Molte volte ricampiono il suono in qualche disco vecchio che ho già prodotto per riprocessarlo. KKOT è l’evoluzione costante del mio io precedente. Sembra che in KKOT non ci siano regole ma invece ce ne sono, e fidati, sono molto rigide. Lavoro sui singoli suoni tentando di creare un flusso organico, mi piace restare dentro una fascia di frequenza restando con ogni singolo campione in quel range specifico di frequenze. La dinamica si crea con un flusso di sequenze che però rispettano questa regola. Questo perché le frequenze stimolano l’essere umano. Il suono è stato usato nella storia anche come arma. Un disco di KKOT non va ascoltato, probabilmente va subìto (voce del verbo subire specifica n.d.r). Ho lavorato a questo disco poco dopo la fine del lockdown. Non c’è nulla del Covid e del lockdown in questo album, mi ritengo abbastanza ermetico su ciò che accade nel mondo mentre sono molto ematico con ciò che accade nella mia vita. Direi che è qualcosa che racconta più delle mie evoluzioni interiori, che dei grandi avvenimenti che ci circondano. Essenziale anche questo dopo tutto.
(continua sotto)
E con che tipo di setup riesci a raggiungere un obiettivo di questo tipo?
Cerco di utilizzare meno strumenti possibile imparando a sfruttarli al massimo. Ho tre sintetizzatori, droni. Uno costruito da un russo, uno da un americano mentre l’altro è un mono lancet, registratore ambientale per registrare i suoni esterni ed un rack di effetti hardware. Non seguo un format prestabilito, mi concentro sulla narrazione sfruttando molto anche i silenzi e le pause. Il silenzio ha lo stesso valore del suono, anzi…alle volte lo supera!
Ci sono ispirazioni ambientali o sociali in KKOT?
Le persone influenzano CDM ma non KKOT. L’ambiente invece si. Cerco di portare a casa un mood e trasmetterlo. Ma alla fine KKOT è un progetto chirurgico di cut & paste dove cerco di comunicare il meno possibile e di essere ermetico.
KKOT obbliga l’audience ad una fatica ulteriore per interpretare rispetto ai tuoi precedenti progetti?
Tutti gli amici che hanno ascoltato KKOT non l’hanno capito ma non l’hanno giudicato. Quelli con l’orecchio più esperto hanno compreso cosa volevo dire e per ciò ritengo che KKOT abbia una piccola barriera di ingresso che mi sono creato dopo CDM. Non volevo capirmi ed essere capito, e tutto sommato è una scelta facile.
“KKOT nasce nel momento in cui muoio io, metaforicamente, volendo rendere protagonista solo il suono senza che nessuno se ne possa prendere il merito. Uno svuotamento dell’io.”
Perché ritieni che sia una scelta facile?
Perché è una scelta pigra. Quindi la scelta è facile. Ma cercare di non comunicare è comunque difficile e sfidante. Se qualcuno come nel mio caso non vuole dire niente pur avendo qualcosa da dire diventa tutto più semplice. Non voglio che si senta Marco Ricci in KKOT, o che KKOT sia riconducibile ad una persona fisica. Non voglio essere io l’autore ultimo, voglio che sia l’esperienza più spersonalizzante possibile. Da qui la ricerca dell’essenzialità nel suono, nel setup e nelle idee. KKOT nasce nel momento in cui muoio io, metaforicamente, volendo rendere protagonista solo il suono senza che nessuno se ne possa prendere il merito. Uno svuotamento dell’io.
Scappare da sé stessi è difficile…
Assolutamente, ma anche annullarsi lo è.
KKOT nasce perché ti sei pentito artisticamente di qualcosa che hai fatto in passato?
Pentito no, spesso mi capita di risentire cos’ho fatto in passato. Mi sono comunque stufato della superficialità nella mia musica ed in quella altrui. Ritengo che la musica si stia un po’ appiattendo, seguendo trend prestabiliti dando più risalto ai personaggi che all’opera artistica. Mi sembra che siamo arrivati ad un vuoto dell’esistenza totale che trovo angosciante, persino più angosciante del mio disco.
È in questo momento che hai deciso di muoverti su altri territori artistici? Di allontanarti dalla musica?
Da quando sono bambino disegno e sono appassionato di arte contemporanea, cerco un metodo che mi appartenga, e non l’ho ancora trovato. Forse sono sulla strada giusta perché inizio ad essere soddisfatto di ciò che faccio. La tela è dove al momento voglio esprimere me stesso, visto che con KKOT non lo voglio fare. KKOT ha estinto le mie emozioni mentre le tele le hanno fatte sfociare come un fiume in piena.
Qual è stato il momento in cui hai iniziato a dipingere?
Ho sempre esposto a casa mia per me stesso. Quando alcune persone appassionate d’arte hanno visto cosa facevo mi hanno spinto ad andare oltre, con un evento in cui ho dipinto e creato allestimenti che le persone alla fine di esso potevano portare via gratuitamente. Il trigger per l’inizio di questa avventura è stato Club Malizia ed adesso ci sono altri quattro eventi programmati in club, più due mostre personali dedicate in giro per l’Italia.
Ci sono altri scopi e finalità nella pittura?
Con la pittura esce il mio lato ironico che annullo con KKOT. Ho sempre odiato i colori, preferivo il bianco e nero e invece così sono uscito dalla mia zona di comfort sperimentando con tonalità e suggestioni cromatiche. L’opera di per sé non è nemmeno il quadro ma il momento in cui lo faccio.
Hai bisogno di entrambe queste personalità per essere in equilibrio?
No, quando faccio una cosa si annulla l’altra. Con l’arrivo del freddo forse tornerà ad essere predominante il lato di KKOT lasciando i colori un po’ in disparte.
Credi che in futuro sarà possibile conciliare il tuo essere artista in musica e artista nella pittura?
Con KKOT sto lavorando a due installazioni. La prima sarà una sonorizzazione di una mostra personale a Milano e la seconda sarà un’installazione in cui invece sarò direttamente coinvolto nell’opera. Sono curioso di capire come si comporterà Marco Ricci II quando e se incontrerà KKOT.